Traduzioni

30 aprile 2008

Algebra *

di Simone Weil

Denaro, macchinismo, algebra. I tre mostri della civiltà attuale. Analogia completa.

L’algebra e il denaro sono essenzialmente livellatori: la prima intellettualmente, l’altro effettivamente.

Da circa cinquant’anni la vita dei contadini provenzali ha smesso di somigliare a quella dei contadini greci descritti da Esiodo. Distruzione della scienza quale la concepivano i Greci circa alla medesima epoca. Il denaro e l’algebra hanno trionfato simultaneamente.

Il rapporto tra segno e cosa significata scompare; il giuoco degli scambi fra i segni si moltiplica da sé e per sé. E la complicazione crescente esige segni di segni…

Tra le caratteristiche del mondo moderno, non dimenticare l’impossibilità di pensare concretamente il rapporto tra lo sforzo e il risultato dello sforzo. Troppi intermediari. Come in altri casi, questo rapporto che non risiede in nessun pensiero risiede in una cosa: il denaro.

Siccome il pensiero collettivo non può esistere come pensiero, esso passa nelle cose (segni, macchine…). Da ciò il paradosso: la cosa pensa e l’uomo è ridotto alla condizione di cosa.

Non esiste pensiero collettivo. In compenso, la nostra scienza è collettiva come la nostra tecnica. Specializzazione. Si ereditano non solo risultati, ma anche metodi incomprensibili. Del resto, le due cose sono inseparabili, perché i risultati dell’algebra forniscono metodi alle altre scienze.

Far l'inventario o la critica della nostra civiltà, che cosa significa? Cercare di illuminare in modo preciso l'imbroglio che ha fatto dell'uomo lo schiavo delle proprie creazioni. Perchè si è infiltrata l'incoscienza nel pensiero e nell'azione metodici? L'evasione nella vita dei selvaggi primitivi è una soluzione della pigrizia. Bisogna ritrovare il patto originario tra lo spirito e il mondo nella civiltà stessa in cui viviamo. E' un compito tuttavia impossibile causa la brevità della vita e la impossibilità di collaborazione e di successione. Questa però non è una buona ragione per non intraprenderlo. Siamo tutti in una situazione analoga a quella di Socrate quando attendeva la morte nella prigione e imparava a suonar la lira.... Almeno, avremo vissuto...

Lo spirito che soccombe sotto il peso della quantità ha l'efficacia come unico criterio supersite.

La vita è abbandonata alla dismisura. La dismisura invade tutto: azione e pensier, vita pubblica e privata. Da ciò la decadenza artistica. Non c'è più equilibrio, da nessuna parte. Il cattolicesimo reagisce parzialmente: le cerimonie cattoliche, almeno, sono rimaste intatte. Ma esse sono anche senza rapporto alcuno col resto dell'esistenza.

Il capitalismo ha realizzato l'affrancamento della collettività umana difronte alla natura. ma questa collettività ha assunto, in rapporto all'individuo, la successione della funzione oppressiva esercitata per l'innanzi dalla natura.

Ciò è vero anche materialmente. Il fuoco, l'acqua, ecc. Tutte queste cose della natura, la collettività se ne è impadronita.

Domanda: E' possibile trasferire all'individuo questo affrancamento conquistato dalla società?

*Simeno Weil, L'ombra e la grazia, Bompiani, Torino, 2002, con testo francese a fronte,pp.326,Euro10,00.

Una lettera per noi da Carta

29 aprile 2008

Un’altra politica


Una premessa


Siamo in un momento grave della vita collettiva. Che non ha la sua radice solo negli eventi della politica, le ultime elezioni, ma in un processo profondo di rottura del legame sociale. Qui vogliamo fare un gioco di simulazione: dirci, e dire in pubblico, come immaginiamo debba essere un altro mondo, e come si potrebbe provare a farlo. Questo testo contiene un suggerimento: guardare oltre per capire meglio come affrontare l’oggi.


Due tesi


1. Promuovere dal basso un’azione politica, una condizione di cittadinanza interamente intessuta di legami sociali, pluralista, globale, dotata di una visione d’insieme e capace di proporre un sistema sociale libero dalla logica economica dominante. Affermare che la politica che vogliamo siamo noi, la nostra capacità di essere società. Tutti siamo politici, tutto ciò che facciamo è politica.


2. Esiste una complessa e diffusa galassia di gruppi di iniziativa sociale, associazioni, collettivi, reti, comitati popolari, rappresentanze sindacali, comunità sostanziali costituenti, che formano anelli di solidarietà di reti nazionali e transnazionali, istanze di resistenza, di altra economia, di democrazia diffusa.

Ora è possibile prendere consapevolezza della forza positiva che questa particolare «società civile» esprime, rafforzare la cultura di rete e pensare a un processo collettivo di autogoverno, ad uno spazio pubblico - o, forse, sarebbe meglio chiamarlo d’ora in poi uno «spazio comune» - dove sia possibile offrire, mettere a confronto e condividere esperienze e pratiche. Un patto politico aperto, includente, un vero e proprio sistema diffuso di auto-rappresentanza, capace di contendere ai poteri costituiti il monopolio della decisione politica. Una forza realmente collettiva capace di produrre in proprio, giorno per giorno negoziazione e trasformazione.


Cinque pilastri


1. Un’idea di società per cui valga la pena impegnarsi.

è possibile immaginare un mondo capace di futuro, ospitale, equo, nonviolento. Solo una politica lungimirante può donare serenità e benessere: la «profittabilità» a breve, lo sfruttamento senza limiti della società e della natura conducono alla disuguaglianza globale e al disastro ambientale.

Il progetto di buona società consiste nel vivere insieme. Il bene comune non è la somma aritmetica dei beni privati posseduti dai singoli membri della società e malamente ridistribuiti, ma il godimento condiviso dei beni comuni: spazio, aria, mari, acqua, foreste, energia, saperi, educazione, comunicazione, sicurezza, giustizia, salute, lavoro… La sua realizzazione implica, anzi impone, il ricorso a mezzi rispettosi e compatibili con l’obiettivo, cioè mezzi rigorosamente nonviolenti.


2. L’economia della reciprocità.

è possibile che ognuno si riprenda il controllo delle circostanze che regolano la sua vita quotidiana. è possibile superare lo sconforto, l’insicurezza, l’ansia che ogni persona onesta sente crescere a causa delle inimicizie tra i governi dei tanti paesi [popolazioni] della Terra, del degrado della biosfera e dei disastri sociali provocati dall’aumento dei prezzi di cibo e materie prime.

La conquista della libertà di ciascun individuo dalle necessità elementari è la pre-condizione per una esistenza autentica e per un esercizio effettivo della democrazia. Libertà, innanzi tutto, deve essere libertà da condizionamenti e ricatti.

La globalizzazione è avvenuta nel nome del profitto, della concorrenza, del mercato. La mondialità invece si raggiunge seguendo i principi della reciprocità, della cooperazione, della condivisione. Dall’economia neoclassica e liberista all’economia ecologica; dal mito bugiardo della crescita infinita alla sobrietà; dall’imperativo della competitività alla cooperazione solidale.


3. Saggezza è saper prevedere.

è possibile fare affidamento sui saperi e sulle esperienze che le culture dei popoli hanno accumulato per migliorare le condizioni di ciascuno e di tutti gli abitanti della Terra. La tecnica, la scienza, l’intelligenza devono saper prevedere, e quindi devono rispondere al principio di precauzione.

Le risorse tecniche, le conoscenze scientifiche, le stesse disponibilità economiche a disposizione dell’umanità sarebbero sufficienti a far uscire l’intero genere umano dall’indigenza. Se oggi ciò non avviene è solo per il prevalere di logiche economiche egoiste e predatorie e di volontà politiche miopi e suicide. Il grande tema di una nuova modernità è il controllo sociale sulla ricerca scientifica e sulle tecnologie, in un rinnovato rapporto con i bisogni reali delle comunità locali.


4. Un rapporto felice tra popoli, tra città e persone.

è possibile che in molti – gente comune, cittadini - intraprendano il cammino per migliorare le relazioni sociali tra i generi, le generazioni, le genti e le specie viventi. è possibile ridisegnare città e comunità accoglienti, sicure perché fondate su legami e relazioni di vicinanza e convivenza, in cui ogni individuo venga riconosciuto in primo luogo per i suoi bisogni e i suoi desideri.

In un mondo interconnesso e interdipendente la pace e la sicurezza non sono divisibili. Nessuno potrà essere sicuro, nemmeno se costruirà muri, se non lo saranno anche i suoi vicini e i vicini dei vicini. Condivisione, reciprocità, collaborazione, riconoscimento dei debiti ecologici, economici e umani contratti dal Nord del mondo nei riguardi delle popolazioni del Sud: sono i principi guida che devono seguire le relazioni internazionali.

Le nostre città sono sempre più i luoghi dell’esclusione, delle identità fondate sull’annullamento di quelle degli altri, dei non-cittadini, competitori sempre più soli, tristi. Città in cui le anomalie sono gli ultimi, i differenti, chi non si omologa. Occorre ribaltare questa macchina della separazione, proponendo universi – e politiche – aperte al meticciato, alla cooperazione.


5. Una democrazia radicalmente diversa.

è possibile rigenerare la politica come azione civile volontaria per un servizio collettivo. Solo un’etica civile può ridare senso alla politica. L’etica, in politica, è un sistema di valori scelto e condiviso.

