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29 novembre 2009

Moreno per chi non è nella rete facebook

per chi non è nella rete facebook

Approvata la delibera regionale che trasforma il Progetto Chance in una risorsa ordinaria per 12 scuole
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Monday, November 23, 2009 at 5:26pm
Venerdì 20 novembre 2009
io non so se questa delibera sia veramente passata, può darsi che a causa di qualche correzione debba ritornare all'approvazione, ma ho preferito comportarmi come se fosse stata già approvata. In quello stesso giorno c'era il convegno Civitas Educationis-Interrogazioni e sfide pedagogiche, promossa dalla decana della pedagogia generale Elisa Frauenfelder, presenti i cattedratici di una decina delle principali università italiane. Si parlava in qualche modo di ruolo civile dell'educazione e mi è sembrata una occasione troppo ghiotta per non parlare di Chance. Nottetempo quindi ho scritto quanto segue e al mattino di sabato, mentre Pirozzi elaborava la sua nota, ho diffuso - volantinando come ai bei tempi - questo manifesto in 50 copie. Io credo che qui sia contenuta una risposta implicita alle molte questioni poste da Pirozzi, ma soprattutto credo che nella maniera più diretta, più semplice e lineare sia esposto quale è il problema attuale, che non riguarda Chance, ma - insisto - le basi su cui è fondata la nostra convivenza civile. Vorrei che ci attenessimo a questo punto elementare: tutto il resto sono accidenti, vicoli laterali in cui non intendo perdere nè me stesso nè quelli che sono capaci di intendere di cosa stiamo parlando.

Comunicazione per i partecipanti a Civitas Educationis

Il Progetto Chance ha rappresentato per undici anni un progetto di nuova cittadinanza fondato su giovani altrimenti esclusi.
La portata generale del progetto deriva dal suo collocarsi in un punto strategico dello sviluppo di una società, quello in cui i giovani cittadini fanno il loro ingresso nell’ordine sociale esistente. In questo punto che appartiene insieme all’ordine dello spazio sociale e all’ordine dello spazio mentale di una civiltà, si realizza un incontro tra una configurazione sociale esistente e una nuova forma da realizzare insieme ai nuovi venuti. In questo punto si decide se una società è capace di crescere o semplicemente di includere, assimilare, digerire il nuovo, ingrassando senza crescere.
Le periferie sociali, le periferie geografiche, le periferie dell’animo hanno un tratto comune: la capacità di mettere in discussione il patto sociale preesistente, la certezza dei fondamenti, la sicurezza dei ruoli sociali.
C’è un modo di trattare coloro che premono sui confini della società che è epistemologicamente escludente: quelli di fuori sono ‘barbari’ non parlano la nostra lingua, non condividono il nostro episteme, la nostra weltenshaung possono diventare dei ‘nostri’ a patto che imparino prima la nostra lingua. L’educazione, e prima di questa la scuola che insegna a scrivere leggere e far di conto, rappresenta da questo punto di vista una porta di ingresso nel sociale, l’occasione in cui i sogni privati di milioni di famiglie possono diventare un progetto di trasformazione e crescita sociale.
Oppure no, la scuola può avere il ruolo delle forche caudine, una porta al cui passaggio è necessario abbassare il capo, essere umanamente umiliati per essere portati in società come prede piuttosto che come cittadini sovrani. Le pratiche educative che non siano anche pratiche di libertà, di cittadinanza immediata (non rimandata sine die) , di creatività – libera invenzione di sé – non sono pratiche che allargano i confini della società, ma pratiche che pretendono di far passare il canapo nella cruna dell’ago.
Milioni di giovani vivono la scuola in questo modo. I primi sono proprio quelli per i quali la scuola può vantare il ‘successo formativo’, il successo di una operazione di assimilazione che assume troppo spesso i contorni del conformismo, della sudditanza, della omologazione che generano sofferenza e disagio a cui i giovani stessi non possono che dare risposte stereotipe, conformi a un modello sociale che li ha privati della capacità di reinventarsi. Gli ultimi che vivono male la scuola sono quelli presso cui la scuola non può vantare alcun successo, quelli che sono restati fuori, i drop out, gli emarginati.
Secondo il punto di vista che stiamo proponendo questi ultimi potrebbero addirittura vantare la ‘purezza’, una sorta di selvaggia estraneità al conformismo sociale che ne farebbe addirittura dei soggetti umani privilegiati. Non sono mancati e non mancano i tentativi di privilegiare romanticamente gli ultimi come potenziali liberatori del mondo, quelli in grado di capovolgere il mondo ed aprirlo a una radiosa alba di fratellanza universale. Non mancano mai quelli che si fanno sedurre dal primitivismo, che sono ammaliati dagli ultimi e soffrono di un male nostalgico del primitivo molto simile al “mal d’Africa”.
Ma le cose dell’animo e della società non seguono mai i canali di una meccanica sociale lineare quanto una meccanica celeste pre-relativistica. Gli ultimi in una società della comunicazione, non sono affatto puri, non sono affatto liberi e assorbono l’episteme semplificata dell’avere che chiude alla complessità dell’essere. E l’insuccesso scolastico e formativo non apre a un mondo libero dalla schiavitù dei bisogni indotti, ma suggella col marchio dell’esclusione l’impossibilità di essere cittadino attivo insieme alla possibilità di essere un consumatore compulsivo di quanto il mercato offre e di quanto l’individuo può possedere con mezzi leciti o illeciti.
C’è un altro modo di trattare coloro che sono ai confini che è intrinsecamente accogliente: dovete entrare perché insieme dobbiamo riscrivere le regole, dobbiamo costruire insieme un cerchio più largo, non dobbiamo fare spazio a nuovi cittadini ma costruire insieme nuova cittadinanza.
Dunque il Progetto Chance occupandosi degli ultimi e degli esclusi non si è occupato di riammettere al banchetto dei consumi indotti quelli che non avevano i mezzi per farlo, ma si è occupato di restituire a giovani invasi insieme dal dolore e dalla coazione a ripetere il potere della parola e del pensiero.
Dunque da questo punto di osservazione ha potuto avere un punto di vista privilegiato su quel crogiuolo dove al calor bianco si rifonda una società, osservare da vicino i processi psichici, i modi di socializzazione che consentono a ciascuno di riprendere in mano il proprio destino, di passare dalla condizione di etero direzione a quella di autonomia, da quella di anomia sociale a quella di sociatività, centri attivi di promozione di legami e di convivenza.
Per realizzare questo obiettivo il Progetto Chance non ha usato una logica rivoluzionaria o una pedagogia alternativa. Non ha cercato di “capovolgere” le regole, né ha cercato un altrove pedagogico dove sperimentare nuove alchimie. Ha scelto di operare nei luoghi stessi dell’emarginazione, ha scelto di abitare i ghetti della città e dell’animo, di condividere l’esperienza degli ultimi per rielaborarla insieme a loro, per essere guide sicure ad uscire dai ghetti sociali e dalle prigioni dell’animo. Riuscire a utilizzare il pensiero e la parola in situazioni estreme, riuscire a mantenere il senso dell’impresa educativa quando il mondo intero ti crolla intorno, quando la violenza delle armi e la violenza dei consumi indotti svalutano continuamente la persona e la parola è la lezione di vita che noi abbiamo cercato di offrire ai nostri allievi, quella che ci rende stimabili ai loro occhi e legittimati a parlare. Maestri di strada quindi, maestri che insegnano la strada, guide per uscire fuori, per educarsi.
Maestri che parlano nell’agorà, al mercato, come faceva Socrate che in piazza rispondeva a questioni di vita e di morte, rifletteva in pubblico sulla legittimità della vendetta di sangue e sulla necessità della legge. E per queste sue risposte, date fuori dal chiuso dell’accademia, fu condannato a morte.
Oggi alle persone non viene offerta la cicuta ma esistono infiniti modi per intossicarsi, per uccidersi in senso professionale e pedagogico. A volte basta solo respirare a lungo una atmosfera satura di veleni per restarci secchi. Dunque la nostra esistenza come educatori è ogni giorno a rischio e senza questo quotidiano rischio non saremmo veri educatori. Dunque dobbiamo essere felici di vivere nel rischio ma al tempo stesso sappiamo che è nostro dovere sopravvivere, dimostrare che sfidando il rischio è possibile crescere.
In questi undici anni l’esistenza Chance è stata sistematicamente esposta a letture svalutanti ed avvelenate: è un progetto di recupero sociale, si occupa di disgraziati senza speranza, meno male che ci sono, che sono così masochisticamente eroici, chissà quale colpa stanno espiando ( Rulli e Petraglia sceneggiatori de O’Professore – sceneggiato Mediaset che oscenamente pretende di rappresentare i maestri di strada - hanno dato corpo a questo fantasma: o’Professore è un sessantottino assassino che espia la sua colpa dedicandosi – in modo paternalista e collusivo – ai figli di quelli che erano i suoi nemici di un tempo). Anzi i ‘maestri di strada’ rispondono a un bisogno sociale di riparazione, una seconda occasione che non è data ai ragazzi ma ad una formazione sociale per riparare ferite che ha in precedenza inferto. E visti in questo modo siamo anche i testimoni di un delitto che i più vorrebbero occultare. Sulla base di questa emozione siamo stati tenuti ai margini, forse anche protetti, ma allo stesso modo in cui ci sono programmi di protezione per i testimoni scomodi: comunque vivi una vita nascosta.
Oppure siamo stati vissuti come i responsabili di una falla del sistema di pensiero in tutto analoga all’assioma di incompletezza, della esistenza dei numeri primi: la matematica - la più perfetta delle scienze - ha alla base una aporìa: esistono affermazioni vere non derivabili dagli assiomi; come dire che gli assiomi sono sempre incompleti, che esistono dei numeri primi che sfuggono alla regolarità delle serie. Un pensiero del genere leva il sonno a tutti i sistemisti (volevo dire proprio così), a quelli che hanno bisogno di un sistema che come pietra filosofale trasforma ogni problema in una eventualità prevedibile sulla base degli assiomi condivisi. Il fango trasmutato in oro.
“Perdete tempo, il vero problema è la prevenzione, è fare le cose rispettando gli assiomi pedagogici giusti e tutto andrà a posto in automatico” (e questo è il motivo ideologico per cui ministri e sottosegretari di sinistra sono stati incapaci di dare un assetto istituzionale al progetto).
Dunque il progetto Chance ha costituito una irregolarità epistemica disturbante e come tale rigettata in periferia, stigmatizzata non per motivi socio-politici, ma per incompatibilità filosofica.
Qualsiasi sia il punto di vista siamo stati periferici, marginali, esclusi dalle pratiche ordinariamente praticabili.
Sennonché siccome sappiamo parlare e scrivere, siccome abbiamo fatto della professionalità riflessiva una bandiera del progetto, in questi anni ci siamo procurati molti amici, molti dei quali presenti in questa sala che, forse per sano istinto da educatori, forse per simpatia umana, ci hanno ascoltato e seguito e spesso ci hanno aiutato a inquadrare le nostre pratiche in modelli teorici e tendenze riconoscibili dalla comunità scientifica. Se il progetto ha resistito per undici anni molto è dovuto al modo in cui l’accademia in vari modi ci ha sostenuto.
Ieri, venerdì 20 novembre 2009, mentre si svolgeva la prima giornata di questo convegno è stato approvato il primo atto ufficiale che rende il Progetto Chance una risorsa in qualche modo ordinaria incorporandola in dodici scuole di Napoli e della Provincia situate in zone strategiche dell’esclusione. Si tratta di una felice coincidenza. Ma il fatto che si tratti di una coincidenza e non di un appuntamento segnala un problema.
Nel momento in cui il progetto grazie alla Regione Campania (ma orfano dei precedenti apporti del Comune di Napoli, del MIUR e di altre istituzioni che facevano parte dell’accordo di programma del 1998) diventa ‘normale’ può diventare oggetto di una normalizzazione (ricordate la normalizzazione dei carri armati a Praga?) – involontaria o vendicativa – che ne distrugge la carica trasformativa, le potenzialità di crescita per l’intera scuola. Noi siamo convinti che il Progetto Chance possa aiutare una riflessione generale sulle pratiche educative per la cittadinanza che deve coinvolgere la scuola e non solo la scuola, e chiediamo a quelli di voi che potranno farlo una aiuto a mantenere questo senso al progetto. Un aiuto che per tutto quello che si è detto deve essere soprattutto un aiuto di pensiero, un contributo a convalidare un modello di lavoro sulla base di osservazioni, riflessioni, prove. E’ giunto il momento di trasformare la solidarietà umana in prese di posizione basate sui principi pedagogici (che sono quelli che stanno circolando in questa sala) che devono governare la trasformazione istituzionale di questo progetto.
Chance, come si ripete, non ha da rivendicare alcuna originalità, primogenitura pedagogica, o didattica ma ha da rivendicare con orgoglio la determinazione e la coerenza con cui ha valorizzato le pratiche umili, i dettagli per altri insignificanti, un impianto organizzativo, una capacità di gestione della complessità, di valorizzazione e buona conservazione delle risorse umane e professionali che resta la principale forza del progetto e la sua possibilità di influire sulla trasformazione di tutte le pratiche educative. Quello che chiediamo è un sostegno a valorizzare questo patrimonio che rischia –principalmente per le debolezze umane da cui tutti siamo affetti – di naufragare in una navigazione non più protetta.
Nelle prossime settimane, via mail diffondiamo un documento di sintesi riguardante le pratiche educative di cittadinanza ispirate al progetto Chance, e speriamo di poter sottoscrivere, con un gruppo di studiosi di varia provenienza disciplinare, un atto di indirizzo riguardante i punti fondanti di queste e su questa base costituire una sorta di osservatorio scientifico permanente che contribuisca alla tenuta pedagogica di questa nuova sfida.

