QUANTO MI COSTI?
La termovalorizzazione è il più costoso sistema per lo smaltimento dei rifiuti e tutti gli italiani, a loro insaputa, pagano generosi incentivi a suo sostegno.
Federico Valerio
La campagna pubblicitaria a favore dei termovalorizzatori, gestita alla grande da tutti i mezzi di comunicazione di massa, omette volutamente due essenziale informazione: “Quanto ci costa e chi paga?”.
In base a documenti dell’Unione Europea, la risposta alla prima domanda è che la termovalorizzazione è il metodo più costoso per smaltire rifiuti.
In Austria, l’incenerimento di una tonnellata di rifiuti da parte del termovalorizzatore di Vienna, quello che si dice sia nel centro della città e che è stato affidato alle cure estetiche di un fantasioso architetto, costa ben 148 Euro.
In Danimarca, termovalorizzare i rifiuti nell’impianto di Copenhagen che si vuol far credere sorga vicino alla “Sirenetta”, costa 97 euro a tonnellata.
Bruciare i rifiuti in Germania costa un po’ meno: 88 euro per tonnellata.
A confronto, il compostaggio e la digestione anaerobica con produzione di biogas costano decisamente molto meno, rispettivamente, 50 e 65 euro per tonnellata.
Più economica della termovalorizzazione è anche la bio-ossidazione con messa a discarica degli scarti stabilizzati e compressi, il cui costo medio in Europa si attesta su 75 euro a tonnellata.
I minori costi degli inceneritori tedeschi, rispetto a quelli Danesi e Austriaci hanno una spiegazione. La Germania è ricca di vecchie miniere di salgemma dove si possono stoccare in sicurezza le cosiddette ceneri volanti, ossia tutto quello che rimane nei filtri dopo la depurazione dei fumi degli inceneritori, veri e propri rifiuti tossici in quanto contengono, ad alte concentrazioni, metalli pesanti, diossine, furani, idrocarburi policiclici.
E in queste stesse miniere di salgemma finiscono i rifiuti tossici prodotti dall’inceneritore di Vienna e dall’inceneritore di Brescia, mentre i Danesi, per risparmiare, esportano le loro ceneri volanti nella vicina Svezia.
E questo traffico di rifiuti tossici costa una bella cifra: per ogni tonnellata di ceneri volanti gli austriaci pagano 363 euro e i tedeschi 255 euro.
E le quantità di questi rifiuti tossici, prodotti da mega-inceneritori come quello di Brescia (700.000 tonnellate all’anno) è tutt’altro che trascurabile, in quanto pari a circa il 5% della quantità dei rifiuti termovalorizzati . Ciò significa che l’inceneritore di Brescia ha una produzione di rifiuti tossici , sotto forma di ceneri leggere, pari a 35.000 tonnellate l’anno.
E lo smaltimento dei rifiuti solidi e liquidi prodotti da un termovalorizzatore incide non poco su i suoi costi di gestione, circa il 20 % e altrettanto cari sono i costi di gestione e di ammortamento degli impianti di trattamento fumi.
Anche in Italia termovalorizzare rifiuti è una scelta che si paga a caro prezzo: mediamente, 90 euro a tonnellata.
Eppure, nel nostro paese smaltire le ceneri volanti costa molto poco (129 euro a tonnellata). Sarebbe interessante capire in quale modo riusciamo ad avere prezzi così bassi anche perché, come sappiamo, l’Italia non ha miniere di salgemma disponibili per lo stoccaggio di rifiuti pericolosi.
Ma la via Italiana alla termovalorizzazione dei rifiuti ha altre singolari particolarità.
Mentre Austria, Danimarca, Belgio tassano la termovalorizzazione dei rifiuti (da 4 a 71 euro a tonnellata) in Italia questa tecnologia è incentivata con generose offerte in danaro, pagate all’elettricità prodotta bruciando spazzatura.
In tutt’Europa la vendita di elettricità prodotta bruciando rifiuti avviene a prezzi molto simili a quella dell’elettricità prodotta da fonti convenzionali (olio combustibile, carbone, metano), pari a circa 4 centesimi per chilowattora.
In Italia, la vendita di elettricità prodotta con un termovalorizzatore frutta al gestore dell’impianto da 9 a 14 centesimi a chilowattora, a seconda che l’incentivo economico si avvalga dei vantaggi previsti dai “certificati verdi” o del cosiddetto CIP6.
In entrambi i casi si tratta di incentivi che sarebbero dovuti andare alle fonti di energia rinnovabile (solare, eolico, biomasse) e che invece vanno a favorire la termovalorizzazione dei rifiuti, dichiarati per legge, tutta italiana, fonte energetica rinnovabile.