Le rappresentanze [seppure ridotte al minimo fisiologico e regolate in modo che libertà di coscienza del «delegato-eletto» e vincolo di mandato siano sempre trasparenti e verificabili] sono necessarie, nella pratica conflittuale della democrazia/partecipazione. Da ciò discende l’ineludibile necessità di garantire forme di organizzazione politiche, oltre che riallargare lo spazio della politica attraverso forme di democrazia partecipata e diretta. Occorre inventare un modello radicalmente diverso da quello, fin qui conosciuto, dei partiti politici, dalla nascita della democrazia parlamentare ad oggi. La loro forma si è definitivamente esaurita.

La cultura della rete, l’orizzontalità, l’autonomia dei nodi, il metodo della condivisione, il consenso, l’ambito comunitario e cittadino della co-decisione, il tutto finalizzato all’empowerment delle comunità, costituiscono la grande novità e forza dei movimenti sociali. Nella consapevolezza che è solo così – federando e liberando spazi di comunanza crescenti – che si fa spazio un’alternativa reale. Comunque deve essere chiaro che «chi dice organizzazione dice oligarchia», ed è quindi è necessario predisporre forti contromisure contro ogni rischio di centralizzazione, verticalizzazione, burocratizzazione, autoreferenzialità, separazione.

Una forma di altra politica con queste premesse, dunque radicalmente nuova da quelle del Novecento, può costituire la premessa per la costruzione di una nuova democrazia, basata innanzitutto sui «bacini» dove le persone, le comunità, si formano, vivono, agiscono: le città e i territori, la cui «scala» più grande, quanto ad efficacia del controllo dei «delegati», è probabilmente quella sub-regionale. Il che a sua volta propone il problema urgente di connessioni, vincoli, alleanze, coordinamenti tra organizzazioni politiche e istituzioni di tipo nuovo da un luogo all’altro, in reti mobili e variabili: fino a proporsi di influire sulle scelte europee e globali.

Esperienze di questo tipo già esistono, sia a livello locale che nazionale e sovranazionale, dal Patto di mutuo soccorso ai movimenti come quelli dei migranti e delle femministe e lesbiche, o quello Glbtq, ma anche il movimento dell’acqua, il «popolo» dell’economia socio-solidale, le nuove reti dei delegati di fabbrica, ecc. Non si tratta di inventare nulla, ma di trarre lezioni da quel che già accade nella società e renderlo coerente ed efficace.


La Repubblica tradotta nella lingua di oggi


Questa lettera è un grido di allarme. Cercare di immaginare il futuro è il fondamento indispensabile per organizzare la resistenza a quel che già si prospetta - considerando anche le conseguenze che avrà il risultato elettorale - come una aggressione alla società civile, alle sue organizzazioni, ai suoi valori, ai lavoratori e al sindacato, ai migranti e alla stessa possibilità di una convivenza civile. La crisi evidente della globalizzazione, la catastrofe alimentare e il crack finanziario globali sono le cause della trasformazione del sistema democratico, o di quel che ne resta, in un dispotismo che conserverà solo le forme vuote della cittadinanza.

Dobbiamo da subito immaginare e far funzionare nuove forme di auto organizzazione, trasformare le reti in strumenti attivi di scambio di esperienze, di mobilitazione e di reciproco sostegno. Dobbiamo esser disposti a sperimentare nuove formule di organizzazione e decisione.

Quel che suggeriamo è che da subito ogni persona o gruppo che vuole opporsi a questa marea si riunisca, nel modo più aperto possibile, nel maggior numero di luoghi possibile, in relazione stretta tra loro e con quel che si muove attorno a loro: per discutere da subito, accantonando le diffidenze e approfondendo la conoscenza reciproca, il modo di costituire forme nuove di organizzazione politica.

Se tutti ci muoveremo bene, sarà possibile organizzare per il 2 giugno, festa della Repubblica e della Costituzione, da tempo trasformata nella celebrazione di una nazione in armi, un primo grande incontro nazionale in cui cominciare a confrontare le proposte emergenti dalle aggregazioni tematiche e dalle reti locali.



Una lettera collettiva


Nelle prossime pagine pubblichiamo un testo che non è un appello né tanto meno un documento. è una lettera, che varie persone hanno pensato fosse utile scrivere, correggere, riscrivere ed emendare o semplicemente condividere. Tutto è stato fatto in pochi giorni, la settimana scorsa. Sentivamo un’urgenza: suggerire che, di fronte a quel che sta cadendo addosso a noi cittadini, comunità, società civile o movimenti [ognuno usi il termine che vuole], c’è la possibilità non solo di resistere, ma di cominciare a fondare da subito un altro genere di politica. Non è una novità, questa convinzione. Mesi fa, fu pubblicato un appello intitolato «La politica che vogliamo», firmato da molte persone della società civile, che poi diede luogo al seminario della Rete Lilliput sullo stesso tema che si tenne il 5 aprile, lo stesso giorno in cui Carta e l’associazione Cantieri sociali organizzavano il Cantiere dell’altra politica. E Paolo Cacciari, che aveva partecipato ad ambedue gli incontri, scrisse poi la prima bozza della lettera che pubblichiamo.

I movimenti come quelli della Val di Susa e di Vicenza sono secondo noi già – in germe – questa altra politica. Ma vi sono molti altri modi di cercare la stessa cosa. La lettera infatti è proposta da persone diverse tra loro. Vi sono ricercatori, intellettuali attivi, per così dire, come Marco Revelli, Riccardo Petrella, Tonino Perna e Bruno Amoroso. Lo stesso Giulio Marcon è un analista della cooperazione internazionale e della società civile, oltre ad essere il presidente della Rete Sbilanciamoci. Poi vi sono i valsusini Chiara Sasso, Claudio Giorno ed Ezio Bertok [che cura il sito del Patto di mutuo soccorso]. Della Rete Lilliput fanno parte Alberto Castagnola e Riccardo Troisi, e con loro cooperano, su questo e altri temi, Antonio Tricarico e Andrea Baranes della Campagna per la riforma della Banca mondiale. Promotore delle Reti dell’altra economia è Davide Biolghini, mentre Alberto Zoratti, oltre ad essere attivo nel commercio equo, ha costruito un osservatorio sul commercio mondiale [Fair Watch, che collabora ogni settimana con Carta]. Sergio D’Angelo, napoletano, è il presidente di un grande consorzio di cooperative sociali, Gesco. Del movimento dell’acqua toscano fa parte Tommaso Fattori, e del Contratto mondiale dell’acqua Emilio Molinari. Ciro Pesacane è il promotore del Forum ambientalista, Gianni Tamino è un docente ed ecologista, e Gianni Palumbo è del movimento «No oil» della Basilicata [tra tante altre cose]. A discutere con noi anche Ciccio Auletta e Sergio Bontempelli, del Progetto Rebeldìa di Pisa, straordinaria «casa delle associazioni». Giuseppe De Marzo è dell’Associazione A Sud e Mimmo Rizzuti della Sinistra euromediterranea. Don Pasquale Gentili è il parroco di Sorrivoli [in provincia di Forlì-Cesena] e Mino Savadori è il presidente dell’associazione culturale «Il Castello», Rete cesenate della società civile organizzata. No Tav [il minacciato «sottoattraversamento» della città] è anche il fiorentino Maurizio De Zordo, mentre Cristiano Lucchi fa il mensile «L’altra città», molto legato alle comunità delle Piagge, e naturalmente Ornella De Zordo è consigliera comunale a Firenze di Unaltracittà/unaltromondo. A lavorare intorno alla nostra lettera hanno ovviamente contribuito quelli di Carta, in particolare Anna Pizzo e Pierluigi Sullo, nonché Andrea Morniroli, presidente dell’associazione Cantieri sociali, e Sergio Sinigaglia, dei Cantieri sociali marchigiani.

Avendo più giorni a disposizione, questo elenco avrebbe potuto allungarsi a dismisura. Diversi hanno preferito prendersi qualche giorno per rifletterci, e diranno la loro nei prossimi numeri di Carta e altrove, e tutto finirà nel sito di Carta e in altri. Ci pareva necessario lanciare subito un segnale, ma la lettera vuole essere un lavoro aperto, la cui scrittura è collettiva e perciò progressiva, a cui tutti possono contribuire, sia scrivendo a carta@carta.org [indirizzo che indichiamo per comodità, per avere un unico luogo da cui smistare le comunicazioni], che partecipando agli incontri che proponiamo nella lettera.


27 aprile 2008

pupazzetti, soldatini, maschietti



E' il manifesto della "Festa del lavoro" del sindacato, parola d'ordine più sicurezza, più reddito.

....Non c'è pericolo

a Piazza Dante il Primo Maggio di Napoli
a Ravenna la manifestazione nazionale
a Roma il concerto

24 aprile 2008

Cosa ne facciamo degli ex-qualcosa ?

Giovanni Laino


Pubblicato con qualche taglio su La Repubblica Napoli del 23.04.08


Le città vengono trasformate per fasi alterne di espansione o riuso dell’esistente. Per la sua conformazione e per le vicende storiche a Napoli il riuso è stato sempre lento, tendenzialmente mal visto: prima di ristrutturare (o ancor più di abbattare e ricostruire) edifici impieghiamo molti anni. Questo dipende anche dal grande patrimonio ereditato dalla storia e dalla sindrome de “le mani sulla città”, che impone il nesso pianificazione territoriale - salvaguardia - tendenziale blocco degli interventi.