Cesare Moreno
Presidente Associazione Maestri di Strada – ONLUS

Mail: maestridistrada@gmail.com

27 novembre 2009

La paura che nega il diritto

GLOBALIZZAZIONE
La paura che nega il diritto
di Guido Rossi
Il Manifesto 26/11/2009


La concorrenza ha sconfitto democrazia e sicurezza che, con la paura e i diritti è diventata oggetto di inquietanti antinomie: si calpestano i diritti per garantire la sicurezza ma con quelle violazioni si creano paure e torna la violenza del Leviatano
Negli ultimi vent'anni la globalizzazione ha cambiato radicalmente la vita economica, politica e sociale dei popoli e degli individui, senza che il diritto ne abbia seguito e disciplinato l'evolversi.
Jacques Derrida nei suoi seminari su «La Bestia e il Sovrano» (Jaca Book, 2009, p.61) ha fatto un esempio illuminante, chiedendosi quale sarebbe stata la reazione allo sventramento delle Torri Gemelle del World Trade Center dell'11 settembre 2001, se l'immagine non fosse stata registrata, filmata, indefinitamente riproducibile e compulsivamente trasmessa in tutti i Paesi del mondo. Il ritorno a Hobbes, dove lo Stato, il Leviatano, altro non è che una macchina per far paura e la paura è l'unica cosa che motiva l'obbedienza alla legge, induce a concludere che «siccome non c'è legge senza sovranità (...) questa chiama, suppone, provoca la paura».
Il pericoloso filosofo del diritto tedesco, Carl Schmitt, amato oggi sia a destra che a sinistra, precisava che «Protego ergo obligo è il cogito ergo sum dello Stato». E questo principio era stato uno dei fondamenti dello stato nazista.
Ma lo Stato attuale nella sua dimensione politico-mediatica ha strumenti per la creazione di paura e quindi di esigenze di protezione o addirittura di omologazione con la Gewalt, cioè la violenza, ben maggiori di quanti se ne potessero immaginare. La cronaca quotidiana, purtroppo, mi esime da qualsivoglia esemplificazione. Mi basterà citare il Patriot Act e Guantanamo, perché sono forse fra gli esempi più clamorosi della sconfitta del diritto di fronte alla paura. Tant'è che il presidente Obama ha recentemente dovuto contraddirsi smentendo la promessa di chiudere Guantanamo.
La verità è spesso manipolata in nome della sicurezza. È così che la costruzione della categoria degli enemy combatants ha tolto a costoro, dopo l'11 settembre, ogni diritto a un giusto processo, ad una normale istruttoria, all'assistenza di un avvocato, ad un regolare dibattimento. Purtroppo neppure la Corte Suprema, altre volte ben più attenta, nel caso Hamdi versus Rumsfeld (124, S.Ct. 2633 , è riuscita a garantire quei diritti a chi viene definito enemy combatant, anche se si trattava di un cittadino americano: il tutto in nome della sicurezza. Sempre identica è la conclusione: la violenza del Leviatano per proteggerti dalla paura (questa volta dei terroristi) colpisce sempre chi non è in grado di difendersi: dai minori, agli immigrati, a tutti i diversi che le società attuali tendono sempre più ad escludere.
Né è possibile sottacere che l'impero della violenza, e quindi quello omonimo della paura, è diventato planetario e trascende ormai la Gestalt del Leviatano. La letteratura apocalittica è immensa. Mi limiterò qui a citare solamente tre testi recenti che ne danno un quadro complessivo, abbastanza preciso, ancorché forse non completo.
Il primo è l'ultima opera di René Girard («Portando Clausewitz all'estremo», Milano 2008, 312) il quale dimostra come la violenza e le guerre nel mondo siano portate all'estremo e come l'accelerazione della storia crei nel genere umano una inconscia angosciante corsa verso l'apocalisse. Precisa Girard in conclusione che «il riscaldamento climatico del pianeta e l'aumento della violenza sono due fenomeni assolutamente legati (...) e questa confusione di naturale e artificiale rappresenta forse il messaggio più forte contenuto nei testi apocalittici». E ovviamente la globalizzazione ha reso la sorte dei minori più precaria, poiché - ripeto - la violenza si scarica sempre sui più deboli.
Martin Rees, il cui saggio «Our Final Century» (London, 2003) lascia poche speranze di sopravvivenza, entro la fine di questo secolo, non solo per il pericolo delle armi atomiche, al quale siamo fortunosamente scampati nel secolo scorso, ma per gli altrettanto gravi pericoli ai quali ci sottopongono ora le biotecnologie, piuttosto che gli errori, sempre più frequenti, negli esperimenti scientifici e nelle tecnologie di vario tipo. E ciò, indipendentemente dalle ulteriori osservazioni di R. Posner («Catastrophe», Oxford, 2004), sui rischi catastrofici delle malattie pandemiche, piuttosto che sulle possibili collisioni astrali e via discorrendo. Con una popolazione mondiale che, secondo i calcoli di Levy-Strauss, nel 2050 ammonterà a più di 9 miliardi di individui, difficilmente sfamabili ma soggetti a rischi di carestia. L'ultima copertina del settimanale The Economist intitola "How to feed the world" (come sfamare il mondo), per giungere alle stesse conclusioni. La sottovalutazione della portata di questi rischi non riduce certo la loro costante riproposizione nei media e il conseguente aumento collettivo dello stato di paura e di angoscia.
A questi rischi apocalittici si è ora aggiunta una grave crisi economica mondiale che nelle sue ricadute sull'economia reale e in particolare sulla disoccupazione aumenta in tutti i paesi la sensazione di instabilità e di minaccia alla sopravvivenza. La crisi ha dimostrato i limiti di un'ideologia basata sulla ricerca individualistica della ricchezza che ha portato all'autodistruzione del sistema in una recessione economica mondiale che colpisce soprattutto i paesi più poveri. Per di più, in un sistema dove vige la forza, chi è destinato a perdere è sempre il più debole che è sprovvisto di forza contrattuale, l'unica alla quale un'ostinata volgare ideologia continua ad attribuire valore anche agli effetti risolutivi della crisi. L'autoregolamentazione e il contratto sono nuovi idoli del mercato globale che ha clamorosamente fallito.
Senza contare che lo stesso sviluppo economico orientato sempre più verso il consumismo ha provocato un fenomeno brillantemente descritto di recente da Robert Reich («Supercapitalismo», 2009). La spinta all'estremo della concorrenza fra le imprese, al fine di ridurre sempre più i prezzi dei prodotti, per conquistare i consumatori, ha necessariamente portato alla riduzione dei costi, laddove era più facile e cioè come sempre nei confronti dei più deboli, vale a dire i lavoratori. Questi si sono visti via via sottrarre i diritti che avevano faticosamente conquistato. Insomma, l'interesse del consumatore ha avuto la meglio sui diritti del cittadino e così la concorrenza ha sconfitto la democrazia e la sicurezza.
Quella sicurezza, che con la paura, e i diritti è diventata oggetto di inquietanti antinomie: si calpestano i diritti per garantire la sicurezza, ma con quelle violazioni si creano paure e così in un circolo vizioso torna la violenza del Leviatano.
Allora la soluzione sta altrove: cioè sopra il Leviatano, sopra gli stati, cioè nel rispetto dei diritti umani e in quei principi che stanno sopra e al di fuori delle norme imposte dal Leviatano.
È pur vero che, come ci hanno insegnato sia N. Bobbio, sia M. Ignatieff, i diritti umani, nella loro pretesa di universalità, sono assolutamente storici e neppure assoluti. Alla loro base, tuttavia, nella diversità delle culture, esiste un minimum senza il quale le società non potrebbero sopravvivere. È in quel minimum che si sconfigge il loro supposto relativismo ed è in quel minimum che oggi G.B. Vico riconoscerebbe il senso comune insito nella facoltà dell'ingenium propria a tutto il genere umano, ed alla sua naturale propensione alla giustizia. A quella giustizia, alla quale il filosofo napoletano riconduceva altresì la «sapienza volgare» dei popoli primitivi. Uno dei maggiori esponenti di questa corrente di pensiero è, attualmente, il filosofo americano Ronald Dworkin.
Si tratta insomma di massime generali, di standards, pur difformi dalle norme positive, il cui contenuto si ritrova nei principi soprattutto costituzionali e poi anche morali di comune accettazione, rappresentati da quel minimum di cui ho sopra parlato. Ed è questo il momento dell'incontro fra diritto ed etica, a fini di giustizia e lontano invece dalle equivoche e fuorvianti formule di codici etici o della responsabilità sociale, o peggio ancora morale, delle imprese.
Il contenuto di questi principi, di questi standards è estremamente vario e complesso. E forse non è un caso che a tali principi, i cosiddetti global legal standards, anche l'Europa stia lavorando per evitare che ci sia la replica della crisi che ha sconvolto l'economia mondiale.
I principi devono essere accettati dai vari paesi, secondo le modalità e le strutture del diritto internazionale. Essi serviranno altresì a decidere gli hard cases, cioè i casi difficili dove la norma manca o è lacunosa. Mi basta qui citare la straordinaria sentenza della Corte suprema degli Stati uniti nel caso Roper versus Simmons del 1° marzo 2005. Si trattava di giudicare sulla pena di morte sentenziata a carico di Christopher Simmons per un assassinio da lui commesso quando aveva 17 anni. E' noto che l'art. 37 della Convenzione dell'Onu sui diritti dei minori del 1989 stabilisce, tra l'altro, che: «Né la pena capitale né l'imprigionamento a vita senza possibilità di rilascio devono essere decretati per reati commessi da persone di età inferiore ai 18 anni». Ma è altrettanto noto che gli Stati uniti e la Somalia sono gli unici due paesi al mondo che non hanno sottoscritto la Convenzione. Ebbene, la Corte Suprema, nella sua magistrale sentenza, concluse che: «È corretto che noi si consideri il peso determinante dell'opinione internazionale contro la pena di morte nei confronti dei minori, consistente in larga misura sull'instabilità e labilità emozionale dei minori che può essere spesso fattore del crimine». E così la pena di morte non fu applicata, perché, secondo l'estensore, il giudice Anthony Kennedy, sarebbe stata, tra l'altro, contro gli evolving standards of decensy. La decenza diventa criterio interpretativo e principio fondamentale del diritto! Il riferimento all'opinione internazionale nell'interpretare la Costituzione americana è stata poi oggetto di ampie discussioni, che alla fine hanno confermato il principio statuito dalla Corte suprema.
Vorrei, come finale meditazione, concludere che in presenza di alluvioni normative e amministrative scoordinate e sovente contraddittorie da parte dei poteri legislativi ed esecutivi non solo italiani od europei, ma di tutto il mondo, l'orizzonte del diritto si può aprire soltanto se i giudici sia interni, sia internazionali, di qualunque categoria, in tutti i paesi democratici, continueranno impegnando la loro dignità e indipendenza, a rivendicare con vigore i principi delle libertà democratiche e della giustizia, sia con valutazioni corrette della realtà, sia con riferimento, quando necessario, agli standard di civiltà per bloccare la violenza e le iniquità del Leviatano.
Mi piace allora terminare con l'ultima frase scritta da Ronald Dworkin ne «L'impero del diritto» (Milano, 1989): «L'atteggiamento del diritto è costruttivo: il suo scopo, nello spirito interpretativo, è quello di far prevalere il principio sulla prassi per indicare la strada migliore verso un futuro migliore, mantenendo una corretta fedeltà nei confronti del passato. Infine, esso rappresenta un atteggiamento fraterno, un'espressione del modo in cui pur divisi nei nostri progetti, interessi e convinzioni, le nostre esistenze sono unite in una comunità. Questo è comunque ciò che è diritto per noi: per gli individui che vogliamo essere e la comunità in cui vogliamo vivere».