Questo significa che il gestore, per ogni tonnellata di rifiuto termovalorizzato, grazie all’elettricità prodotta (0,5 chilowatore per chilo di rifiuto termovalorizzato), riceve un incentivo che varia da 25 a 50 euro.
Questi soldi escono dai portafogli di tutte le famiglie italiane e questa (le famiglie italiane) è la risposta alla seconda domanda che ci siamo fatti all’inizio di questa chiacchierata: chi paga?
In questo caso, gli incentivi all’incenerimento sono pagati con la bolletta della luce; una vera e propria tassa occulta che si aggiunge alla tassa sui rifiuti che è già cara ma che è destinata ad aumentare quando, come prevedono tutti i Piani Provinciali, si termovalorizzerà il 65% dei rifiuti prodotti dagli italiani.
Attualmente, circa il 60% dei rifiuti prodotti in Italia è inviato in discarica e il costo medio della discarica (64 euro a tonnellata). è molto più basso dell’incenerimento
Con l’attuale sistema di raccolta e smaltimento dei rifiuti e con l’attuale produzione pro-capite di rifiuti (circa 550 chili all’anno), il costo a carico delle famiglie per lo smaltimento di un chilo di rifiuti è di circa 12 centesimi.
Quando in Italia saranno in funzione tutti i 140 termovalorizzatori programmati, sarà inevitabile un generalizzato forte aumento della tassa sui rifiuti, che si prevede possa essere pari al 40% in più, rispetto all’attuale valore. In questa situazione, il costo pagato dalle famiglie per lo smaltimento di un chilo di rifiuti potrebbe arrivare a circa 17 centesimi.
Ma, se la scelta della termovalorizzazione spinta andrà avanti, il costo reale della termovalorizzazione, sempre a carico delle famiglie italiane, sarà ancora maggiore.
Pochi sanno che ogni volta che compriamo qualche cosa, paghiamo 7 centesimi per ogni chilo di imballaggio con cui è confezionato il nostro acquisto: contenitore in vetro, plastica, metallo, scatola di cartone, involucro in plastica, sacchetto.
Questa tassa va al Consorzio Nazionale Imballaggi (CONAI) e dovrebbe servire a coprire i costi per la raccolta e il riciclaggio degli stessi imballaggi.
Ma l’Italia ha i più bassi tassi di riciclaggio in Europa (circa il 20%), destinati a rimanere bassi, grazie alla “furbata” tutta italiana di far diventare, per legge, la termovalorizzazione una forma di riciclo.
Pertanto, la tassa pagata per il riciclo degli imballaggi non è, e non sarà utilizzata per gli scopi previsti se saranno costruiti tutti i termovalorizzatori che qualcuno vorrebbe (uno per ogni provincia) e questo potrebbe configurarsi come una colossale truffa a danno di tutti gli italiani.
In conclusione, un chilo di imballaggi termovalorizzato, conteggiando la futura tassa rifiuti (17 cent.), la tassa riciclo imballaggi (7 cent.) e il costo dei certificati verdi (9 cent.) costerà alle famiglie italiane circa 33 centesimi (639 lire).
La propaganda a favore dei termovalorizzatori cerca di sminuire il ruolo del riciclaggio come soluzione del problema rifiuti, insinuando l’idea (falsa) che sia una pratica molto costosa.
I materiali post consumo raccolti con tecniche che ne garantiscono la qualità richiesta dal mercato del riciclo, sono pagati dalle aziende che li utilizzano nei loro cicli produttivi, a cifre molto interessanti. Lo studio commissionato dalla Unione Europea fornisce qusti dati, basati su un’indagine realizzata in tutti i paesi dell’unione nel 2001: 945 euro per una tonnellata di alluminio, 610 euro per una tonnellata di polietilene, 475 euro per una tonnellata di carta d’ufficio.
E, ovviamente, tutto quello che è riciclato non deve essere smaltito e sommando il conseguente risparmio con il guadagno derivante dalla vendita dei materiali raccolti in modo differenziato si scopre che la raccolta differenziata di qualità e il riciclaggio costano meno della raccolta indifferenziate e la termovalorizzazione.
Qualcuno insinua che non esiste mercato per i materiali post consumo. E’ un’altra falsità: i cinesi stanno facendo incetta di plastica raccolta in modo differenziato sul mercato internazionale, compresa l’Italia, e pagano 350 euro a tonnellata, le bottiglie di PET che noi buttiamo via o termovalorizziamo a caro prezzo.
Queste stesse bottiglie, inviate in Cina, sono riciclate e ritornano nei nostri mercati sotto forma di prodotti a prezzi stracciati, mentre le industrie italiane, in mancanza di plastica post consumo, indispensabile per alimentare gli attuali e futuri termovalorizzatori, sono costrette ad usare plastiche vergini, più costose e con consumi energetici molto più elevati di quelli recuperati con la termovalorizazione.