A Napoli abbiamo una questione da affrontare: che ne facciamo degli ex-qualcosa ? La dismissione di organizzazioni tipiche del Novecento ha determinato il disuso di strutture come fabbriche, ospedali militari e psichiatrici, gasometri, caserme, macelli, conventi. La questione dell’ex Albergo dei Poveri, che ha una dimensione certamente molto particolare, va inquadrata in questo contesto.

Come è noto si tratta di una architettura di assoluta straordinarietà , esempio unico in Europa di “spazio totale”, dispositivo architettonico di dimensioni monumentali concepito come “macchina” di controllo, internamento e riabilitazione sociale, progettato nella seconda metà del XVIII secolo da Ferdinando Fuga su commissione del re Carlo III di Borbone per ospitare migliaia di indigenti, sfruttarne la forza lavoro, indirizzarne il percorso di recupero morale. Un grande complesso, con una facciata lunga 360 m, e di 140 m di profondità, che, con nove livelli, arriva ad una altezza massima di 42 m, con 440 ambienti, con 9 Km di corridoi, 103.000 Mq di superfici, tre cortili di 6.500 Mq ciascuno e 6 cortili minori di 700 Mq ciascuno.

Come è noto il Comune di Napoli, dopo aver ottenuto il patrocinio dell’UNESCO per il restauro del complesso, e aver fatto fare uno studio di fattibilità costato non pochi soldi, dal 2005 sta realizzando un complesso progetto di restauro e recupero, avendo approvato un piano che prevede di realizzare una grande struttura polifunzionale come città dei giovani. Ci sono contrasti, polemiche, fra gruppi professionali, accademici e amministratori che non facilitano il compito di per se già molto arduo.

Il limite principale è quello per cui queste vicende vengono assunte come questioni che riguardano gli architetti. Come se il progetto di architettura, indagando i possibili usi, avesse sempre e comunque il potere e la capacità di sintetizzare in modo efficace le visioni di futuro.

Con le risorse disponibili e quelle impegnate, sono stati realizzati lavori di ripristino del corpo centrale e della scala di accesso ma ci si trova dinnanzi ad un’impresa veramente difficile rispetto alle capacità che esprimono gli enti locali anche se il programma della città dei giovani è uno dei grandi progetti che dovranno essere cofinanziati con i fondi strutturali.

Va detto che in alcune sue parti il complesso non è mai stato svuotato e vi si svolgono funzioni importanti: a parte le ottanta famiglie che vi abitano, vi è il centro sportivo Kodocan che accoglie molti ragazzi e giovani delle zone popolari, una antica falegnameria, alcuni garage ed eventi occasionali organizzati dalle amministrazioni pubbliche. E’ evidente che per questa come per strutture analoghe si tratta di saper ideare e realizzare iniziative per fasi, con compresenza di utilizzazioni virtuose e cantieri di lavoro

Ma accanto a questo straordinario monumento ve ne sono altre decine, più piccoli ma egualmente molto importanti, che aspettano di essere recuperati e rifunzionalizzati. L’impressione è che le politiche pubbliche per questi casi esprimono un approccio occasionale, molto contingente, poco convinto e convincente. Basti ricordare le vicende dell’ex ospedale militare, l’ex ospedale psichiatrico Bianchi, il tribunale di Castel Captano, i tanti conventi chiusi o del tutto sottoutilizzati del nucleo antico del centro storico.

Con la collaborazione delle Sovrintendenze che dovrebbero assumere una prospettiva meno vincolistica, il recupero e la rivitalizzazione di questi impianti potrebbe essere l’occasione di un new deal napoletano, con uno straordinario rilancio di occasioni di sviluppo. La programmazione dei fondi strutturali propone un impegno forte per il centro antico di Napoli, sarà un buon inizio ?


Socializzazione al lavoro per i ragazzi a Napoli

Socializzazione al lavoro per i ragazzi a Napoli

Giovanni Laino


Pubblicato su Napoli Monitor, Aprile 2008, n.14, pag. 7


A Napoli, sino alla fine degli anni Settanta, per i ragazzi vi erano migliaia di occasioni di formazione al lavoro: molte botteghe, tutti i bar e tanti altri esercizi commerciali facevano lavorare ragazzi e adolescenti più adulti, vittime del lavoro minorile, per insegnargli un mestiere o comunque fargli guadagnare qualche soldo, evitandogli così di restare in strada e nel degradante non far niente. Peppino Girella, il personaggio della novella Lo Schiaffo di Isabella De Filippo, è emblema di questa figura storica del proletariato precario napoletano. Ben poca consistenza invece hanno avuto le scuole professionali: gli oratori salesiani ben organizzati nelle regioni del nord, qui in città non sono mai decollati. La stessa scuola edile è risultata selettiva e poco includente. La formazione professionale è stata tradizionalmente un’area di cattivo uso della spesa pubblica, orientata con criteri sostanzialmente inefficaci. I corsi autofinanziati proposti dagli enti di formazione costituiscono una diversa nicchia di mercato che sostanzialmente non intercetta il target dei drop out.

Qualche istituzione tipo educandato ha prodotto esiti troppo limitati. E pensare che vi era la grande tradizione del serraglio, il mega istituto localizzato nell’Albergo dei poveri ove i ragazzini reclusi, anche se con metodi non proprio montessoriani, venivano addestrati al lavoro artigiano.

Nei primi anni Novanta, dopo un’approfondita conoscenza delle botteghe del centro urbano ove regnava il lavoro nero, maturò in alcuni di noi dell’Associazione Quartieri Spagnoli la convinzione che la socializzazione alla cultura del lavoro era una delle dimensioni del capitale sociale che per i ragazzi poveri andava maggiormente sostenuta. Proprio la diffusa presenza di migliaia di micro imprese artigiane nel centro urbano è stato un punto di partenza per avviare progetti di formazione per ragazzi drop out, limitando al massimo i laboratori in simulata e facendo andare invece i ragazzi direttamente nelle botteghe, nel vivo delle attività. Si partiva da una convinzione ancora oggi molto valida: il contesto lavorativo, pur con limiti ed ambiguità - si pensi ad esempio alle condizioni di sicurezza - è molto più credibile, attraente ed avvincente per i ragazzi che di scuola non ne vogliono proprio più sapere. Molto spesso si è constatato che ragazzi che assumevano comportamenti distruttivi nel contesto d’aula, mostravano responsabilità e capacità di adattamento nelle botteghe.

Negli anni recenti le prime esperienze sono state fatte con alcuni progetti cofinanziati dalla Legge 216/91 e poi con i fondi della L.285 (il progetto officina del Comune di Napoli). Alcune poche organizzazioni hanno realizzato diverse edizioni di progetti di formazione con ampio ricorso a tirocini presso botteghe, grazie soprattutto a progetti cofinanziati con i fondi europei. In diversi quartieri popolari alcune agenzie come pure i Maestri di Strada con il progetto Chance, hanno realizzato esperienze di questo genere, per decine di ragazze/i, riportando talvolta risultati significativi, non tanto in termini di assunzioni dirette (che in qualche caso pure ci sono state), ma con il reale innalzamento del livello di occupabilità dei ragazzi che, oltre a non essere esposti ai rischi del bighellonare fra casa, vicolo e bigliardo con i videogiochi, hanno fatto significative esperienze di socializzazione al lavoro, spesso seguiti da tutor che nei primi anni erano entusiasti e tenaci.

Recentemente è stato avviato un nuovo ciclo. Le pratiche sociali dal basso hanno fecondato le politiche. Gli esperti dell’Isfol e degli uffici regionali hanno pensato di far tesoro dell’apprendimento desumibile da queste pratiche ma hanno proposto interventi spesso troppo schematizzati che disconoscono l’importanza del ruolo svolto dalle associazioni localmente radicate, con il lavoro dei tutor che da anni conoscono gli artigiani e seguono le famiglie. Soprattutto la Regione – entro una prospettiva semplificata – ha assunto queste esperienze come nuova versione dell’apprendistato che nel Sud non ha mai avuto alcun utile esito, mentre si tratta di pratiche potenzialmente molto efficaci di socializzazione alla cultura del lavoro. Come per gli indultati e i diplomati, la Regione Campania, d’intesa con Italia Lavoro che tende a sostituire in blocco gli enti operosi nei territori, ha sostanzialmente bloccato i progetti che gli enti stavano facendo per i ragazzi in dispersione e abbandono formativo, proponendo una serie di iniziative che, almeno per ora, hanno dato esiti poco soddisfacenti, (cfr. progetti On-Off, gli OFI integrati, alcuni PON, i PAS e taluni progetti di Scuole Aperte). Tutte queste iniziative, talvolta improvvisate, sono risultate un po’ calate dall’alto, concepite e implementate entro una logica un po’ burocratica e statalista, assumendo sempre una visione semplificata dei comportamenti dei ragazzi, trattando i gruppi di beneficiari in modo troppo aggregato, disconoscendo l’esistenza di specifiche enclavi territoriali e di gruppi diversi di destinatari, eludendo la necessità di associare in modo intelligente sostegno sociale, patto formativo e inserimento nelle aziende.

Negli ultimi mesi alcuni enti hanno attratto qualche risorsa dalle Fondazioni ma si tratta comunque di investimenti limitati che danno qualche segnale ai Quartieri Spagnoli, a Forcella, Scampia, Rione Traiano. Indubbiamente una reale qualificazione delle politiche pubbliche in favore di giovani non potrà eludere una batteria di interventi, alcuni dei quali da realizzare ormai in forme non più episodiche e/o a ciclo progettuale, per la cura del passaggio dalla formazione scolastica di base alla formazione lavoro, avviando un ciclo di continua alternanza. I modelli ci sono e – forse ancora per poco – anche le competenze dei progettisti, degli orientatori e dei tutor. La questione è se i referenti istituzionali che orienteranno ancora l’uso di una valanga di soldi nei prossimi anni, avranno le capacità per assumere seriamente le esperienze più dense e consolidate, rispettandone la storia ed evitando tentazioni di gestione diretta del mercato.