Nomadi urbani contro il liberismo

INTERVISTA di Roberto Ciccarelli
ILmnaofesto 26/11/2009

NOMADI URBANI CONTRO IL LIBERISMO
GUY STANDING
Un'intervista con lo studioso inglese in Italia per l'uscita del volume collettivo «Reddito per tutti», una proposta per consentire ai precari di sfuggire al ricatto di lavori dequalificati, sottopagati e a tempo determinato. Ma anche premessa di una politica che riesca a coniugare libertà e eguaglianza dopo che negli anni Ottanta la sinistra aveva abbandonato entrambi gli obiettivi
Renato Brunetta lo ha conosciuto in un convegno a Venezia nel 1988, poco dopo che un piccolo gruppo di economisti, filosofi, sociologi e giuristi aveva fondato il Basic Income European Network (Bien), l'associazione non governativa che promuove a livello mondiale il reddito di base. Guy Standing, docente di sicurezza economica all'università di Bath e co-presidente del Bien, ne ha un ricordo netto. Era l'epoca in cui l'attuale ministro della pubblica amministrazione insegnava all'università e faceva il consigliere di Bettino Craxi. «Ho sempre pensato - scrive Standing nel saggio contenuto in Reddito per tutti: un'utopia concreta (pp. 264, euro 25), il volume pubblicato da Manifestolibri e curato dal Basic Income Network (Bin), nodo italiano della rete mondiale del Bien - che sarebbe stato facile per lui spostarsi dal laburismo cinico alla destra politica», dato l'eloquio dei «ceti rampanti» che il futuro ministro aveva fatto in quell'occasione.
Di quell'incontro Standing ricorda una «lite furiosa» con chi sosteneva una terapia choc nelle politiche sociali. Idealmente quella «lite» continua ancora oggi quando un altro degli ex socialisti al governo, il ministro del Welfare Maurizio Sacconi, ribadisce che la prossima riforma dello stato sociale in Italia escluderà ogni ricorso al «reddito di cittadinanza». L'intervista con Guy Standing è avvenuta alla vigilia della sua partecipazione al convegno napoletano del 27 e 28 novembre al Maschio Angioino «Verso il 2010, anno europeo per la lotta alla povertà e all'esclusione sociale» e per l'uscita del volume della manifestolibri. La conversazione prende avvio dai movimenti degli studenti che dalla California all'Austria, dall'Inghilterra alla Germania fino all'Italia si oppongono alle riforme e ai tagli al sistema della formazione pubblica e a quello della ricerca.
Per Standing, queste mobilitazioni sono «uno degli effetti della crisi globale. Nelle università di questi paesi si denuncia che la promessa di una formazione accessibile a tutti è in pericolo. E con essa le garanzie che lo stato sociale ha assicurato alla soddisfazione della domanda di alfabetizzazione, protezione sanitaria e pensione per i lavoratori nel corso di buona parte dell'epoca industriale. Non è un'esagerazione dire che la formazione è stata mercificata. È deplorevole che i cosiddetti accademici e gli intellettuali abbiano accettato il materialismo volgare dell'attuale sistema educativo. Viviamo in un oscurantismo che ha rimosso lo spirito illuminista della nostra cultura. La formazione dovrebbe infatti insegnare l'arte della critica mentre si accumulano conoscenze su come le idee e le civiltà si sviluppano nel tempo.

Come spiega la centralità della formazione nei processi di produzione?
Parlare oggi di formazione significa parlare di conservazione, riproduzione e rigenerazione dell'essere umano e non più semplicemente di uso efficiente delle risorse e del loro sfruttamento per la produzione. Attraverso la formazione possiamo recuperare il significato del controllo sul tempo. È il suo aspetto «ecologico». Il suo scopo principale dovrebbe essere sottratto ai progetti dei manager, degli amministratori e dai potenti interessi commerciali che tengono in ostaggio gli intellettuali e gli studenti.

Come si dovrebbe riformare il sistema educativo?
In due modi. Primo, dobbiamo rivendicare che le istituzioni della formazione siano governate e modellate su chi ha dimostrato competenza ed impegno nell'educazione, nella scienza e nelle arti. Gli amministratori e i finanzieri sono importanti, ma devono essere i servitori del processo formativo, non i loro padroni. Secondo, ciò che ho chiamato tempo terziario nel mio libro Work after Globalisation: Building Occupational Citizenship (Elgar). Il tempo terziario fa parte di una nozione più ampia di formazione. Nella società agraria, il tempo fluiva nelle stagioni, con il ritmo della produzione naturale e della saggezza degli antichi artigiani. Nel capitalismo industriale, il tempo è stato generalmente suddiviso in blocchi netti: scuola, lavoro, pensione, timbro d'entrata e timbro d'uscita. Per la maggioranza, esso corrispondeva ad una subordinazione ordinata, in particolare nel campo del lavoro salariato, fino a quando un incidente o una morte prematura metteva fine a questa esistenza. Di questa organizzazione i socialdemocratici del XX secolo ne hanno fatto un feticcio, pretendendo che il maggior numero delle persone vivesse con un lavoro salariato subordinato. È il limite delle ambizioni di questi moderni utilitaristi. Oggi, nell'epoca della mercificazione, la democrazia è stata profondamente corrotta. Il tempo terziario mira a riattivare ciò che gli antichi greci chiamavano scholé, cioè la partecipazione pubblica nell'arena politica della polis.

Ma qual è il soggetto di questa politica progressiva?
In primo luogo, è una politica che non può più essere fondata sulla resurrezione del proletariato, sebbene ciò sia desiderabile. Sarà la soluzione dei traumi del precariato ad ispirarla. Al precariato manca però quella che Hannah Arendt ha definito memoria sociale - una psyché che qualche decennio fa vincolava gli operai al valore dell'occupazione. Il precariato non ha un passato perché sente di non avere un futuro. Ciò crea una profonda insicurezza. Oscillare per tutta vita tra lavoretti a tempo determinato crea preoccupanti conseguenze sull'equilibrio mentale e fisico. Il precario non è dunque solo il risultato di un'organizzazione del lavoro, ma della perdita di controllo sul proprio tempo. La ragione fondamentale per sostenere il reddito di base è di evitare che questa oscillazione occupi tutta la vita di una persona. Solo così si può garantire un equilibrio mentale e procedere ad una vera riforma dell'educazione.
Rispetto alla maggior parte delle politiche del XX secolo ispirate dalla presenza politica della classe operaia industriale, la politica progressiva di questo secolo dovrà rispondere alle aspirazioni del precariato. Se ci pensa è proprio questa la rivendicazione più radicale che viene dai giovani di tutto il mondo che non vogliono finire i propri giorni nella disperazione di una vita precaria. La politica progressiva punta inoltre a coniugare uguaglianza e libertà, elemento, quest'ultimo, che la maggior parte della sinistra sia socialdemocratica che comunista ha da tempo abbandonato. Ciò ha avuto come conseguenza l'occupazione dello spazio della libertà da parte della destra, mentre la sinistra sembra attestarsi su un paternalismo di Stato e su un rigido laburismo per il quale libertà e uguaglianza vengono raggiunte occupando il maggior numero di persone in lavori non qualificati o temporanei.

Dunque non è possibile realizzare una società della piena occupazione?
Sarebbe una piena occupazione caratterizzata da lavori dequalificati e a tempo determinato. Il lavoro è uno strumento che tende ad uno scopo, non è un fine in sé. Dovremmo avversare culturalmente e politicamente gli utilitaristi che pensano che il lavoro precario faccia la felicità di una persona. Lo ha fatto la «terza via» di Tony Blair. Il suo workfare è stato il capitolo finale del laburismo in Inghilterra e il fallimento dell'esperimento neo-liberista.

Per alcuni studiosi, la precarietà è una condizione; per altri indica la formazione di una nuova classe sociale?
Al precariato manca un senso di appartenenza. Ciò non esclude però che venga trattato come una nuova «classe pericolosa». L'estraneo, il migrante, il non conformista, i giovani sono gli obiettivi dei Berlusconi, dei Sarkozy, del British National Party e di altre frange populiste che stanno crescendo in tutta Europa. Proprio perché è una «classe in sé» il precariato viene schierato facilmente contro alcune parti di se stesso. Si spiega così la sua attrazione per le sirene del populismo. L'esistenza di milioni di persone che vivono in questa condizione la potrei spiegare con un'immagine forse un po' abusata, ma che trovo adeguata per spiegare questi comportamenti. Il precariato è formato da «nomadi urbani» che vivono la propria identità dentro una contraddizione. La politica progressiva deve saperla affrontare. Deve proporre una nuova politica del paradiso.

Politica del paradiso....
La politica del paradiso è la proposta di una società egualitaria. Il fallimento dell'opposizione in Italia è dovuto al fatto che la critica al governo Berlusconi si limita ad un'arringa che non genererà mai un movimento progressivo. I progressisti lo hanno imparato durante la loro storia. Ci devono essere delle domande e una rabbia orientati verso una visione del paradiso. Le forze della sinistra, sia socialdemocratica che comunista, hanno perso di vista entrambi. Noi invece questo paradiso lo dobbiamo riportare in terra.

E il reddito di base contribuirà alla definizione di questa politica?
L'obiettivo è di muoverci verso una piena libertà che sfidi apertamente la società del controllo, demercifichi la vita di uomini e donne, conquisti un nuovo controllo sul tempo, garantisca un uguale accesso all'informazione e ai diritti sociali, alla redistribuzione dei profitti che oggi arricchiscono élite dinastiche. Abbiamo bisogno di nuove forme di regolazione dell'occupazione per la società in cui viviamo. Il reddito di base è una proposta complessiva che parla ad una libertà non dominata più dagli imperativi del mercato e contribuisce alla nuova marcia verso l'uguaglianza.

L'accuseranno di fare politica...
In una recente presentazione del mio libro, dal pubblico si è alzato un anziano professore di economia che mi ha detto. «Questa non è economia. È un progetto politico». L'ho guardato fisso per assicurarmi che dicesse sul serio e gli ho risposto più gentilmente che potevo: «Naturalmente. Non è quello che fa anche lei?».