Così abbiamo perso il Nord

mi hanno inviato questo post che trovo interessante, rivolto al PD, e che circola in passamano tra amici di amici di amici....


COSÌ ABBIAMO PERSO IL NORD

Posted by Alessandro Tavano on April 16, 2008 at 7:45am in Partito democratico
Abbiamo perso su tutta la linea. Anche la regione Friuli Venezia Giulia, guidata da Riccardo Illy per il centrosinistra, la cui riconferma era data per sicura.
Ieri sera, dopo lo spoglio delle schede provinciali e regionali, ci siam ritrovati con gli altri del PD per bere un bicchiere, e farci coraggio. Invece, abbiamo bevuto poco e ragionato parecchio, a partire proprio da Illy.

Vedete, il FVG era un laboratorio politico di grande importanza: governatore imprenditore, sostenuto da un'ampia coalizione di centrosinistra, guida illuminata e coerente, unità di intenti. Collaborazione vera e attiva con il Veneto (PDL) per l'Euroregione. Caso unico in Italia, una parte del paese sarebbe veramente entrata in Europa subito, coalizzandosi con Carinzia e Slovenia, accelerando il ritmo produttivo e di civilizzazione, depotenziando al massimo il legame lombardo-veneto.

Illy ha fatto leggi che hanno aumentato di molto il benessere e il grado di civiltà della nostra regione: per esempio il reddito minimo di cittadinanza, per cui chiunque perda il lavoro ha un salario buono e vantaggi nell'accesso ai servizi, oltre che corsi di formazione obbligatori per il reinserimento sul mercato. Una piccola UK, da questo punto di vista.
Con Illy, il FVG è diventata una regione leggera, flessibile negli intenti e inclusiva: da un lato ospita Innovaction, fiera internazionale dell'innovazione tecnologica, dall'altro favorisce la didattica in lingua madre nelle scuole. Futuro e identità.

Perché ha perso? Non c'è dubbio che l'accorpamento delle regionali alle politiche ha distrutto quei 6-10 punti di vantaggio netti che aveva sullo sfidante. Il mandato regionale scadeva a giugno 2008, e quindi lui ha anticipato di 2 mesi per risparmiare denaro pubblico. Meritorio.

Per rispondere occorre quindi riformulare la domanda: perché abbiamo perso il Nord?
Ironia della sorte, Illy aveva già predetto questo esito, nel suo libro intitolato appunto "Così perdiamo il Nord". Compratelo, diffondetelo, fotocopiatelo, scannerizzatelo, soprattutto per chi abita nel Centro e nel Sud Italia.

Perché dice in poco più di 100 pagine tutto quello che dovevamo già sapere:

1. Che il vero problema italiano è il Nord, che produce per tutti mentre manca urgentemente da anni di infrastrutture fondamentali (TAV, passante di Mestre), anche per ridurre l'inquinamento (più treni, meno camion, meno auto: la regione FVG ha dovuto anche pagare i treni regionali delle Ferrovie per garantirli ai pendolari!).
2. Che il Nord è in Europa per tipo e ritmo di vita, mentre il resto dell'Italia, semplicemente, no.
3. Che molti esponenti delle classi dirigenti, soprattutto al di fuori della Lega (attenzione a questo passaggio!), vedono nella secessione un mezzo ora veramente possibile nel quadro europeo per realizzare l'autonomia economica del Nord (il federalismo fiscale di oggi fa ridere). Sapete perché? Perché il Nord ha le dimensioni e l'omogeneità strutturale di un piccolo stato: oggi i piccoli stati come la Slovenia e l'Irlanda prosperano perché gran parte delle incombenze finanziare e economiche (Banca Centrale, moneta unica) sono risolte a monte dall'Europa, e per questi servizi tutti gli stati europei pagano in percentuale sulla popolazione. L'essere piccoli e agili, nel contesto attuale di un'Europa degli stati (da quando è stato praticamente bloccato il processo di unione federale europea), funziona, è un vantaggio. E sono proprio gli stati piccoli quelli che detassano massicciamente il reddito d'impresa.
4. Che la Lega, lo diceva ieri sera a Ballarò Maroni sorridendo sornione e nessuno lo ascoltava (diceva la pura verità e nessuno aveva il coraggio di dire sì, è così: neanche Franceschini), non è che superficialmente il partito becero e xenofobo rappresentato dalle sparate di Borghezio, Calderoli, Bossi. La Lega in questi ultimi 10 anni, anche con i soldi di Berlusconi, ha investito a 1000 in formazione dei propri quadri dirigenti e sul contatto immediato con il territorio. Vi prego di ascoltare bene le parole che seguono, perché se non vivete al Nord forse quest'informazione non l'avete, ed è di capitale importanza per il nostro futuro. La Lega è un partito che ha un cuore dirigente che non si vede ma che è di altissimo livello, preparato sui temi economici e sociali, colto, capace di ascoltare Illy quando va a trovarli nella sede del loro parlamento del Nord, capace anche di concordare su alcuni punti, un gruppo dirigente moderno e vero. Ah per inciso, a parte le sceneggiate dell'acqua del Po, il parlamento del Nord pare essere un posto a grandissimo effetto comunicativo, tipo alto ufficio di rappresentanza istituzionale, perfetto. Questo gruppo preparato raccoglie e utilizza le energie dei militanti, alcuni (solo alcuni) dei quali sono tenuti sempre in stato di coinvolgimento emotivo dalle sparate xenofobe. Pensate che quando si deve parlare di istituzioni con la Lega si va da Borghezio? Sbagliato!

Un ultimo punto importante credo per noi come circolo, perché secondo me rimette in discussione la prospettiva illusoria che ci siamo creati, forse perché abbiamo guardato all'Italia e al Nord soprattutto dall'alto in basso, da Internet o da Londra, da Youtube o dal chiuso del mio ufficio, dalle metropoli (Roma/Milano) che rappresentano un'eccezione e non la regola del tessuto sociale italiano, o dal mondo delle Idee platoniche.

Lega, operai e giovani. Da noi gli operai e i giovani 18/19enni han votato in massa lega.

Anche i giovani che usano sempre internet: e questo lo dico direttamente a chi si compiace di una specie di vantaggio che avremmo come circolo rispetto al www. Falso. Abbiamo tantissimo da fare. Siamo indietro da matti. Al Nord votare Lega fa figo. Vi rendete conto? Altro che marketing on-line.

Gli operai votano Lega perché la Lega mostra estrema coerenza: i suoi esponenti non si contraddicono giornalmente l'un l'altro (vedi Sinistra Arcobaleno); i suoi esponenti non mostrano i soldi in vestiti e compiacimenti collezionistici di lusso, o feste (vedi Sinistra Arcobaleno); i suoi esponenti sono sul territorio appena possono, e il territorio sono anche le fabbriche, sono le persone che si lamentano del rincaro pazzesco del pane, dei furti, dell'insicurezza, e non trattano queste percezioni, sì percezioni, come fole del popolo bue (vedi Sinistra Arcobaleno e una parte del PD); i suoi esponenti, infine, non danno l'immagine di essere solo gli amici di registi, intellettuali, ecc. (vedi Veltroni e PD), ma di essere vicino alle persone comuni, che non sono cretine, che ragionano, e di cui bisogna capire e incontrare le esigenze.

A poco è valso il viaggio di Walter o di altri, a ridosso delle elezioni: è stato bello, interessante, pieno di persone, ma erano tutti già dei nostri o quasi.

OK, ora provo a scrivere qualcosa che abbia almeno il sapore di pars construens:

Saprà il PD investire al massimo sulla nostra formazione come attuali e futuri membri dei gruppi dirigenti, a livello locale e nazionale? L'unica mia volta alle Frattocchie come dirigente nazionale Arciragazzi era anche l'ultima in assoluto, la stavano vendendo per il Giubileo. Mi son portato a casa il decalogo del buon comunista. Che è tutto centrato sulla formazione. Da 10 anni il centrosinistra non fa formazione! Qui sta uno dei punti nodali della sua incapacità di leggere la realtà del territorio.

Sapremo noi come circolo utilizzare sia l'e-politics che i GT per la politica vera, del faccia a faccia, del confronto con le persone? Sapremo agire su entrambi i livelli, in sinergia di contenuti pur nella diversità dei metodi? Chi stacca come entità assolutamente separate anche nei contenuti l'e-politics dalla politica del territorio commette un gravissimo errore, secondo me.

Sapremo smetterla di sentirci scioccamente fighi e sapremo guardare in faccia la realtà più importante d'Italia, il Nord, e impegnarci in 5 anni, di lavoro duro, a fondo, metro per metro?

Non lo so mica sapete? E' un lavoro grossissimo, senza ricompense per la maggior parte di chi vi si impegnerà. Ma l'unico che seriamente ci può dare delle chances fra 5 lunghissimi anni.