25 novembre 2009

Chance si istituzionalizza…(?) Tra restaurazione e invenzione

di Salvatore Pirozzi
Prosegue l’esperienza del progetto Chance, con un finanziamento regionale che allarga l’area di intervento in 12 scuole della provincia napoletana e dà spazio alle acquisizioni metodologiche che hanno determinato il successo del progetto.
Espandersi non significa clonazione. Il cuore – in tutti i sensi - metodologico di Chance, che - nessuno lo dice mai - già è stato trapiantato in mille altri corpi, senza che questi diventassero identici a Chance né tra di loro. Chance ha nel suo cuore un paradosso: la competenza più straordinaria delle culture Chance è quella di attivare risorse locali insieme agli attori locali. Detto schematicamente, mutuando da altri ambiti la metafora, è una competenza di capacity building. Una expertise “prossimale”, un enzima che facilita e accompagna le auto poiesi. Il paradosso, dunque, sta nel tentativo di generalizzare le metodologie per le agency locali. L’illusione di poter generalizzare delle pratiche attraverso la distribuzione di un repertorio di strumenti, di metodologie esternalizzate da corpi, luoghi, emozioni, saperi, interessi e motivazioni è destinato a tradire il cuore metodologico del progetto.
In questa chiave va letta l’aspirazione del nuovo chance regionale a diffondersi attraverso processi di attivazione delle singole scuole, insistendo, tra l’altro, sulla loro capacità di base a iniziare il percorso individuando le proprie risorse interne, abitanti e non coloni dei propri stessi ambienti. E, a partire da ciò, costruire setting riflessivi, a cerchi concentrici sempre più ampi, in cui sviluppare la discussione come un processo in cui ognuno deve imparare a “dis” togliersi la propria cute. Chance, insomma, ha poco da spartire con la vulgata delle buone pratiche, ma è una pratica sufficientemente buona per altre pratiche sufficientemente buone.
Superfluo qui, ma sarà indispensabile poi, richiamare tutti i riferimenti teorici e tutte le tecnicalità che possono accompagnare il processo di “risalita in generalità” del progetto, dei suoi attori vecchi e, se la cosa funziona, soprattutto dei nuovi che emergeranno nei processi comunicativi e di “pubblicizzazione” dei problemi e dei processi, nel renderli cioè materia riflessiva per tutta la “città” e non solo per gli addetti ai lavori.
Per dirla con Dewey – ma che fine ha fatto nella pedagogia e nelle politiche questo maestro? – Chance si fonda sul metodo postulatorio, espone i principi delle proprie analisi e delle proprie azioni come postulati e non come verità; si fonda su doxai e non su episteme.
Chance regionale non è solo eredità o metempsicosi di Chance (e dà fastidio la riduzione agiografica del progetto quando non riflette sulle sue stesse genealogie e sulle sue fittissime parentele, attraverso rappresentazioni eccessive dell’originalità di Chance). Si inquadra, a sua volta, nella cornice europea più ampia, e più antica – risale al libro bianco Cresson del 1995 – della scuola di seconda occasione (SSO). Interpreta, se vogliamo, un mandato: l’idea semplice di offrire ai giovani esclusi dal sistema d’istruzione, o che stanno per esserlo, le migliori formazioni e il migliore inquadramento per dar loro maggiore fiducia in sé stessi… Si tratta inoltre di rifare della scuola - mentre in quartieri sensibili crollano i contesti sociali e familiari - un luogo comunitario di animazione, mantenendovi, al di là delle ore d’insegnamento la presenza, di educatori.
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Occorre fare due premesse.
La prima concerne il fatto che la chance, o la seconda occasione, riguarda anche, e soprattutto, l’istituzione scuola e la politica in generale. Le ragioni del fallimento non sono esternalizzate nella “difettività” dei ragazzi, ma il fallimento è assunto dall’istituzione stessa, per l’inadeguatezza dell’offerta formativa verso i drop-out, e, più in generale, verso l’area del disagio e del fallimento, molto più estesa dell’area comunque significativa degli “esclusi”.
Anche l’istituzione ha una chance, una seconda occasione per rifondarsi nei suoi assetti pedagogici, didattici, organizzativi. È una chance che riguarda l’istituzione che vuole apprendere e non attribuisce il fallimento o l’inadeguatezza solo a disfunzioni o a disturbi marginali del contesto, ma si interroga sulla crisi epocale delle forme e degli statuti dell’apprendimento come si sono incarnati nella forma che conosciamo, forma storica e non eterna, che risale alla modernità e alla civiltà della stampa o, al massimo, a 150 anni fa.
La seconda premessa riguarda la definizione stessa di “seconda” e di “occasione” (o chance).
Che significa “seconda”? Non è certo la replica, un’altra volta magari abbellita – la cornice dell’appetibilità – e più spesso semplicemente banalizzata, della stessa offerta, condita di una retorica sulla relazione che non riesce a essere declinata oltre l’accoglienza e dentro le relazioni situate degli apprendimenti. Seconda significa “differente”. Ha quindi i connotati dell’invenzione più che quelli del rinnovamento.
Ma la stessa “occasione” (la chance) ha un valore diverso da quello che la sintesi della nostra cultura umanista ci ha consegnato: l’occasione non è qualcosa che un soggetto “virtuoso” e ricco di volontà e motivazione deve afferrare. Un simile approccio insiste sulla volontà come una capacità universale degli individui. Come la letteratura “democratica” sull’attivazione sottolinea, questa impostazione ha la paradossale conseguenza di esporre la fragilità degli individui all’ennesimo fallimento della loro volontà; rinforza, attraverso la perversione dell’effetto blaming, lo stigma dell’incapacità attraverso la coazione a ripetere del proprio individuale fallimento, fallimento di cui solo l’individuo difettoso è responsabile. L’individuo in tal senso difettoso non è solo il drop-out, nel panorama antropologico e psicologico della nostra civiltà, nel nostro stesso panorama interiore. La fatica di essere se stessi, le passioni tristi sono un dato diffuso e forse non dovremmo guardarlo più, questo quadro, come una patologia, ma dovremmo cominciare a domandarci se non è ormai una delle forme più diffuse della condizione umana, rispetto alle quali le vecchie pratiche delle “prediche” del dover essere rivelano la loro impotenza e, questa volta sì, la patologica inefficacia delle terapie pedagogiche.
La riflessione di Chance - e di mille altre esperienze formative delle diverse occasioni - sottolinea che non si può lasciare da solo un individuo privato di tutte le risorse sociali di cui, fino a 30 anni fa, egli disponeva (e non penso solo al welfare dei diritti, ma a una condizione in cui il “capitale sociale” era più ricco). Afferrare la chance è un percorso faticoso, lungo, tutto l’arco della vita, possibile solo attraverso un sistema di accompagnamento e sostegno per un progetto di vita che veda al centro la costruzione di una capacità di base di decidere, all’interno della faticosa esplorazione di desideri e vincoli, qual è la propria misura e il proprio ben-essere.
Nella cornice della SSO è l’orientamento, inteso nella sua etimologia di “orior”, come nascere, e non nella miseria della cultura dell’adattamento a ciò che passa il convento, il cuore della relazione. Funzione delicata, che corre il rischio di costruire, anche all’interno delle cornice del dono e della sua violenza, dipendenze ancor più radicali.
L’alternativa alla subalternità e alla dipendenza non è l’ideologia dell’autonomia – il mito borghese – ma quella della, come declina Martha Nussbaum, fine interdipendenza; o, come descrive Sennet, la coniugazione di una educazione che tenga insieme inabilità anche irrecuperabili – disuguaglianze irriducibili - con la cultura del rispetto dell’altro come sovrano di se stesso. Una SSO che navighi tra riconoscimento delle “differenze” e riconoscimento dell’assunzione sociale delle “disuguaglianze”.
Una SSO, quindi, mette al centro gli individui e l’interezza della loro persona; per questo la SSO non può pensare solo alla dimensione istruttiva; ma si caratterizza per un’offerta educativa a 360°, tiene insieme il “care” e la “cura”. Una SSO educa l’emisfero destro e quello sinistro, ripara e favorisce le literacy ma anche le competenze emozionali e sociali.
È difficile rintracciare nella storia delle esperienze e delle sperimentazioni delle SSO costanti talmente forti e unanimi da poter costruire, su di esse, un modello forte. Alla base dell’impossibilità di un modello forte - della stessa fallacia delle sue illusioni ideologiche - c’è una ragione storica importante, che forse non viene sottolineata.
La nostra modernità è definita, tra le mille sue definizioni, la società dell’incertezza.
Secondo questa definizione, mentre il “rischio” è riducibile a un calcolo probabilistico, a qualcosa quindi di prevedibile e calcolabile, l’”incertezza” appartiene a un orizzonte ineliminabile dell’agire umano, soprattutto quando si parla delle interazioni umane. L’incertezza è, in altri termini, l’occorrenza continua degli eventi.
Una SSO è centrata sulle interazioni o sulle transazioni, essendone la relazione l’essenza, ed essendo la relazione basata sulla concezione di un soggetto capace di agentività. Il mondo che emerge, attraverso le transazioni umane, è un mondo assolutamente non pre-dicibile e quindi non pre-scrivibile. È, soprattutto, un mondo locale, dove il locale non è una cellula topografica, ma il territorio mobile delle interazioni, irriducibile alla stessa integrazione, se a questa parola si vuole dare il significato delle differenze riportate a interezza.
La SSO è dunque un’istituzione capace di governare, non di eliminare, l’incertezza; è per questo che l’assetto strategico della SSO è quello organizzativo. Non solo perché i setting sono una struttura di contenimento; ma perché sono gli strumenti della cosiddetta governance, come competenza necessaria non all’esecuzione di un comando, all’applicazione di uno schema, ma a favorire l’emergere delle attorialità e a costruirne continui contenimenti dei processi. È per questo che l’organizzazione stessa, primaria, della scuola deve cambiare. Un’organizzazione che fissi le regole dei game, e, al suo interno, riconosca però le variabili del playing. Dietro la concezione, invece, delle buone pratiche come repertorio, della loro hybris come orgoglio smisurato di essere più forte d’ogni setting, si nasconde la mistificazione burocratica: non cambiare il game, non riconoscere nella SSO un diverso tavolo di gioco, riduce l’innovazione a restaurazione.
L’organizzazione della SSO non è un aspetto tecnico, un “contesto”, ma una dimensione cognitiva, costruita intorno alla capacità negativa e alle connesse competenze. Quello che Chance, e in diversa misura tutte le sperimentazioni analoghe, ha saputo fare è l’attivazione delle risorse locali, a partire da quelle individuali, di ragazzi e operatori e più in generale del cosiddetto territorio.
***
Se pure istituzioni dell’incertezza, e in questo radicalmente diverse dall’istituzione fordista della scuola tradizionale, e quindi localmente connotate, una recente ricerca – Le scuole di seconda occasione. Riprendere a educare, Erikson, 2009 -, costruita sull’osservazione delle sperimentazioni più significative in Italia, ma con riferimenti europei, tra le quali il progetto Chance è sicuramente l’esperienza maggiormente paradigmatica, ha rintracciato alcune costanti che consentono di definire tratti pertinenti, se non modello forte, di una SSO. In sintesi:
Le SSO si rivolgono a ragazze/i che hanno un danno da “incompetenza appresa”.
L’incompetenza appresa – e il conseguente danno di motivazione – determinano un’interiorizzazione dello stigma dell’incapacità. La ferita della disistima produce il rifiuto della scuola tout-court come ambiente patogeno che espone di nuovo alla frustrazione e alla conferma dello stigma. Lo stigma, del resto, come ci insegna Goffman, diventa, come vediamo nei bambini “cattivi”, l’unica risorse di identificazione e di rivendicazione; trasforma la disuguaglianza in corruzione, lo stigma diventa merce di scambio.
Per agganciare questi ragazze/i occorre che persone per loro inedite, al di fuori dei setting scolastici, in genere educatori, spesso in un vero e proprio outreach, li contattino stabilendo con loro relazioni positive. Per essere positiva, una relazione deve basarsi non su un’offerta, ma sul reciproco riconoscimento del reciproco valore, una reciproca de-stigmatizzazione. La relazione prescinde dalla cultura del target, della riduzione degli individui a una loro misura preordinata di congruità con l’offerta. Solo in questo quadro l’adulto è riconosciuto significativo. Solo in questo quadro la SSO diventa la scuola della parola e della scrittura autentiche.
La SSO è consapevole che una scuola centrata sul cliente deve comunque affrontare i problemi degli standard e della valutazione secondo i loro parametri. Ma questo è un terreno problematico, che anche gli esperti dello standard devo assumere in quanto tale, imparando a pensare su come sia possibile declinare universalità con tempi e luoghi locali e individuali. Altrimenti gli stessi slogan della scuola per tutti e per ciascuno, la stessa retorica del long life learning trasformeranno l’apprendimento nella finzione di un giro d’italia in cui tappe, lunghezze e tempi sono già fissati e le classifiche ritrasformeranno i differenti e i disuguali in “ultimi della classe”.
La SSO inizia fuori dalla stessa scuola, in spazi e tempi costruiti sulla relazione in sé.
Senza questo preliminare, ci dice la ricerca, la SSO non comincia. Aggancio, contatto superano così la registrazione puramente anagrafica dell’evasione e trasformano i numeri in biografie, in patrimonio di conoscenza delle specificità individuali dei destinatari. Gli ex-clusi, gli in-adatti, gli an-alfabeti, gli in-gnoranti ridiventano persone e individui, non una categoria difettosa. Spesso, frettolosamente chiamiamo inadatti ragazzi ricchi di saperi.
Come scrive Annamaria Ajello in un saggio su Scuola & città (2006, n°2):
“…se guardiamo agli allievi che oggi entrano a scuola, a qualsiasi livello, essi sono in realtà molto diversi, perché pur potendo avvertire la stessa estraneità rispetto ai codici che la scuola presenta loro, hanno un complesso di esperienze anche di apprendimento molto ricco, che può apparire caotico e disordinato rispetto alla sistematicità disciplinare, ma che in molti casi è largamente sconosciuto agli insegnanti con cui hanno a che fare.”
E proseguendo:
“Rispetto a tali soggetti, la scuola non può essere autoreferenziamente trasmissiva, non può avere compiti di “infarinatura”, perché per così dire sono già “infarinati”, anche se di una farina talora poco conosciuta dagli insegnanti; questi allievi hanno, piuttosto, il problema contrario rispetto a quelli delle generazioni precedenti, perché la loro necessità maggiore non è quella di “ricevere”, ma quella di rielaborare, di trovare un filo ordinatore, di individuare modalità di archiviazione, di sviluppare cioè modalità di elaborazione delle informazioni non spontaneamente acquisibili, ma che richiedono invece l’intervento di un adulto competente.”
La SSO, da scuola per disgraziati, si propone come invenzione di una forma istituzionale più adatta alla nostra modernità. Esce da una cultura e da una prassi che ha mortificato, per esempio, le scuole professionali nelle scuole facili del territorio.
Ma aggancio e accoglienza non sono solo preliminari, evolvono in una fitta rete relazionale che attraversa tutto il processo educativo e si articola nelle forme varie dei differenti contesti pedagogici, didattici, educativi, fino a quelli delle relazioni specifiche nei processi di apprendimento/insegnamento nei loro contesti sociali extra-scolastici. Inaugura, su mandato, tra l’altro, UE, una politica culturale per riconoscimento e valorizzazione dei saperi informali e non formali.
Il tratto comune di ogni relazione, fino all’apprendimento, in ogni suo contesto, è quello che a Chance è chiamato l’assioma della significanza. Senza questa significanza, che solo i ragazze/i possono decidere che esiste, non c’è apprendimento. Per parafrasare Scuole aperte e per recuperare il suo insegnamento, la SSO nasce come una scuola aperta a tutti, aperta a tutto. Questo non significa che gli adulti, le istituzioni, i saperi formali si oscurino nell’incontro; significa anzi che la relazione nasce come negoziato, come, seguendo Dewey, transazione.
La SSO è dunque un incontro antropologico, non un’inclusione del fuori nel dentro. Come l’antropologia ci insegna, l’incontro non si fonda, ormai, sul presupposto di identità costitutive diverse; ma scopre come le stesse identità si costruiscono, non gli pre-esistono, nell’incontro. Sono una costruzione sociale.
Un’altra costante è la necessità di figure professionali diverse e la specificità delle competenze necessarie.
Il lavoro nell’incertezza è un lavoro complesso. Dalle esperienze osservate si ricava un’importante caratteristica delle competenze professionali: nella dimensione del professionista riflessivo e delle comunità di pratiche, che sono i due espliciti e diffusi riferimenti teorici caratteristici della SSO, il pensiero e il piano non precedono l’azione, ma la accompagnano in una dimensione di riflessività continua nelle e sulle pratiche. Questo vuol dire che non è possibile un’esternalizzazione delle competenze in un repertorio indipendente dai soggetti; le competenze emergono nell’azione e esistono se sono costruite e condivise in situazione, sono interne all’agire situato. Senza narrazione e riflessione sulle pratiche non esiste neanche una loro comunità. Lo statuto professionale si indebolisce, rispetto ai suoi vecchi fondamenti disciplinari, parallelamente all’indebolimento stesso dei fondamenti delle discipline; ma si arricchisce dalle esperienze continue del tresspassing dei confini. Anche in questo caso, parlare di integrazione tra figure diverse, ognuna delle quali assunta nella sua specifica individualità, corre il rischio di consegnarci alla nostalgia fondamentalista dei saperi e delle professioni. Non si tratta di portare a integrazione le diversità, ma di governare i continui sconfinamenti e accavallamenti, nella logica dell’intelligenza collettiva e dell’istituzione tutta. Nella SSO i docenti non sono solo quelli delle graduatorie scolastiche.
Il lavoro di squadra, caratteristico delle pratiche di successo delle SSO, non è un lavoro collaborativo, ma cooperativo; non nasce dalla divisione del lavoro, ma dal governo e dalla promozione della sua socializzazione.
Ci troviamo di fronte a una disponibilità etica, organizzativa e professionale che è l’elemento veramente generalizzabile delle esperienze osservate: la generalizzazione delle esperienze, la loro modellizzazione sono possibili solo all’interno di questa comunanza di orizzonti. Sono esse stesse il frutto di pratiche negoziali e dei setting che le contengono e le rendono possibili. Tutto ciò non significa consegnare all’ineffabilità la motivazione e l’agire professionale. Sono anzi importanti le tecnicalità che rendono possibile questo orizzonte come orizzonte comune. Queste tecnicalità, dentro l’orizzonte di una SSO come scuola dell’attivazione, sono l’ossatura del progetto, il loro tratto comune, la garanzia delle sue condizioni preliminari di identità, di verifica e di valutazione. Queste tecnicalità di base, l’asse portante della metodologia, vanno descritte per le singole parti del progetto. È il momento di farne un inventario che non sia una lista per la spesa.
Salvatore Pirozzi

20 novembre 2009

La rimozione della cittadinanza

Laura Pennacchi, La rimozione della cittadinanza. Note sul Libro Bianco. (in Rivista delle Politiche Sociali n. 3/2009).

Il Libro bianco sul futuro del modello sociale, intitolato La vita buona nella società attiva e presentato (come naturale seguito del Libro verde ) il 6 maggio 2009 dal ministro del Lavoro, è stato largamente criticato per la genericità delle posizioni e per lo scarto tra buoni propositi enunciati e linee d'azione effettive (intraprese o promesse) (Ferrera, 2009, Toso, 2009) . In verità, pur non mancando questi rilievi di più di un fondamento, il punto critico maggiore a me pare diverso se non addirittura opposto: non la bontà di propositi però troppo generici o astratti, ma la nocività e la fallacia di alcuni propositi chiaramente ricostruibili, al di là della genericità quando non della ambiguità delle enunciazioni. Tre di questi chiari propositi mi sembrano particolarmente pericolosi: 1) l'alterazione del quadro costituzionale di cittadinanza in cui parole chiave come "persona", "famiglia" "comunità" vanno collocate, pena la loro irrimediabile deformazione; 2) la deresponsabilizzazione dell'operatore pubblico e la resa della responsabilità collettiva; 3) il disegno di privatizzazione di istituzioni chiave del modello sociale italiano, quali la sanità e la previdenza pubbliche.


1)L'alterazione del quadro costituzionale della cittadinanza.
L'alterazione del quadro costituzionale è palese nel fatto stesso che le parole "cittadinanza sociale" non siano mai menzionate, nemmeno una volta o di sfuggita, nelle 45 pagine di cui il Libro bianco si compone. Ne risulta un'enfasi assolutamente fuorviante sulle parole "persona", "famiglia", "comunità", un'enfasi che getta un'ombra su quel "primato dell'individuo sulla 'totalità'" su cui è tornato ad insistere Carlo Azeglio Ciampi (2009), primato "che si coniuga con il principio che l'individuo in quanto partecipe della comunità si sente responsabile della sorte di tutti i suoi componenti". Infatti, fuori dell'architettura istituzionale della cittadinanza tali parole acquistano significati equivoci, come se si mirasse a dare vita a "un welfare senza cittadinanza", secondo il titolo di una intervista a Paolo Onofri (2008), quanto di più lontano dalla limpida costituzionalizzazione della nozione di persona che caratterizza la nostra Carta costituzionale.
cjk- che dà significato ed effettualità alla pluralità delle dimensioni che strutturano il cittadino e la cittadina, non più soggetto borghese (Rodotà, 2007), innanzitutto proprietario, o monade isolata (magari vocazionalmente destinata all'egoismo e all'autointeresse, come è nella visione dell'homo oeconomicus dell'economia standard) ma "persona" dotata intrinsecamente di dignità ("dignità sociale" precisa opportunamente la nostra Costituzione).
Nel Libro bianco, invece, essendo la cittadinanza azzerata dall'assenza, la "persona" è priva di qualificazioni e pertanto scivola subitaneamente nella "famiglia", la quale, a sua volta, trascolora nella "comunità" corporativizzata e quest'ultima, infine, si racchiude tutta nei "corpi intermedi", la cui esemplificazione principe è costituita dagli "enti bilaterali" destinati a una grande diffusione, dalla gestione degli ammortizzatori sociali alla predisposizione di schemi assicurativi privati anche per la non autosufficienza. I "corpi sociali" e le "comunità intermedie" sono presentati come i veri argini contro "un certo nichilismo moderno" - con il suo corredo di "vertigine di una solitudine esistenziale sempre più isolante" e di "fragilità esistenziale e morale" -, un nichilismo a cui si suppone destinato chiunque non si conformi ai canoni di "vita buona" proposti dal Libro bianco e cioè non si sposi, non faccia dei figli, non viva ossessionato dalla prestazione lavorativa in mercati del lavoro altamente flessibili.
Dunque, i propositi chiaramente affermati - in modo esplicito o implicito - dal Libro bianco a buon diritto consentono di dire che in materia sociale l'impostazione di fondo - neoliberista - della destra italiana non è affatto cambiata ma ha solo assunto venature più accentuatamente populiste e corporative con l'esplosione, a partire dal settembre 2008, della crisi economico-finanziaria. Quella crisi che in tutto il mondo sta sollecitando cambiamenti profondi tanto delle strutture finanziarie e reali, quanto dei paradigmi categoriali e dei sistemi di pensiero. Ciò spiega peraltro perché la crisi stessa sia quasi totalmente assente dal Libro bianco, menzionata frettolosamente e solo per ricavarne, paradossalmente, ipotesi di ulteriori pressioni al ribasso su occupazione, salari, servizi sociali. Paradossalmente, perché sta progressivamente emergendo la consapevolezza che un motore fondamentale della crisi sono stati proprio il sovvertimento della distribuzione del reddito a danno del lavoro e a vantaggio dei profitti e delle rendite e il contenimento delle prestazioni sociali. Il che ripropone la superiorità del modello sociale europeo - benché le sue potenzialità siano assai poco sfruttate dalla stessa Europa quando procede in ordine sparso e senza darsi una strategia di rilancio comune - sul modello americano, che con Bush si è basato su welfare privato, abbassamento delle tasse ai ricchi, salari stagnanti ed elevato indebitamento dei ceti medi, deregolazione sfrenata, innovazione finanziaria selvaggia.
La natura dei persistenti propositi neoliberisti del Libro bianco spiega anche come sia solo apparente la loro contraddittorietà con le istanze decisionistiche-autoritarie che il governo Berlusconi avanza in altre sedi, anche in materia di politica economica strettamente intesa, in cui spesso viene riproposto uno statalismo neocolbertiano deteriore (per maggiori dettagli rinvio a Pennacchi, 2008b). La saldatura è costituita, per l'appunto, dal neocorporativsmo, la cui sollecitazione è il collante comune tanto alla politica sociale che alla politica economica. In tal senso sono molto eloquenti da una parte l'inerzia con cui in generale il governo Berlusconi si atteggia di fronte alla crisi, dall'altra il senso degli unici episodi di attivazione: la rialimentazione dei circuiti dell'evasione fiscale, la vicenda Alitalia, il rilancio del nucleare di vecchia generazione, la riproposizione del ponte sulla stretto di Messina. Del resto l'oscurantismo valoriale - si pensi all'insistenza sulla famiglia nel ripetuto ritornello "dio, patria, famiglia" - abbonda nel centro-destra italiano e fa sì che la libertà a cui si inneggia sia non quella del cittadino ma quella "dei corpi sociali, delle entità regionali ed etniche, degli interessi e delle classi corporative", una libertà "distribuita in maniera iniqua", secondo un "pluralismo corporativo" che "implica una nuova forma di diseguaglianza sociale e una sottomissione morale dell'individuo alle comunità o agli interessi corporativi" (Battini, 2008). Un campo di esemplificazione delle possibili conseguenze di tutto ciò è il mercato del lavoro, per il quale nel Libro bianco le tipologie contrattuali atipiche e altamente flessibili vengono presentate come "un'opportunità positiva" per l'autodeterminazione, viene sostanzialmente rinviata all'infinito la riforma degli ammortizzatori sociali, si esalta il ruolo degli "enti bilaterali" anche nelle funzioni di collocamento dei lavoratori.


2) La resa della responsabilità collettiva
Sulle basi indicate è naturale che la responsabilità su cui il Libro bianco insiste sia solo quella individuale, talmente sottolineata da indurre a titolare il modello a cui ci si ispira "Welfare delle opportunità e delle responsabilità". Così la sussidiarietà si afferma in modo onnivoro e totalizzante e la responsabilità collettiva arretra, si esprime solo attraverso delega, da una parte alla famiglia - "nucleo primario intorno al quale si addensa la vita sociale", "attore sociale", "relazione sorgiva del sociale" (pag. 15) - dall'altra alla comunità e al territorio, "ambiti di relazioni solidali" (pag. 2), "antidoto" alla deriva nichilista, "luoghi" deputati alla crescita e alla maturazione.
Ma così anche la nozione di opportunità adottata è molto ristretta. Lo vediamo meglio se consideriamo le modalità con cui il Libro bianco assume la prospettiva della "vita buona". Infatti, se è vero che la riflessione liberaldemocratica contemporanea sulla giustizia ha crescentemente esteso l'oggetto dell'eguaglianza distributiva oltre il benessere materiale alle condizioni del "vivere bene", ciò non è mai stato disgiunto da una profonda attenzione da una parte alla sostantività della libertà, dall'altra alla molteplicità e alla complessità delle dimensioni di eguaglianza in gioco, sostantività e molteplicità che portano a una visualizzazione "spessa" delle opportunità su cui investire, non mera parità formale dei punti di partenza ma sostanzialità delle capacità, da radicare ed articolare in processi di cui l'operatore pubblico non si può disinteressare. Al contrario, il Libro bianco è troppo poco interessato alla concretezza della vita delle persone - delegando alla famiglia e alla comunità i compiti maggiori - e, al tempo stesso, troppo invasivo della loro libertà, promuovendo una idea di vita buona e dimenticando che le opportunità che vanno assicurate per lo star bene individuale - avere un lavoro, essere curati, essere istruiti ed informati, vivere la relazionarietà, ecc. - rappresentano "condizioni nel complesso utili a prescindere da qualsiasi piano di vita (così implicando una nozione molto debole/sottile di bene") (Granaglia, 2009).
La "resa" della responsabilità collettiva che il Libro bianco prospetta si fonda su una svalutazione fortissima del significato storico e attuale delle istituzioni del welfare state, da ridimensionare drasticamente perché insostenibile finanziariamente, carente, inefficiente, corrosivo della responsabilizzazione personale e del peso dei corpi sociali intermedi. Non che gli argomenti, soprattutto sull'inefficienza dell'operato della pubblica amministrazione, siano peregrini. Ma invece di ricavarne stimoli a migliorare la qualità delle prestazioni e l'efficacia dell'azione pubblica, il Libro bianco traccia un percorso di restrizione e di ridimensionamento. Significativa è la sintesi che ne fornisce Dell'Aringa (2009): "il welfare state ha sinora fallito: questa è la tesi del documento. Esso non è stato in grado di fornire i necessari incentivi all'efficienza e all'innovazione… Ciò comporta che la concessione di tutele e sussidi deve essere condizionata a comportamenti e stili di vita che concorrano a rendere il welfare state sostenibile per le casse della collettività. In concreto: i cittadini utenti devono darsi da fare per prevenire situazioni di bisogno".
È facile obiettare chiedendosi - come lo stesso Dell'Aringa (2009) fa - se uno Stato e una responsabilità collettiva ridimensionati, peraltro prevalentemente per ragioni di contabilità e di equilibri di finanza pubblica e solo attraverso il ricorso alla sussidiarieta verticale e orizzontale, "sarà in grado di realizzare quel welfare di carattere universale che tutti, almeno a parole, auspicano". Il punto è che con questo ridimensionamento è messo gravemente a rischio uno dei criteri fondamentali che ha guidato dall'illuminismo in poi - quell'illuminismo non a caso bistrattato dal Libro Bianco (e ancor più dalle esercitazioni letterarie del ministro Tremonti, 2008) - l'evoluzione dello stato di diritto: la terzietà del principio di mediazione istituzionale.
L'importanza di tale principio è data dal fatto che nelle sfere di azione istituzionalizzate si esprime una particolare qualità del pubblico, definito da Bernhard Peters (2003) nei seguenti termini: "Le decisioni prese in questo quadro non sono pubbliche solo nel senso di essere vincolanti per tutti. Le questioni pubbliche devono anche essere decise nell'interesse comune o generale del collettivo (public interest) e ciò sotto il controllo e con la partecipazione dei suoi membri". Infatti, la riflessività della modernità si articola lungo linee consensuali, discorsive, argomentative ma anche in conflitti. Le une e gli altri hanno bisogno di istituzioni che li trattino, li organizzino, li elaborino, in una parola che li medino, istituzioni che, nel mediare, distinguono tra valori assoluti - la cui coesistenza è garantita dalla laicità - e questioni sottoponibili al confronto e all'argomentazione, trasformano l'antagonismo in agonismo, contrastano il fondamentalismo. Le istituzioni, quindi, non sono norme e nemmeno fini, ma non sono nemmeno puramente e semplicemente strumenti. Le istituzioni sono il medium delle relazioni sociali attraverso cui avvengono, in forme mediate intersoggettivamente, l'elaborazione, il riconoscimento e la generalizzazione di significati sociali: in quanto tali sono "beni pubblici di secondo ordine" (Donolo, 1997).
Con l'esaltazione di "un welfare senza cittadinanza" e la resa della responsabilità collettiva il Libro bianco annulla il valore della mediazione istituzionale. Quella mediazione che è una funzione centrale della modernità riflessiva e di cui lo stato sociale fornisce una delle impalcature fondamentali, in termini di offerta di fini, materie, strumenti. Le condizioni di riflessività mediate istituzionalmente - espresse dall'apprendimento, lo spirito critico, l'intenzionalità trasformativa - sono alla base della società moderna, nata dall'illuminismo e dalla sua aspirazione ad avere a fondamento la ragione, magistralmente impersonata dall'idea kantiana di "uso pubblico della ragione". Le istituzioni danno forma alla trama intersoggettiva delle interazioni e delle comunicazioni su questioni di rilievo collettivo. Di tali questioni un campo di estrinsecazione formidabile sono state e sono le istituzioni del welfare, attraverso le quali da circa due secoli, ma in particolare negli ultimi sessant'anni, viene strutturata e alimentata l'elaborazione collettiva sui fini e i beni sociali. Quali arene pubbliche collettive, modellando e nutrendo il quotidiano della sfera pubblica, le istituzioni del welfare hanno generato qualcosa di prodigioso, una architettura di norme, pratiche e agenzie la cui importanza per la tenuta e lo sviluppo della società, lungi dall'essere sottovalutata, andrebbe sottolineata.g
Ma tutto questo è ignorato dal Libro bianco, con una ulteriore, grave implicazione. Quando il principio di terzietà della mediazione evapora e si sgretola la forza normativa istituzionale, anche il tessuto coesivo valoriale e morale che tiene insieme una società si indebolisce e il quadro unitario della cittadinanza si fa più evanescente. Il declino della mediazione istituzionale, mentre non restituisce maggiore libertà agli individui, rischia di riattualizzare la dimensione feudale insita nelle nostra cultura contrattuale, generando una infeudazione delle nostre stesse libertà. Come dice Ota de Leonardis (2006), "osservando una prestazione di servizio a domicilio fornita con il sistema voucher ci si può trovare a riconoscere nell'operatore in veste di fornitore, lavoratore precario e magari straniero, una condizione di servitù, fissata da uno di questi tipi di contratto di lavoro, e insieme nel marito che accudisce la moglie inferma cui il servizio è prestato, senza alternative e senza garanti, una analoga condizione di servitù".
La metamorfosi del principio di terzietà produce una proliferazione di contratti bilaterali minuti, una contrattualizzazione che rende lo Stato contraente invece che garante dei patti, configurazioni simili alla lex mercatoria, forme di diritto à la carte. A sua volta il contrattualismo oscura il ruolo degli elementi "non contrattuali" del contratto - elementi che lo rendono possibile, perché trascendenti gli specifici e concreti commerci umani - pluralizza le sedi e le procedure che producono norme, rende la legittimità non più fondata su norme astratte e universali ma su accordi tra attori dipendenti da contesti locali e contingenti. L'assoggettamento della persona in una nuova trama di rapporti di vassallaggio ingloba una ulteriore gerarchizzazione delle persone e degli interessi e vengono generate rinnovate aree di sudditanza.