Invito

23 aprile 2008

I contenuti e le forme


Una delle migliori analisi sulla recente sconfitta elettorale l’ho ascoltata in televisione, non in una delle ormai ripetitive trasmissioni di approfondimento, ma in una un po’ frettolosa inchiesta del Tg3 sulle ragioni del voto alla Lega. Una donna di Brescia (ricca città lombarda, fiore all’occhiello del centro sinistra che per un decennio, forse più, l’ha amministrata avremmo detto bene fino a questo 14 aprile che l’ha riconsegnata al centrodestra), figlia di un operaio che aveva fatto scioperi e lotte per conquistare condizioni di lavoro in fabbrica umane e il diritto alla pausa per mangiare, raccontava che lei, invece, per poter lavorare aveva dovuto accettare 6 euro l’ora di salario per otto ore al giorno, tutte continuate senza fermarsi mai neanche, appunto, per mangiare. Certo, diceva, è colpa dei padroni che te lo impongono, ma è anche colpa degli immigrati che accettano condizioni di lavoro per noi, fino a poco tempo fa, inimmaginabili. Oggi se io voglio lavorare, concludeva, devo accettare poca paga e nessuna pausa. Allora, probabilmente, è anche per questo che abbiamo perso. Non abbiamo capito quella globalizzazione di cui, in fondo anche noi abbiamo per un tempo cantato le lodi per l’illusione di sviluppo e di benessere che artificiosamente si portava dietro promettendolo anche nelle parti di mondo dove la miseria e la povertà sembravano infinite, erano invece un abbaglio. Ho ancora nelle orecchie le parole più volte e in più occasioni ripetute da D’Alema quando affermava convinto che proprio grazie ad essa milioni di uomini e donne dei vari Sud del mondo avevano potuto sconfiggere la fame e immaginare un futuro immediato di sviluppo. Si certo in parte questo è accaduto ma è stato possibile perché – come ci ha spiegato Gallino in un suo recente libro, 500 milioni di lavoratori e lavoratrici dei paesi sviluppati sono stati messi in competizione con un miliardo e mezzo di lavoratori dei paesi non sviluppati. E in questa competizione hanno perso tutti, quelli del nord e quelli del sud perché ovunque il lavoro è stato ridotto come forse mai prima, a merce. Merce che sul mercato planetario ha davvero poco valore perché sovrabbondate. Merce che in Italia ha davvero poco valore e che ancor meno ne avrà dal 13 e 14 aprile del 2008. Ecco io penso che noi, la sinistra, non abbiamo saputo cogliere questo passaggio epocale di cultura politica, di senso, e poi anche di politica economica. Abbiamo proposto provvedimenti e leggi che cercano di mitigare gli effetti di questa che abbiamo interpretato (quando siamo stati bravi) come una riduzione di diritti e mai come svalorizzazione, abbiamo cercato di ridurre la precarietà senza capirne né le cause vere né gli effetti reali sulla vita di donne e uomini senza più futuro e dall’identità incerta. Siamo arrivati al punto che registriamo i numeri dei morti quotidiani in fabbrica, in cantiere, o sulle impalcature senza che questo conteggio muti di una virgola il nostro agire quotidiano, la nostra capacità di intervento. E siamo arrivati al punto che in Egitto e in chissà quale altro paese africano assaltino i forni come nell’Italia descritta da Manzoni e non ne parliamo, forse neanche ci fermiamo sui pochi trafiletti di giornale che ne danno scarse notizie. Ma i morti italiani e gli assalti ai forni egiziani, questi sì, sono legati tra loro, sono effetto dello stesso capitalismo iperliberista della finanza e delle rendite che sta precipitando il pianeta una crisi dagli effetti imprevedibili, e che sta distruggendo se stesso. Ma noi, la sinistra, dove eravamo mentre tutto questo succedeva? E dove siamo oggi quando Montezzemolo lancia il guanto di sfida finale al sindacato (che per altro anch’esso è col fiato corto) ? Certo dobbiamo elaborare il lutto di una sconfitta che non avevamo previsto ne preventivato. Ma se continueremo a dilaniarci cercando responsabilità e colpe che non sono di singoli ma certamente collettive e non riguardano solo la tattica delle ultime settimane, ma l’insufficiente comprensione e la inadeguata strategia degli ultimi vent’anni, staremo fabbricando la corda con la quale impiccarci. Le discussioni sulle forme organizzate, sui percorsi, sui contenitori sono importanti ma – credo – vengono dopo. O comunque vengono insieme ad un ragionamento su quale modello economico, sul valore del lavoro, su chi vogliamo rappresentare e perché. Le forme sono importanti ma senza tutto questo e l’umiltà della ricerca e dell’ascolto, rimangono vuote.

Roberta Lisi

22 aprile 2008

de-crescita???


In tante e in tanti ricordiamo cosa volesse dire crescere negli anni settanta. Tra i miei ricordi indelebili c'è un tragitto in autobus, al rettifilo, nel 1972, pensando alla iscrizione all'università. Crescere era lo scopo più nobile del mio essere, e a proposito di crescere, di cosa vuol dire crescere, lì trovai la mia risposta ingenua, infantile, romantica, e indelebile, vuol dire essere felice ed essere utile alla società. In questo sono rimasta ingenua, infantile, romantica, insomma del tutto inadeguata ai miei ruoli, al rapporto con la politica, al rapporto con il potere, e dietro a questo mio simbolico stato di "grazia", mi sono pure nascosta, ho nascosto la mia pigrizia, tante lacune, tanta superficialità, tanto disordine, molta irresponsabilità.
Ma lì, anzi qui, resto; con amarezza, ma resto: crescita economica e crescita della persona dovrebbero essere valori congiunti per dare senso a quel valore immaturo dei miei diciotto anni e a questa amarezza un po' vacua e un po' pigra (malgrado l'apparente attivismo) di oggi.

Crescere nella complessità delle relazioni sociali della vita e del mondo che viviamo è diventato difficile; quasi impossibile, persino averne la voglia.

Penso che è su questo che voglio lavorare, sulla crescita, nel suo senso pieno, che non è fisico-materiale, come crescere in età (e non ce n'è più) in altezza (neanche a parlarne) o in carne (che farei meglio a de-crescere), ma è crescere di struttura dell'io, di equilibrio della personalità, di equilibrio del sentire emozione, passione, di vissuto e di pratica di relazioni con l'altro, l'altra, di pratica di relazione e di partecipazione rispetto al gruppo, alla famiglia, alla comunità, di vissuto del ruolo sociale e del pubblico, di passione costruttiva dell'impegno sociale e politico.
La de-crescita l'ho vissuta già e vorrei tornare alla crescita,a questa crescita.

Ieri se n'è parlato, in un seminario sulla crescita felice, con l'economista Maurizio Pugno nella sede di D&S group sc. Un'analisi interessante, che è partita dall'economia e poi però è finita, nel dibattito, diritta diritta nella politica sociale, anche perchè l'occasione (un progetto Equal) aveva quel filo di orizzonte e non altro. E l'economia, il temi centrali della produzione e del lavoro, sono rimasti a terra, lasciati ad altri, al pensiero che è e che resta "unico", con la crescita felice che si scioglie come un'aspirina nella soluzione della compatibilità e passa con il timbro di garanzia che con essa la competitività ci guadagna.

Per fortuna non è vero che con la crescita felice l'economia liberista ci guadagna, se fosse vero la si praticherebbe, e invece la si usa e surroga ma nessuno la fa proria, se non per cavalcare o speculare sul malessere. Seguendo la teoria della crescita felice l'economia del mercato libero crescerebbe in competitività interna più che in concorrenzialità sui mercati, crescerebbe cioè nel senso etimologico della parola (cum-petere), nell'unire le risorse per "ottenere" (un risultato), nell'aggregazione delle nuove soggettività portatrici e creatrici di benessere e di felicità concrete (risultato), nuove soggettività che esistono ma sono tristemente chiuse nell'individualismo, quasi del tutto incapaci ormai di rapporti felici.

Ci guadagna l'economia solidale non l'economia assoggettata al vincolo finanziario pubblico, all'alta finanza, allo sfruttamento del lavoro, alla potenza militare. Più che di de-crescita dovremmo parlare di economia solidale e assumere le teorie del benessere e della crescita felice come punti di rottura e di conflitto rispetto all'economia libersita di mercato. E non parlare più di de-crescita che mi sembra, ingenuamente parlando, una zappa sui piedi.
Ditemi se sbaglio per favore,

susi

21 aprile 2008

Ri-leggiamo L'oppio dei popoli

L'oppio dei popoli


Oggi l'adesione ai modelli imposti dal Centro, è incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L'abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la "tolleranza" della ideologia edonistica, voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione?


Attraverso due rivoluzioni, interne all'organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d'informazioni. [di Pier Paolo Pasolini]


Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l'adesione ai modelli imposti dal Centro, è tale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L'abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la "tolleranza" della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione?


Attraverso due rivoluzioni, interne all'organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d'informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno oramai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la rivoluzione del sistema d'informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l'intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un'opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo - i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un "uomo che consuma", ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.


L'antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l'unico fenomeno culturale che "omologava" gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale "omologatore" che è l'edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo. Non c'è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s'intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina). Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo?


No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d'animo collettivi. Per esempio, i sottoproletari, fino a pochi anni fa, rispettavano la cultura e non si vergognavano della propria ignoranza. Anzi, erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso però del mistero della realtà. Guardavano con un certo disprezzo spavaldo i "figli di papà", i piccoli borghesi, da cui si dissociavano, anche quando erano costretti a servirli. Adesso, al contrario, essi cominciano a vergognarsi della propria ignoranza: hanno abiurato dal proprio modello culturale (i giovanissimi non lo ricordano neanche più, l'hanno completamente perduto), e il nuovo modello che cercano di imitare non prevede l'analfabetismo e la


rozzezza. I ragazzi sottoproletari - umiliati - cancellano nella loro carta d'identità il termine del loro mestiere, per sostituirlo con la qualifica di "studente". Naturalmente, da quando hanno cominciato a vergognarsi della loro ignoranza, hanno cominciato anche a disprezzare la cultura (caratteristica piccolo borghese, che essi hanno subito acquisito per mimesi). Nel tempo stesso, il ragazzo piccolo borghese, nell'adeguarsi al modello "televisivo" - che, essendo la sua stessa classe a creare e a volere, gli è sostanzialmente naturale – diviene stranamente rozzo e infelice. Se i sottoproletari si sono imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce al vecchio "uomo" che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali.


La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto "mezzo tecnico", ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere.


Non c'è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l'aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l'anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l'ha scalfita, ma l'ha lacerata, violata, bruttata per sempre.


L'OPPIO DEI POPOLI di Pier Paolo Pasolini

Articolo tratto dal Corriere della Sera del 9 dicembre 1973

19 aprile 2008

Viticoltura biologica e sostenibile: è boom*



I vini bio piacciono al consumatore moderno, rispettano l’ambiente, assicurano l’alta qualità del vino...
Negli USA: cresce la domanda e sempre più aziende sposano la viticoltura bio,
L’Italia, leader assoluto in Europa con oltre 30.000 ettari di vigneti bio,
Kathleen Buckley, Wine Enthusiast: “La viticoltura biologica rispetta l’ambiente ed è sostenibile”,
Alan York, uno dei massimi esperti di viticoltura biodinamica: “dalla biodinamica, vini naturalmente ben bilanciati, che non richiedono manipolazioni in cantina”.

Verona, 4 aprile 2008 – Si è svolto oggi a Verona il convegno “Viticoltura biologica nel mondo: tendenza e futuro nella produzione, nello stile di vita e nelle scelte di consumo”, organizzato dall’Associazione La Buona Terra (Associazione Lombarda degli Agricoltori Biologici), da Barone Pizzini, prima azienda vitivinicola in Franciacorta ad aver prodotto bollicine DOCG da viticoltura biologica, e con la collaborazione della Regione Lombardia - DG Agricoltura e di Unioncamere Lombardia.
Uno sguardo agli scenari mondiali che si stanno delineando nel settore vitivinicolo, tracciando i contorni di un vero e proprio boom della viticoltura biologica che, dagli Stati Uniti all’Europa, sta conquistando sempre più aziende e consumatori.
Le regole della coltivazione biologica sono considerate sempre più alla base di una viticoltura di qualità, che esalta naturalmente il gusto e la tipicità del prodotto finale e che, aspetto di crescente importanza, garantisce una forte sostenibilità ambientale, come sottolinea Kathleen Buckley, giornalista di Wine Enthusiast e co-autrice con Roger Voss, di due dei più importanti report sui cambiamenti climatici, l’impatto ambientale e i consumi di vino: “Già nel 2006 avevamo posto il problema di come i cambiamenti climatici in atto fossero destinati ad impattare fortemente anche sul settore vitivinicolo, alterando le tipicità territoriali delle varie regioni, i raccolti e le caratteristiche stesse delle uve. Allora, né le aziende vitivinicole, né tantomeno i consumatori, si rendevano conto di cosa stessimo parlando. Oggi negli USA e non solo, la sensibilità verso i temi del biologico e del biodinamico è alta tanto quanto quella verso il global warming. Sempre più aziende vitivinicole, a cominciare dai maggiori gruppi mondiali come LVHM, Diageo e Pernod Ricard, stanno investendo in politiche eco-friendly e di sostenibilità, volte a ridurre l’impatto ambientale delle loro attività, attraverso l’uso di energie rinnovabili (come Diageo che ha convertito le proprie distillerie alle biomasse), il riciclo di materiali e dell’acqua, l’uso di trasporti alternativi (come LVHM) e di nuovi formati di bottiglie. Gallo, leader negli USA, è stata la prima azienda vitivinicola in America a ricevere la certificazione ISO 14001. Negli Stati Uniti molti report sottolineano che il 60% dei wine lover sono interessati a sapere se il vino è biologico. Dal punto di vista della sostenibilità le più piccole aziende bio possono trasmettere un’importante lezione perché i metodi della viticoltura biologica e biodinamica si basano proprio sul rispetto dell’ambiente e i vini che ne nascono sono fra i più controllati e tipici.”
In crescita dunque anche l’attenzione alla biodinamica, come sottolinea Alan York, uno dei massimi esperti di viticoltura biodinamica: “Il valore aggiunto dei metodi di viticoltura biodinamica viene dalla possibilità che essi offrono di preservare la qualità e l’autenticità del prodotto finale, rispettando al tempo stesso l’ambiente. Alla base della viticoltura biodinamica c’è infatti il vigneto inteso come un unico e complesso ecosistema, che vive e si alimenta grazie all’equilibrio e alle sinergie fra tutti i suoi elementi, dalle piante agli animali e all’uomo che se ne occupa. L’utilizzo di metodi e procedure che rafforzano i processi vitali del vigneto e ne tutelano stabilità e salute, non possono che produrre vini naturalmente ben bilanciati, che non richiedono manipolazioni successive. Alcuni interventi in cantina tipici della viticoltura tradizionale, come l’aggiunta di lieviti aromatici o enzimi, non rendono il vino migliore ma ne alterano la natura fino quasi a comprometterne l’originalità.”

Cosa sta accadendo invece sul fronte della domanda di mercato?

Una testimonianza sugli Stati Uniti, uno dei maggiori mercati al mondo e trend setter nei consumi, è stata resa da Dino Tantawi, selezionatore e importatore di vini Italiani per i migliori ristoranti di New York, e George Tsopelas, sommelier del ristorante Abboccato di New York: “La sensibilità dei consumatori verso vini di qualità è sempre più alta, dove per qualità si intende anche rispetto del territorio e dell’ambiente. E’ evidente la crescente consapevolezza da parte dei wine lover che un vino di qualità superiore nasce laddove c’è un territorio tutelato e naturalmente esaltato. Questo sta generando una domanda crescente di vini biologici e/o biodinamici. Negli Stati Uniti il vino e le bollicine made in Italy hanno sempre avuto un appealing enorme e il plus che offre la certificazione bio è proprio una garanzia di integrità della materia prima e di tipicità del terroir. La clientela internazionale è sempre più attenta a questi aspetti. Basti pensare che nell’ultimo anno le vendite di vino e bollicine bio nel Ristorante Abboccato sono aumentate dell’40% e l’importazione di vini italiani certificati del 90%”.

D’altra parte Wine Spectator, la Bibbia americana del settore vitivinicolo, parla di “Rivoluzione verde” negli USA. Il CCOF, maggiore ente certificatore del biologico in California, ha sottolineato che sono già circa 140 i vigneti/aziende vitivinicole certificati e che la richiesta di certificazione bio è enormemente aumentata negli ultimi anni; dai 4.921 acri di vigneti certificati del 2000 agli 8.370 del 2006. Secondo il California Sustainable Winegrowing Report Alliance, oltre 1.165 vigneti e aziende vitivinicole stanno valutando la sostenibilità dei propri metodi di viticoltura: un business che interessa il 33% dei 522.000 acri di vigneti presenti e il 53% della produzione annuale.
La situazione di mercato non è meno in fermento in Europa, dove le cantine più prestigiose applicano da sempre i metodi della viticoltura biologica e dove lo spostamento verso il bio è sempre più in aumento, come emerso nell’ultima edizione del Biofach. L’Italia conserva la posizione di leader assoluto con oltre 30.000 ettari di vigneti biologici, seguita da Francia e Spagna (entrambe con 15.000 ettari bio) e dalla Germania (2.000 ettari).
In altre parole, il vino bio piace al mercato, come provano anche i risultati dell’azienda vitivinicola Barone Pizzini, pioniere in Franciacorta di bollicine DOCG da viticoltura biologica e con 150 ettari di vigneti certificati fra Franciacorta, Toscana, Marche e Puglia. “Nel 2007 abbiamo registrato un incremento del fatturato del 30%, di cui il 10% all’estero, con una media di export superiore alla media di mercato – ha sottolineato, a margine del convegno, Silvano Brescianini, Direttore Produzione di Barone Pizzini. “Già in questi primi tre mesi siamo ad in incremento del 25% rispetto allo scorso anno. La nostra è stata una scelta di qualità e di sostenibilità ambientale e, a distanza di 10 anni, siamo sempre più convinti della qualità dei nostri prodotti e soddisfatti di aver colto, ben prima che si parlasse di, una sensibilità e un’attenzione nei consumatori che ora si sta manifestando con sempre maggiore convinzione tanto di diventare vera e propria domanda di mercato”.

Barone Pizzini
Ufficio Stampa
Vini e sapori

18 aprile 2008

Noi, i forzati del desiderio (dal sito

come don chisciotte)

DI UMBERTO GALIMBERTI

La Repubblica

I Nuovi Vizi - Sette come quelli capitali, ma l’epoca moderna si e arricchita di altre patologie

Perché il consumismo è un vizio? Un vizio nuovo, perché sconosciuto alle generazioni che ci hanno preceduto. Non è forse vero che il consumo sollecita la produzione aiuta la crescita che tutti i paesi assumono come indicatore di benessere e si allarmano quando oscilla intorno allo zero?