3) Il disegno di privatizzazione di sanità e previdenza
I primi due propositi enucleabili dal Libro bianco gettano una luce inquietante sul terzo, vale a dire il disegno di ulteriore privatizzazione di sanità e di previdenza. Il progetto di cambiare radicalmente - cioè privatizzare - "le logiche cui si è ispirata l'azione pubblica nel campo delle politiche sociali" nasce dal rifiuto dell'idea che il Libro bianco ritiene abbia imperato fin qui, cioè che "ciò che era pubblico" fosse "assiomaticamente associato a morale perché si dava per scontato che fosse finalizzato al bene comune" e il privato a "immorale proprio per escluderne la valenza a fini sociali" (pag. 14). Invece, il privato è morale non meno, anzi di più, del pubblico, visto che quest'ultimo compromette la "libertà di scelta e di iniziativa delle persone", è "invadente", "si sostituisce al cittadino nelle sue decisioni", generando "una cultura assistenzialistica che comprime il senso di autonomia e di responsabilità".
Sono qui riassunti e riaccolti i cascami banalizzati di quella congiunzione tra antistatism e antiwelfarism che Clarke (2009) vede precipitare in una totale ostilità al "pubblico" e con essi vengono bellamente azzerate quasi cent'anni di riflessioni e di esperienze pratiche, dagli insegnamenti dei fondatori - neoclassici - della welfare economics, tra cui Pigou, alle straordinarie realizzazioni dell'umanesimo europeo in cui si è tradotta la storia dei welfare states in Europa e nel mondo. Senza dire delle acquisizioni contenute nei contributi pionieristici di Tobin, Samuelson, Solow, Arrow, dell'"economia dell'informazione" di Stiglitz, così come delle analisi relative all'esistenza di "esternalità" e di "beni pubblici", di quelle relative all'"assenza" di mercati o alla possibilità di "mercati incompleti", del modello dello "sviluppo umano" di Sen.
Si tratta di acquisizioni che rendono ridicolo ciò che invece il Libro bianco fa, vale a dire leggere in chiave monopolistica la fornitura delle attività pubbliche nel campo dei beni sociali fondamentali, istruzione, sanità, previdenza. Il Libro bianco critica il ruolo "monopolista dell'erogazione" dell'attore pubblico e si propone di "rivisitare… il monopolio statale sulla decisione di spesa sui servizi sociali" (pag. 16) e di "rovesciare il tradizionale impianto tarato tutto sull'offerta - un'offerta essenzialmente pubblica - in una logica monopolistica" (pag. 34). Qui la retorica sulla persona precipita nel terra terra assai poco pindarico di una nuova stimolazione del privato, del mercato e del "mercatismo" (tanto biasimato da Tremonti): la presunta irriformabilità della pubblica amministrazione deve indurre a liberare per il privato e per il mercato risorse oggi veicolate dal fisco e dai contributi nel settore pubblico, il quale va ulteriormente privatizzato. A tal fine bisogna agire sulla leva fiscale, "la più idonea a sostenere la domanda", il primato della quale va imposto su quello dell'offerta, poiché "il rigoroso postulato della centralità della persona nel nuovo welfare comporta inesorabilmente una maggiore libertà di scelta e la conseguente creazione … di regolati mercati competitivi dell'offerta". Contro il monopolio pubblico, anche in sanità e in previdenza, ci attendono le meraviglie dei "mercati competitivi"!
Per la sanità questo superamento del monopolio pubblico induce il Libro bianco a disegnare una prospettiva sintetizzabile, con le parole di Nerina Dirindin (2009), in quattro punti: "1- Il 'superamento della distinzione fra pubblico e privato' … attraverso il ridimensionamento del pubblico e il riscatto del privato… 2- lo sviluppo di un sistema che 'stimoli la responsabilità del singolo' … 3- lo 'sviluppo di un sistema a più pilastri', con un pilastro a 'capitalizzazione reale' anche nella sanità' e 'nuove forme integrative di assistenza sanitaria e socio-sanitaria' 4- il riconoscimento del valore del 'dono e della solidarietà' anche rafforzando … le agevolazioni fiscali". Si capisce che "lo scenario descritto è quello di un sistema da cambiare integralmente", nella prospettazione di una mortificazione del "patrimonio di esperienze e di professionalità presenti in molti territori" e del disconoscimento del "valore dell'universalità dell'assistenza sanitaria che, per quanto imperfetta, garantisce le persone in condizioni di bisogno, senza alcuna discriminazione".
Per la previdenza gli scenari del Libro bianco non sono meno mortificanti e disconoscenti il valore dell'universalità. Alcune delle affermazioni che vengono fatte (per esempio in ordine alla presunta insufficiente stabilizzazione della spesa pensionistica rispetto al PIL o al presunto eccessivo livello della quota sul PIL della spesa pensionistica rispetto alle altre funzioni della protezione sociale) sono talmente poco corrispondenti al vero che meritano di essere discusse con un minimo in più di accuratezza, cosa per la quale rinvio all'appendice A. Sia per sanità che per previdenza il clou della proposta di cambiamento del Libro bianco consiste nel rilancio della capitalizzazione e anche per questo aspetto - soprattutto per quanto concerne la previdenza - rinvio all'apposita appendice B.
Va detto, tuttavia, che è davvero sconcertante dover tornare a discutere di ipotesi che la maggior parte degli studiosi, specie di fronte all'esplosione della odierna crisi economico-finanziaria, ritiene ormai totalmente falsificate, quale l'ipotesi di privatizzazione/capitalizzazione, in passato a lungo proposta da alcuni organismi internazionali, in particolare dalla Banca mondiale. In un seminario tenuto a metà settembre del 1999 Stiglitz (allora ancora vicepresidente della Banca stessa) aveva già contestato ben "dieci miti" correnti sulla capitalizzazione e sottolineato come l'impostazione tenuta dalla Banca Mondiale dal 1994 (a partire dal celebre rapporto Averting the Old Age Crisis) avesse avuto risultati negativi per molti paesi che vi si erano attenuti, per cui già allora sosteneva che era tempo di una drastica revisione (Orszag e Stglitz, 2001). Oggi moniti ben più pesanti vengono da una parte dal peso che il dissesto dei Fondi pensione e dei Fondi sanitari aziendali esercitano sul collasso dell'industria automobilistica americana provocato dalla crisi economico-finanziaria , dall'altra dalla clamorosa decisione dell'Argentina di nazionalizzare, come risposta alle turbolenze economico-finanziarie, i 10 Fondi pensione con cui nel 1994 era stata privatizzata la social security pubblica argentina.


4) Perché il disegno di privatizzazione è inefficiente oltre che iniquo
Il superamento del monopolio pubblico in sanità e previdenza implica rimettere in discussione il primato dell'offerta pubblica di quel tipo di beni, approdo a cui giunge il Libro bianco. Ma un conto è pensare, con strutture complementari e non sostitutive, a forme correlate di partnership pubblico/privato e alla generosa presenza del volontariato e del terzo settore in tutti i servizi sociali in cui ciò è possibile: tempo libero, attività per l'infanzia e l'adolescenza, previdenza integrativa, non autosufficienza, ecc. Un altro conto è pensare di rimettere in discussione il primato dell'offerta pubblica nei beni sociali basilari dell'istruzione, della sanità, della previdenza. Qui spostare sul mercato parti significative del welfare - che è la ricetta neoliberista del Libro Bianco -, mentre non solo non risolve ma aggrava i problemi di iniquità facendo crescere esponenzialmente le diseguaglianze, non risolve nemmeno i problemi di efficienza. Gli estensori del Libro bianco dimenticano che in questi campi non si interviene per modificare mercati perfettamente funzionanti, ma proprio per correggere le distorsioni derivanti dal cattivo o mancato funzionamento di mercati "incompleti", addirittura inesistenti: nessuna assicurazione privata, ad esempio, è mai stata in grado di offrire una tutela sanitaria a chi ha più di 65 anni. Peraltro in questi campi i mercati, quand'anche esistenti, spesso operano a costi e prezzi maggiori di quelli che sarebbero teoricamente efficienti (Granaglia, 2001).
Di nuovo, centrali si rivelano i problemi informativi. Ad esempio, l'incertezza circa le probabilità di subire una determinata perdita - i tassi di inflazione non sono prevedibili, gli andamenti economici, tecnologici, demografici sono ignoti, i mercati finanziari altamente instabili - rende impossibile, in molte circostanze, la definizione di un premio e, con essa, l'offerta di polizze assicurative. Similmente, incompletezza e, in questo caso, anche inefficienze, possono essere generate dalle asimmetrie informative in termini di "selezione avversa" e "rischio morale", problematiche di fallimenti del mercato poste più di trent'anni fa da Arrow (1979) e che oggi tornano drammaticamente attuali.
Il rischio morale si produce perché le persone, una volta assicurate, non si preoccuperanno di evitare i loro particolari rischi tanto quanto avrebbero fatto in assenza di assicurazione, il che, producendo una somma dei premi pagati maggiore di quella attesa, si riverbererà a sua volta sui costi dell'assicuratore. La selezione avversa è generata dal fatto che i potenziali acquirenti di un'assicurazione tendono ad avere dei propri rischi una conoscenza migliore di quella che ha l'assicuratore cosicché, se il prezzo dell'assicurazione si basa sul rischio medio, soltanto persone con rischio pari o al di sopra di quello medio compreranno quell'assicurazione, il che farà perdere guadagni all'assicuratore, quindi indotto ad alzare il premio. Ma ciò non potrà che rafforzare l'incentivo all'entrata dei cattivi rischi - coloro con un'esposizione elevata al rischio -, così ingenerando una spirale, appunto, avversa, di deterioramento del rischio medio all'aumentare del prezzo. A seguito di tale processo, il mercato potrebbe non svilupparsi - si pensi, ad esempio, al mercato delle polizze per molte categorie di malattie croniche - o, qualora esistente, sarebbe, comunque inefficiente, non riuscendo a offrire protezione ai buoni rischi.
I problemi informativi investono anche l'intervento pubblico. Tale realtà, però, piuttosto che sulla desiderabilità di tale intervento, incide sul disegno delle politiche da seguire. Ad esempio, proprio il riconoscimento dei problemi informativi è alla base di nuove modellazioni della progressività dell'imposizione sul reddito e della rivalutazione, per determinati servizi, di prestazioni in natura rispetto a quelle monetarie.
Per quanto riguarda la sanità, l'affidamento al mercato farebbe sì che l'asimmetria informativa strutturale che penalizza l'utente nel rapporto con il medico per un verso, con l'intermediario finanziario per un altro, lo metterebbe nella condizione di poter scarsamente valutare la qualità dei servizi offerti. In tali situazioni da una parte i prezzi divengono segnali di qualità (il medico più bravo appare quello che pratica onorari più elevati), dall'altra i produttori sono in grado di alimentare artificiosamente la domanda, con il risultato che a quantità eccessive si associano prezzi superiori a quelli teoricamente efficienti. Questi sono esattamente i meccanismi per cui negli USA si è arrivati ad una percentuale di spesa sanitaria sul PIL pari a quasi il doppio di quella media europea (il 14% contro il 7-8% circa) e a una elevatissima quota della popolazione non assicurata o sotto-assicurata. E queste sono esattamente le ragioni per cui Obana si propone oggi di riformare radicalmente in senso universalistico la sanità americana
Lo spostamento di parti significative del welfare sul mercato può avvenire con forme più ponderate di parziale privatizzazione come la public/private partnership. Anch'esse, tuttavia, hanno sollevato varie perplessità e le analisi empiriche hanno rilevato risultati o modesti o controversi, nella misura in cui a) sono state costruite sulla base della presupposizione (erronea) che la concorrenza - principio vitale se applicato là dove esso è richiesto, in particolare nei settori produttivi non solo manifatturieri, e allo scopo di liberalizzare non di sostituire a un monopolio pubblico un oligopolio privato - debba essere utilizzata per incrinare il monopolio pubblico anche nei "beni sociali" fondamentali; b) si è puntato ad estenderle dai campi in cui può essere applicata in modo salutare - si vedano i vari "piani per la casa" - a campi impropri come la sanità o l'istruzione.
Le controindicazioni che emergono - magistrale a tal proposito l'analisi di Crouch, 2003 - rimettono in discussione il presupposto centrale della public/private partnership: la pretesa di soddisfare meglio le aspettative dei moderni consumatori consentendo loro più autonomia e più scelta. Scelta, in effetti, si rivela una parola chiave molto fuorviante. Si scopre - lo fa l'autorevole IPPR (2007) inglese - che "come narrativa di riforma, 'scelta' è stata particolarmente priva di successo: ha alienato la forza di lavoro senza riuscire a catturare l'immaginazione del pubblico… Ci sono molte situazioni in cui in cui un range di fornitori… incontrerà i bisogni dei cittadini e degli utenti meglio di un singolo fornitore monopolista. La ragione non è l'inerente superiorità di un tipo di fornitore rispetto ad un altro, ma piuttosto l'opportunità che una simile diversità offre di generare una pressione competitiva. Dove simili quasi-mercati operano competitivamente c'è uno stimolo all'efficienza e all'innovazione. Ma in altri casi è probabile che i mercati falliscono e non c'è ragione di credere che simili ostacoli possano essere sempre superati o lo possano a un costo ragionevole".
Si torna così alla consapevolezza che sia la capacità di scegliere in ciascuna sfera, sia quella di "scegliere tout court" dipendono da complesse condizioni, la natura delle quali - segnala Martha Nussbaum (1990) - "è tanto sociale quanto materiale: esse sono condizioni che quasi certamente non possono esservi senza un deciso intervento da parte del governo" . Più specificamente, ci si chiede: la qualità, che dovrebbe essere l'obiettivo più importante, coincide forse con la libertà di scelta? Presumere che coincidano induce a trascurare molti fattori e politiche di incremento della qualità che, viceversa, potrebbero essere attivate, che esse siano o meno associate con una maggiore facoltà di scelta. In alcuni casi la facoltà di scelta è limitata o inesistente, ma questo non esime dal cercare una maggiore qualità. In altri la libertà di scelta può essere effettiva e tuttavia non riuscire a trainare un incremento della qualità. Inoltre, la libertà di scelta può essere innalzata anche rimanendo all'interno del settore pubblico .
Si è, quindi, indotti, anche da un punto di vista di efficienza, a ribadire l'importanza di mantenere nella produzione di beni sociali fondamentali adeguate dosi di "universalismo", il che richiede un primato dell'offerta pubblica di servizi su quella privata, la quale può avere solo una funzione integrativa. Sotto questo profilo, la crisi economico-finanziaria mostra tutta la fallacia dell'affermazione fatta dal "pensiero unico" nel passato e ripresa inalterata dal Libro bianco, secondo cui spostare sul mercato coperture previdenziali e sanitarie che oggi gravano sulle imprese sarebbe utile, giacché il prospettato sventagliamento della loro alimentazione finanziaria non comporterebbe di per sé alcun cambiamento nella loro conformazione universalistica. Oggi sappiamo con molta più tragica certezza che una maggiore esposizione degli individui alle regole di mercato può aumentare le disparità e generare nuove discriminazioni, giacché si cade, come dice Samuelson (1997), in "un meccanismo di mercato carente da entrambi i punti di vista, quelli del cuore e quelli del cervello".


Mito dell'immediatezza della società civile e privatismo
Ai postulati dell'universalismo il Libro bianco sostituisce un interpretazione di comodo dell'"universalismo selettivo" ma soprattutto l'esaltazione dell'autorganizzazione della comunità e dell'immediatezza della società civile. Ma c'è una conseguenza paradossale del mito dell' immediatezza alla base del Libro Bianco che va sottolineata. L'affermazione dell'immediatezza delle relazioni tra individuo e individuo - in luogo della prevalenza della mediazione tipica della sfera pubblica - porta a un ridimensionamento e a un degrado dei livelli intersoggettivi della vita sociale esprimenti la riflessività e per ciò in grado di trasformare beni e azioni in beni e azioni condivisi. Il privatismo costituisce proprio questa suggestione dell'immediatezza, sostituisce l'intersoggettività con la dimensione personale, annulla quella potente sorgente di dinamismo della società moderna che è il livello "intermediario" tra oggettivo e soggettivo, tra personale e collettivo, tra particolare e universale. Ma con ciò non si deteriora solo la dimensione "pubblica", scade anche la dimensione privata. La caduta di riflessività - la quale è tratto costitutivo della sfera pubblica che nell'intersoggettività esiste, si rigenera e fa esistere gli attori - provoca un degrado qualitativo della stessa sfera privata, la quale si avvita tra emergenza del privatismo, esasperazione dell'individualismo, impoverimento di forme e di contenuti.
Questo degrado del privatismo è causa ed effetto anche di un degrado dell'associazionismo. Infatti, il privatismo contagia anche molti fenomeni associativi quando, per esempio, si manifestano in forme di semplice estensione di una socievolezza privata o in forme particolaristicamente chiuse in altrettanti piccoli "noi" tra loro concorrenziali e in opposizione a volte dichiarata a valori e norme universalistici. In questi casi spesso non si verifica una rigenerazione nell'uso dei beni comuni, ma una loro "appropriazione privatistica" e una "rimozione dello statuto pubblico di tali beni". Più in generale, e guardando specialmente all'uso talora distorto delle importanti risorse del terzo settore e del volontariato, si verifica uno strano soggiogamento a quella che Ota de Leonardis (2007) chiama "sindrome dell'immediatezza". Una sindrome per cui il "fascino dell'immediatezza delle relazioni personali, della prossimità, della comunicazione faccia-a-faccia, del fai-da-te della società civile" cela, in realtà, una "voglia di sbarazzarsi" di ogni costrutto artificiale - invece caratterizzante costitutivamente la modernità - e di ogni elemento di interposizione e di mediazione, invece proprio delle istituzioni moderne, prime fra tutte il Diritto e il welfare state.
In effetti, quando si enfatizzano oltre misura - come fa il Libro bianco - le capacità di autogoverno e le virtù della famiglia e della comunità scisse dalla cittadionanza, non bisognerebbe dimenticare i rischi di rifeudalizzazione che provengono dallo smarrimento del principio di terzietà della mediazione istituzionale e dal deperimento della sfera pubblica. Del resto, ci sono vari aspetti oscuri nelle spinte all'autorganizzazione della società civile, uno dei quali è, la paura dell'altro, paura che spesso si trasforma in ostilità, quell'ostilità che negli USA ha indotto a denominare adversary phylantropy le trasformazioni sollecitate dall'amministrazione Bush secondo cui i valori della solidarietà e dell'altruismo diventano armi da brandire contro gli altri, ridotti a estranei e/o diversi. E mentre la filantropia ha cambiato profondamente la sua natura, assumendo essa stessa i caratteri del business (The Economist, 2006), un altro aspetto oscuro lo evidenzia Putnam (2000) là dove denunzia la caduta più generale dello spirito filantropico e solidaristico, caduta che si è accompagnata paradossalmente all'insistenza sul comunitarismo e sulla partecipazione sociale localistica, propugnata dai neoconservatori in sostituzione dei benefici welfaristici pubblici. Vengono in mente le faith communities incoraggiate per facilitare i modi di "socializzare con amici e vicini".
Come dimostra l'inversione di queste tendenze operata dalla straordinaria leadership di Obama, il punto è che la vitalità della democrazia, della sfera pubblica, dei sostrati normativi non è equivalente puramente e semplicemente alla densità del tessuto associativo di una società, ma piuttosto deriva dalla qualità delle modalità organizzative che tale densità si dà e dalla natura delle relazioni sociali che vi si instaurano. Se le relazioni - traducendosi prevalentemente in rapporti bilaterali diretti, privi di mediazione istituzionale - generano una nuova forma di dipendenza personale (anziché istituzionale) e non concorrono ad alimentare uno spirito pubblico collettivo, non sono relazioni di arricchimento della democrazia.
Theda Skocpol, in piena prima amministrazione Bush, rilevava che un grande cambiamento era in corso rispetto all'antico associazionismo americano tanto apprezzato e elogiato da Tocqueville. La trasformazione privatistica dell'adesione nel passaggio dalla membership al management, la continua misurazione e classificazione degli individui per opinioni, atteggiamenti e preferenze piuttosto che la ricostruzione per loro del contesto della cittadinanza, la depoliticizzazione del trattamento anche di temi cruciali quali la pace o l'ambiente, facevano sì che non sembravano essere riprodotte le condizioni e le ragioni per cui gli americani si sono storicamente associati, cioè per "sentirsi cittadini di una nazione", non semplicemente per stare insieme con amici e vicini. Nella misura in cui l'autoregolazione della società civile avanzava, Skocpol ne evidenziava i pericoli, indicando l'entità in cui l'enfasi sulla prossimità, la familiarità, l'omogeneità, l'intimità si traduce in selezione, discriminazione, segmentazione, esclusione, l'opposto di quella combinazione di estranei e differenti che Tocqueville vedeva come il sale della democrazia americana. Skocpol segnalava, inoltre, quanto la restrizione dell'ambito della democrazia al livello locale - in realtà non così indipendente da poteri centrali - oscuri la percezione della necessità di porsi sistematicamente il problema di dare legittimità democratica a tutti i poteri e, al tempo stesso, equipari la partecipazione politica alla gestione di un caseggiato, consentendo che si affermi l'immagine di una società di stakeholders caratterizzata apoliticamente e privatisticamente, nella quale le problematiche della responsabilità collettiva e dei diritti, civili e sociali, stentano ad imporsi.
Mentre il Libro bianco, nel suo piccolo, con lo sguardo all'indietro è fermo a tutto ciò, l'eccezionale vittoria di Obama alle presidenziali americane del 2008 e i primi vigorosi passi della sua amministrazione ci dicono che volgere lo sguardo al futuro è necessario e possibile.