Perché il consumismo è un vizio se è vero che mette alla porta di tutti una serie di scelte personali che un tempo erano riservate solo ai ricchi?

E cioè una varietà di alimenti che i nostri vecchi si sognavano, possibilità d’abbigliamento sconosciute alle generazioni precedenti, una serie infinita di elettrodomestici che riducono la fatica in casa regalando a chi ci vive, tempo libero per altre e più proficue attività?

Perché il consumismo è un vizio? Perché crea in noi una mentalità a tal punto nichilista da farci ritenere che solo adottando, in maniera metodica, e su ampia scala, il principio del consumo e della distruzione degli oggetti, possiamo garantirci identità, stato sociale , esercizio della libertà e benessere. Ma vediamo le cose più da vicino.

1. La circolarità produzione consumo. E’ noto che produzione e consumo sono due aspetti di un medesimo processo, dove decisivo è il carattere “circolare” del processo, nel senso che non solo si producono merci per soddisfare bisogni, ma si producono anche bisogni per garantire la continuità della produzione delle merci.

Là infatti dove la produzione non tollera interruzioni, le merci “hanno bisogno” di essere consumate, e se il bisogno non è spontaneo, se di queste merci non si sente il bisogno, occorrerà che questo bisogno si “prodotto”.

A ciò provvede la pubblicità, che ha il compito di pareggiare il nostro bisogno di merci con il bisogno delle merci di essere consumate. I suoi inviti sono esplicite richieste a rinunciare agli oggetti che già possediamo, e che magari ancora svolgono un buon servizio, perché altri nel frattempo ne sono sopraggiunti, altri che “non si può non avere”. In una società opulenta come la nostra, dove l’identità di ciascuno è sempre più consegnata agli oggetti che possiede, i quali non solo sostituibili, ma “devono” essere sostituiti, ogni pubblicità è un appello alla distruzione.

2. Il principio della distruzione. Si tratta della distruzione, ma se l’espressione vi pare troppo forte usiamo pure la parola “consumo”, che non è la “fine” naturale di ogni prodotto, ma “il suo fine”. E questo non solo perché altrimenti si interromperebbe la catena produttiva, ma perché il progresso tecnico, sopravanzando le sue produzioni, rende obsoleti i prodotti, la cui fine non segna la conclusione di un’esistenza, ma fin dall’inizio ne costituisce lo scopo. In questo processo la produzione economica usa i consumatori come i suoi alleati per garantire la mortalità dei suoi prodotti, che poi la garanzia della sua immortalità.

Come condizione essenziale della produzione e del progresso tecnico, il consumo costretto a diventare “consumo forzato”, comincia a profilarsi come figura della distruttività, e la distruttività come un imperativo funzionale dell’apparato economico. Il “rispetto”, che Kant indicava come fondamento della legge morale, è disfunzionale al mondo dell’economia che, creando un mondo di cose sostituibili con modelli più avanzati, produce di continuo “un mondo da buttar via”. E siccome è molto improbabile che un’umanità, educata alla più spietata mancanza di rispetto nei confronti delle cose, mantenga questa virtù nei confronti degli uomini, non possiamo non convenire con Gunther Anders per il quale: “ L’umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via, tratta anche se stessa come un‘umanità da buttar via”.

3. L’inconsistenza delle cose. Che ne è delle cose, della loro consistenza, della loro durata, della loro stabilità? Da sempre le cose si consumano e diventano inutilizzabili, ma, nel ciclo produzione-consumo che non può interrompersi, esse sono pensate in vista di una loro rapida inutilizzabilità. Infatti è prevista non solo la loro transitorietà, ma addirittura la loro “data di scadenza” che è necessario sia il più possibile a breve termine. E così invece di limitarsi a concludere la loro esistenza, la fine delle cose è pensata sin dall’inizio come il loro scopo.

In questo processo, dove il principio della distruzione è immanente alla produzione, l’”uso” delle cose deve coincidere il più possibile con la loro “usura”. E se questo non è possibile per l’intero prodotto perché nessuno l’acquisterebbe, è sufficiente che lo sia per i pezzi di ricambio, il cui costo deve essere portato a livelli tali che persino piccole riparazioni vengano a costare, se non di più, almeno come un nuovo acquisto. Se questo non basta sarà la pubblicità a persuaderci che anche se la nostra automobile tecnicamente funziona ancora nel migliore dei modi, è il caso di sostituirla, perché “socialmente inadatta” e in ogni caso “non idonea al nostro prestigio”.

4. Il dissolvimento della durata temporale. Il tratto nichilista dell’economia consumista che vive della negazione del mondo da essa prodotto perché la sua permanenza significherebbe la sua fine, destruttura nei consumatori la dimensione del tempo, sostituendo alla durata temporale, che è fatta di passato, presente e futuro, la precarietà di un assoluto presente che non deve avere alcun rapporto col passato e col futuro.

E allora oltre alla produzione forzata del bisogno, ben oltre i limiti della sua rigenerazione fisiologica, il consumismo utilizza strategie, come ad esempio la moda, per opporsi alla resistenza dei prodotti, in modo da rendere ciò che è ancora “materialmente” utilizzabile, “socialmente” inutilizzabile, e perciò bisognoso di essere sostituito. E questo non vale solo per le innovazioni tecnologiche (televisioni, computer, cellulari), o per il guardaroba femminile (e oggi anche maschile), ma, e qui precipitiamo nell’assurdo, anche per gli armamenti.

Se un armamento resta inutilizzato per mancanza di guerre e quindi di potenziali acquirenti, o si inventano conflitti per “ragioni umanitarie”, o si producono armi “migliori” che rendono obsolete quelle precedenti. Anche se si fatica a capire in che cosa consista il “miglioramento” in una situazione in cui, con le armi a disposizione, già esiste per l’umanità la possibilità di sterminare se stessa in modo totale. Che senso ha in questo caso mettere sul mercato qualcosa di “meglio”?

5. La crisi dell’identità personale. Viene ora da chiedersi: quali sono gli effetti della cultura del consumismo sulla costruzione e sul mantenimento dell’identità personale? Disastrosi. Perché là dove le cose perdono la loro consistenza, il mondo diventa evanescente e con il mondo al nostra identità. Infatti, là dove gli oggetti durevoli sono sostituiti da prodotti destinati all’obsolescenza immediata, l’individuo, senza più punti di riferimento o luoghi di ancoraggio per la sua identità, perde la continuità della sua vita psichica, perché quell’ordine di riferimenti costanti, che è alla base della propria identità, si dissolve in una serie di riflessi fugaci, che sono le uniche risposte possibili a quel senso diffuso di irrealtà che la cultura del consumismo diffonde come immagine del mondo.

Là infatti dove un mondo fidato di oggetti e di sentimenti durevoli viene via via sostituito da un mondo popolato da immagini sfarfallanti, che si dissolvono con la stessa rapidità con cui appaiono, diventa sempre più difficile distinguere tra sogno e realtà, tra immaginazione e dati di fatto.

6. L’evanescenza della libertà. In una cultura del consumo dove nulla è durevole, la libertà non è più la scelta di una linea d’azione che porta all’individuazione, ma è la scelta di mantenersi aperta la libertà di scegliere, dove è sottinteso che le identità possono essere indossate e scartate come la cultura del consumo ci ha insegnato a fare con gli abiti.

Ma là dove la scelta non produce differenze, non modifica il corso delle cose, non avvia una catena di eventi che può risultare irreversibile, perché tutto è intercambiabile: dalle relazioni agli amanti, dai lavori ai vicini di casa, allora anche i rapporti fra gli uomini riproducono alla lettera i rapporti con i prodotti di consumo, dove il principio dell’”usa e getta” regola sia le “relazioni matrimoniali” sia le ”relazioni senza impegno”.

Che fare? Nulla. Perché l’identità personale a cui fare appello per arginare gli inconvenienti del consumismo non c’è più, essendo stata a sua volta risolta in un insieme di bisogni e desideri programmati dal mercato.

A differenza dei ”vizi capitali”che segnalano una “deviazione” della personalità i “nuovi vizi” ne segnalano il “dissolvimento” ,che tra l’altro non è neppure avvertito, perché investe indiscriminatamente tutti. I “nuovi vizi”, infatti, non sono personali, ma tendenze collettive, a cui l’individuo non può opporre una efficace resistenza individuale, pena l’esclusione sociale. E allora perché parlarne? Per esserne almeno consapevoli, e non scambiare come “valori della modernità” Quelli che invece sono solo i suoi disastrosi inconvenienti.

Umberto Galimberti

Fonte: http://www.repubblica.it

Birmania

Lunedì 21 aprile ore 18,30
multicinema modernissimo.it
via cisterna dell’olio 49/59
napoli

Presentazione del libro
Viaggio in Myanmar.
La Birmania dal feudalesimo alla dittatura attraverso il colonialismo”
di Mariateresa Sivieri e Pietro Tormen - ed. Cleup
con proiezione di immagini accompagnate dalla musica di arpa birmana.

Introduce Luciano Stella.
Intervengono Mariateresa Sivieri, autrice del libro; Pietro Tormen, autore delle fotografie; Dario Del Giudice, Amnesty International Sezione Italia – Referente tematiche internazionali - Circoscrizione della Campania.