Appendice A La sostenibilità della spesa pensionistica e la prevalenza della funzione vecchiaia nella spesa sociale italiana
Il Libro bianco fa suoi due luoghi comuni in realtà contraddetti da un'analisi accurata dei dati empirici:
- l'insostenibilità finanziaria della spesa pensionistica;
- la prevalenza della funzione vecchiaia (come indica la tabella 1), e dunque della spesa pensionistica, sulle altre componenti di spesa;
Per quanto riguarda la componente pensionistica la figura 1 e la tabella 1 consentono approfondimenti in merito a (i) un giudizio sull'efficacia delle riforme adottate negli anni '90; (ii) una migliore ponderazione dell'entità della spesa pensionistica italiana comparata a quella degli altri paesi europei.
La figura 1 ci dice con assoluta chiarezza che le riforme realizzano, a regime, la stabilizzazione della spesa pensionistica sul PIL: nel 2050 essa sarà pari al 13,2%, a fronte del 14,2% del 1998. In assenza di interventi la quota sarebbe esplosa, superando addirittura il 23% del PIL (il che segnala quanto irresponsabilmente si fossero lasciate crescere nel passato le promesse pensionistiche).
La valutazione dell'entità della spesa pensionistica che emerge dalla tabella 1 - pari oggi a circa il 15% del PIL - va commisurata a una serie di considerazioni:
a) l'estensione della spesa pensionistica italiana è dovuta alla supplenza che essa ha esercitato nei confronti di "funzioni" della protezione sociale non altrimenti soddisfatte, dal sostegno alla povertà e alla disoccupazione, al sostegno ai processi di ristrutturazione industriale e di ricambio della manodopera, per esempio con i prepensionamenti. Va da sé che quanto più queste funzioni, impropriamente svolte dal sistema pensionistico, fossero state realizzate - in modo più proprio, efficiente ed equo - da istituti appositamente ideati, tanto meno lo stesso sistema pensionistico si sarebbe espanso. Va da sé che ciò avrebbe anche contenuto l'elevamento delle aliquote contributive pensionistiche, che oggi riflettono, nella loro entità, anche questa spesa "impropria", ma che avrebbe comunque dovuto essere sostenuta - anche se dislocata sotto altre voci - e che tanto più dovrà esserlo in futuro.
b) Le statistiche disponibili spesso o non rendono conto adeguatamente della realtà o non usano standard uniformi. Il primo caso si verifica, ad esempio, quando si confrontano le differenze tra la spesa pensionistica italiana e quella tedesca, imputabili, tra l'altro, al fatto che l'Italia include nella copertura previdenziale pubblica anche i lavoratori autonomi, mentre la Germania non fa altrettanto (ma concede loro molti benefici fiscali che statisticamente non figurano come spese). Il secondo caso si constata osservando il divario tra Italia e Gran Bretagna e Francia, il quale diminuirebbe molto se anche l'Italia classificasse - imitando la Gran Bretagna - come spesa pensionistica solo quella destinata agli ultrasessantenni e non includesse - seguendo l'esempio della Francia - nella spesa pensionistica le indennità per la gestione delle eccedenze occupazionali che potrebbero essere annoverate tra le spese a tutela della disoccupazione. Infine occorrerebbe considerare anche il fatto che le prestazioni pensionistiche non in tutti i paesi sono sottoposte a tassazione (ben poco in Germania, per esempio), quanto meno non in modo omogeneo: nel caso dell'Italia il trattamento fiscale delle pensioni incide per una quota pari a 1,7 punti di PIL, quota che, se le norme fiscali mutassero, si rifletterebbe in una diminuzione dell'incidenza della spesa pensionistica sul PIL di pari entità.
La tabella 2 consente anche di confrontare gli esiti delle riforme italiane degli anni '90 con la dinamica della spesa pensionistica negli altri paesi europei. Infatti dalle proiezioni future della spesa pensionistica si rileva che:
- se si escludono il Regno Unito (in cui la pensione pubblica fornisce solo una copertura minima ma in cui la povertà fra gli ultrasessantacinquenni raggiunge il 21% ed elevato è il rischio che la previdenza privata scarica sul singolo lavoratore) e il minuscolo Lussemburgo, l'aumento minore si registra in Italia e Svezia, i soli due paesi europei che hanno realizzato radicali riforme del sistema pensionistico. Non a caso, si tratta di riforme molto simili, come è stato segnalato dalla Commissione Europea, la quale, nell'invitare i paesi membri ad elevare l'età effettiva di pensionamento, ha riconosciuto la validità del meccanismo introdotto in Italia e Svezia, quello di un più stretto collegamento attuariale fra contributi e prestazioni, in grado di incentivare gli individui alla prosecuzione dell'attività lavorativa senza ricorrere a imposizioni legislative sgradite;
- l'aumento maggiore si registra in Grecia (addirittura +12,2 punti di PIL), in Spagna (+7,9), in Olanda (+6,2 punti), in Germania (+5). La Francia e gli altri paesi registrano aumenti di circa 4 punti di PIL.

I buoni risultati dell'Italia, a correzione di precedenti gravi difficoltà, si debbono agli interventi adottati, da governi di centrosinistra, nel 1992, nel 1995 , nel 1997, che hanno operato in termini di: - sostenibilità finanziaria; - equità .
Dei requisiti di equità/flessibilità introdotti dalla legge 335 va sottolineata particolarmente la neutralizzazione delle rigidità in uscita con il superamento della nozione rigida di età pensionabile e con l'offerta, entro un intervallo temporale predefinito, di libertà di scelta. Molti di questi requisiti, in particolare la libertà di scelta dell'età di pensionamento, sono stati gravemente alterati - in modo paradossale - dal successivo intervento in materia pensionistica del governo Berlusconi (Legge 23 agosto 2004, n. 243), alterazioni poi parzialmente soppresse dal decreto del governo Prodi in attuazione del protocollo sul welfare del luglio 2007. La flessibilità in uscita per tutti, in particolare - e non l'innalzamento coattivo dell'età pensionabile - è quello che serve per superare in modo non traumatico il differenziale di età pensionabile per uomini e per donne e per sollecitare la società ad evolvere davvero verso un "invecchiamento attivo" maturato culturalmente a livello di organizzazione sociale complessiva (per evitare che si risolva puramente e semplicemente in una penalizzazione proprio dei lavoratori oggi più soggetti alla minaccia di disoccupazione e cioè quelli fra 45 e 55 anni) (Mirabile, 2009)
La positività delle trasformazioni non esclude, quindi, che ulteriori miglioramenti possano essere apportati. Essi vanno, però, in una direzione molto diversa da quella indicata con la privatizzazione/capitalizzazione dal Libro bianco e dal centrodestra. La direzione giusta prevede un'estensione e un miglioramento delle istituzioni welfaristiche e previdenziali per giovani e donne, rifiutando di trattare lo stato sociale in una logica di gioco "a somma zero" con la quale gli spazi per offrire protezione a nuovi bisogni (per esempio di ammortizzatori sociali) e a nuovi soggetti (per esempio i giovani inoccupati) vengono identificati a scapito di bisogni più tradizionali (che però non scompaiono, come l'adeguatezza del reddito nell'età anziana) e di soggetti storici (per esempio i lavoratori dipendenti che certo non spariscono).

Figura 1: Spesa pensionistica in percentuale del PIL prima e dopo le riforme del 1992, 1995 e 1997

Tabella 1: Spesa sociale e quote di spesa per funzioni in percentuale del PIL (anno 2005)

Tabella 2: Spesa pensionistica pubblica a politiche correnti (al lordo delle imposte, in percentuale del PIL)

Appendice B Previdenza "a ripartizione" e previdenza "a capitalizzazione"

Il dibattito condotto a livello internazionale negli ultimi quindici anni ha teso a ridimensionare il valore di "panacea" di tutti i mali attribuito in precedenza alla capitalizzazione. Della revisione compiuta meritano di essere sottolineati alcuni risultati:
i. proprio la portata dei mutamenti demografici in corso segnala che, se la funzione primaria di un sistema pensionistico deve continuare a essere quella di garantire un reddito adeguato a chi cessa l'attività lavorativa, "verranno stressati" in eguale misura e in modi analoghi tanto i sistemi pubblici "a ripartizione" quanto i sistemi privatistici "a capitalizzazione". Infatti, quando le società si trovano di fronte, per esempio, a vistosi incrementi dell'indice di dipendenza degli anziani sui giovani, esse sono investite dal medesimo dilemma, vale a dire quante risorse le collettività sono disposte a trasferire - a prescindere dalla natura, pubblica o privata, del veicolo del trasferimento - dalle generazioni attive a generazioni anziane sempre più numerose.
ii. Si confermano i noti aspetti problematici dei sistemi pensionistici a capitalizzazione, quali la limitata indicizzazione all'inflazione, il costo in termini di maggiori contributi per avere diritto a benefici aggiuntivi, le difficoltà a svolgere funzioni redistributive e solidaristiche. Così come si conferma che il rischio politico, nel senso della possibilità di manipolazioni arbitrarie da parte delle autorità politiche", è proprio tanto dei sistemi a ripartizione quanto dei sistemi a capitalizzazione.
iii. Si è diffusa la percezione che il confronto non è solo tra "ripartizione" e "capitalizzazione", ma anche tra "diversi modelli di ripartizione" e "diversi modelli di capitalizzazione". La riforma italiana del 1995-97 e quella svedese - che autorevoli osservatori internazionali considerano le uniche "dramatic reforms" realizzate fin qui dai paesi europei - mostrano l'innovatività e la validità (rispetto a un "sistema a ripartizione di tipo retributivo") di un "sistema a ripartizione di tipo contributivo".
iv. Infine, sono stati molto ridimensionati i vantaggi che, con notevole apoditticità e con altrettanto notevole conformismo, erano stati attribuiti alla "capitalizzazione", vantaggi che Orszag e Stiglitz (2001) definiscono "based on a set of myths that are often not substantiated in either theory or practice" .
Il ridimensionamento dei presunti vantaggi tradizionalmente attribuiti alla capitalizzazione si è basato sui seguenti aspetti:
I. è stato sottovalutato l'impatto sulla finanza pubblica che avrebbero i "costi della transizione" da un "sistema a ripartizione" a un "sistema a capitalizzazione" (o a un sistema con maggiori quote di "capitalizzazione"). La riduzione dell'aliquota (con cui verrebbe alimentato lo spostamento di tutta o di parte della copertura dalla "ripartizione" alla "capitalizzazione") avrebbe un duplice inconveniente: -i) ridurrebbe in maniera corrispondente le prestazioni future degli attivi (già destinate, in alcuni paesi come l'Italia, a una forte contrazione per effetto delle riforme adottate); -ii) aprirebbe un vuoto nella finanza pubblica, di pari ammontare, per il pagamento delle pensioni in essere. Per l'Italia, è risultato che - nell'ipotesi di una destinazione di 7-8 punti dell'aliquota a carico dei lavoratori dipendenti al finanziamento di quote addizionali di previdenza complementare - il costo aggiuntivo sulla finanza pubblica sarebbe ammontato a una cifra oscillante per un ventennio intorno al 2% annuo del PIL.
II. Le assunzioni sul tasso di rendimento di sistemi "a capitalizzazione" - anche il 9% in alcuni lavori di Feldstein - sono apparse al tempo stesso immotivate e irrealistiche. Infatti, non esiste alcuna regolarità statistica osservata che consenta di dire che per tutti gli investimenti (e non solo per quelli a più alto rischio, come quelli azionari) e per lunghi periodi di tempo (e non solo per periodi circoscritti) il rendimento possa sistematicamente superare il tasso di crescita del PIL. In mercati efficienti i rendimenti sono proporzionali al rischio. I più alti rendimenti degli investimenti in azioni sono associati a un più elevato rischio e a una maggiore variabilità, come è platealmente dimostrato dalla crisi finanziaria esplosa nel settembre del 2008. I rendimenti azionari comportano variazioni sostanziali da un anno all'altro e ciò condiziona drammaticamente, ma casualmente, l'entità della prestazione al momento del pensionamento, il che trasforma, secondo Barr (1999), il valore di una pensione investita in azioni "in grande misura in un terno al lotto". Occorrono lunghissimi periodi di tempo per neutralizzare l'aleatorietà dei corsi (il Dow Jones ha impiegato 30 anni per recuperare il valore di prima del crollo del 1929). Sul tasso di rendimento influiscono anche i costi amministrativi e di gestione (nell'evoluta Gran Bretagna si stima che i costi amministrativi arrivino al 40-45% del valore dei depositi privati).
III. Le motivazioni in termini di efficienza macroeconomica in favore di una maggiore estensione della "capitalizzazione" - considerata in grado di generare una più alta propensione al risparmio e dunque una più elevata accumulazione di capitale - dovrebbero funzionare in economie mature, nelle quali, per ragioni innanzitutto demografiche, aumenterà la probabilità che il lavoro diventi un fattore "scarso" e il capitale un fattore "abbondante", dunque soggetto a rendimenti non crescenti, ma decrescenti. Se, del resto, le persone fossero indotte a risparmiare di più ma perché esposte a un rischio maggiore, ciò non migliorerebbe necessariamente le loro condizioni. D'altro canto, si è visto che la previdenza "a capitalizzazione" non fa necessariamente aumentare il risparmio nazionale. Stiglitz ricorda che, poiché in assenza di piani pensionistici "a capitalizzazione" i singoli avrebbero comunque risparmiato sotto altre forme, la presenza di tali piani, inducendo i singoli a ridurre le altre forme di risparmio, difficilmente incide sul risparmio totale privato. Se tali piani non influenzano nemmeno il risparmio pubblico - come accade quando un governo, per finanziare la transizione da un "sistema a ripartizione" a uno "a capitalizzazione", si indebita con i cittadini - non si verifica alcuna variazione.
IV. Inoltre, immaginare che (come è intrinseco alle ipotesi di "capitalizzazione") una più vasta quota dei profitti finanzi i benefici per un numero sempre più ampio di pensionati implica che il tasso di crescita dei salari scenda sistematicamente al di sotto del tasso di crescita della produttività. Tenendo conto delle caratteristiche delle economie mature, occorre chiedersi quanto sia auspicabile - oltre a quanto sia realistico - un simile scenario e quale fine faccia in esso il postulato dell'"invarianza delle quote distributive" (proprio dell'economia ortodossa neoclassica, non certo dell'economia marxista).



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