Sarà possibile inoltre avere informazioni sulla situazione dei diritti umani in Myanmar e sulla repressione del popolo birmano e dei monaci.
E’ possibile sottoscrivere l’appello di Amnesty: Myanmar: è il momento di rilasciare Aung San Suu Kyi! sul sito di Amnesty <
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Il nome Myanmar, sconosciuto al grande pubblico che preferisce quello più familiare "Birmania", è noto soprattutto nel mondo delle istituzioni internazionali e delle organizzazioni solidaristiche di società civile globale. La situazione del Myanmar è da decenni sotto i riflettori dell'ONU, dell'UNICEF, dell'UNESCO e del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (PNUD). Il governo è sotto costante osservazione affinché rispetti i fondamentali diritti della persona. Il Myanmar, pur facendo parte dei Trattati internazionali quali le Convenzioni di Ginevra del 1949, non ha mai ratificato i Patti internazionali del 1966 relativi ai diritti civili, politici, sociali, culturali ed economici.

Il libro ripercorre la storia dal feudalesimo alla dittatura attraverso il colonialismo, rivela l'accanimento dei militari sulla povera gente; le fotografie, seguendo un percorso di viaggio, esaltano la vita quotidiana, le bellezze naturali ed artistiche. Mariatersa Sivieri, laureata in lettere, insegnante per molti anni, ora in pensione, ha precedentemente trattato argomenti storici e naturalistici relativi al Veneto. Ora è andata molto più in là, ma i contenuti, oltre alla natura e la storia, affrontano decisamente la democrazia e l'autodeterminazione dei popoli. La parte fotografica è curata da Pietro Tormen, la prefazione di Antonio Papisca.




Riprendimi*, con cura



di Giovanni Laino*


Due sceneggiatrici, Anna Negri che è anche la regista e Giovanna Mori, in modo autoironico e sapienziale si immedesimano in due documentaristi – i più precari di tutto il racconto – che investono le poche risorse che hanno, per fare un film sul precariato, riprendendo la vita quotidiana di una coppia di cineasti che da poco hanno avuto un bambino.

Nel film Riprendimi il due, il duale, è uno schema molto utilizzato nei diversi modi di costruire e realizzare il testo. Della coppia che si separa, Lucia fa la montatrice: è brava nei tagli e nelle ricomposizioni delle scene di vita degli altri ma prova un lancinante dolore dovendo trattare quelli che riguardano la sua esistenza; fa fatica, ma ne esce, cercando con fiducia una qualche disciplina della vita, trovando l’uomo che con più cura la riprende. Giovanni fa l’attore e, un po’ per opportunismo, un po’ perché realmente attraversato dalla crisi, da irrequietezze interiori, si sente vagabondo. Non è privo di ambiguità e non a caso interpreta Pietro, quello che tradisce ma anch’egli prende coscienza: “non è colpa di nessuno” e, attraversando le onde fra anelito alla libertà e bisogno di sicurezza, continua a procreare. I due conservano tratti adolescenziali nel misurarsi con la crescita di un bambino e, anche a causa della precarietà, mostrano lacune nella maturazione affettiva.

Per seguirli in presa diretta quando si dividono, anche il cameraman e il fonico devono separarsi. Si ritrovano solo per consumare un panino o un trancio di pizza in auto e fare il punto di un progetto che va spesso in crisi. La dualità attiene anche alle due principali figure maschili: Giovanni uomo viziato dalle cattive abitudini e dall’egoismo che lo spinge ad anteporre la sua felicità ad ogni cosa e Eros, il cameraman, tenero e rispettoso.

Come in un libro di Franco La Cecla, il film parla dell’inevitabile conflitto nei congedi, anche quando uno dei due, con forza, implora:lasciami ! In realtà il film tratta della separAzione che, esito sempre più frequente della debolezza dei rapporti, è una condizione trasversale della vita contemporanea. I due filmaker cercano di documentare come l’instabilità lavorativa influenzi la storia affettiva sino a determinare precarietà dei legami. Pur prendendo coscienza di quanto scombussolamento può comportare la frammentazione e la rarefazione della società liquida, qualcuno fa notare che dall’epoca dei nonni, “le corna sono le corna” e implicano sempre una rottura di un patto di lealtà oggi sempre meno sostenuto da vincoli e conformismo sociale.

Uno dei meriti del film è la presentazione molto realistica, ironica e tenera dei personaggi, di atmosfere, anche paradossali. La scena del set della fiction con i frati intorno al povero Cristo, rappresenta forse una generazione di maschi che non sanno che fare, disorientati fra vecchi modi di fare sessisti, cornici di senso non più idonee e limitata capacità di amare. Come pure le diverse scene che riportano il peso delle routine quotidiane in cui coloro che si ritengono creativi e talentuosi, si sentono spesso imprigionati.

Il film mantiene una cifra di commedia italiana che, pur emozionando, non intende intristire, senza nascondere l’esperienza della morte: in questa mutazione delle condizioni di vita, forse anche più di prima, nel disorientamento e con il mal di cuore, c’è chi resta solo e chi non c’è la fa.

Evitando facili semplificazioni, le autrici suggeriscono che è nell’amore che occorre aver fiducia, considerando la cura, l’accuratezza nel fare con tenacia un lavoro, nel preparare del cibo, come nel rispetto dell’altro, un criterio di discernimento nell’incertezza che non può scomparire. Senza credere ai quadretti felici della pubblicità ingannevole, è necessario imparare a fare i conti con il mal di cuore e con la durezza di alcuni traumi che possono portare vicino o oltre la soglia di povertà. Affiora però anche una diversa prospettiva, meno sostenibile: nell’esperienza del senso di inadeguatezza dei personaggi più che il mal d’amore emerge un nuovo disagio della civiltà, che come “il coltello della dispersione” scompone la struttura profonda del modo di sentire e cercare se stessi e il legame con l’altro, i modi possibili della convivenza. Certo ha senso costruire forme solidali recuperando le tracce di comunità che pure ci sono ma occorre prendere atto che la stabilità, la continuità così come vissute nel Novecento non sono più possibili, nel lavoro come nell’abitare, forse anche nell’amare.

*Riprendimi, Film di Anna Negri, con Alba Rohrwacher, Marco Foschi


** Su La Repubblica Napoli del 13 aprile 2007


Rho 19 aprile - Manifestazione dei territori resistenti

Comunicato Stampa
da socialpress

Basta con il saccheggio dei nostri territori

Sabato 19 aprile, con partenza alle ore 14 dal piazzale della Stazione Fs di Rho, si apre una stagione di lotte e di mobilitazioni sul territorio da parte delle popolazioni lombarde che rivendicano un’altra Lombardia e un’altra Milano possibile e necessaria.

Siamo convinti che l’Expo 2015 assegnato a Milano, oltre che un grande evento affaristico-commerciale a vantaggio di pochi, sarà anche la celebrazione/perpetuazione di un modello economico e sociale di sviluppo, che comporta costi elevatissimi per l’ambiente e la salute, l’attacco concreto ai parchi regionali, la trasformazione di Milano in città vetrina da usare e consumare; una città che risponde con gli sgomberi e le espulsioni alle povertà e ai problemi sociali della collettività. Un modello che ha trasformato i nostri territori tra i luoghi più inquinati del pianeta (fonte Org. Mondiale della Sanità); un modello che alimenta le disuguaglianze sociali, basato sulla precarietà e il lavoro nero. Expo vorrà dire nuove colate di cemento per opere infrastrutturali e un attacco senza precedenti ai residui territori agricoli attorno alla città (e in Borsa, non a caso, i titoli del settore edile, immobiliare e del cemento sono volati alle stelle dopo l’assegnazione). Gli investimenti saranno inevitabilmente sottratti ad altri impieghi, con il risultato che per il beneficio e i profitti di Fiera, Cabassi, Zunino, Ligresti e altri soliti noti, pagheremo tutti debiti a lungo e saremo più poveri di risorse paesaggistiche e di beni comuni.

Manifestiamo a Rho perché già oggi questi territori pagano costi enormi al “modello Fiera”; perché nessuno dei benefici promessi da Fiera ha toccato gli abitanti di queste zone; perché qui è previsto il sito-Expo; perché a Rho si pratica la logica della città-vetrina cercando di tacitare chi si oppone a queste politiche e a certe scelte minacciando lo sgombero del C.S. Fornace. Scendiamo in piazza nei giorni del Salone del Mobile, uno dei simboli della Fiera e della città dell’effimero, per rivendicare un’altra Lombardia possibile, che difenda quella risorsa unica costituita dal paesaggio, che crei lavoro e ricerca per ridurre gli sprechi energetici e diffondere le fonti rinnovabili, che punti sull’agricoltura, i suoi prodotti e la filiera corta, che investa sul trasporto pubblico e la mobilità sostenibile, per un’altra Milano necessaria, a misura dei soggetti più deboli, più ricca di solidarietà, saperi, socialità.

Adesioni:

Comitato No Expo Milano, C.S. Sos Fornace (Rho), Comitato Notangenziale del Magentino, Coordinamento Comitati Ambientalisti della Lombardia, SdL Intercategoriale, CUB, L.S. Cantiere (Mi), Ass.ne per i Parchi del Vimercatese, Sinistra Critica, Rete per la Sicurezza sul Lavoro (MI), C.na Autogestita Torchiera (MI), Coord. Lomb. Nord-Sud, Assemblea Permanente NoF-35 (NO), Diciannoverde (MI), Rete per la Decrescita, Partito Umanista, Umanisti per l’ambiente, PDCI Rho, Lista Uniti con D. Fo (MI), Coll. Oltre il Ponte Nerviano (MI), PCL Milano, Giov. Comunisti/e Lombardia, Un’altra città Vimodrone,Attac Milano, Attac Saronno

COMITATO NO EXPO - 3357633967

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