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11 marzo 2008

Non dimentichiamo le Donne Palestinesi

8 marzo e… non solo: Festa di tutte le donne.


Non dimentichiamo le Donne Palestinesi
e le
Le prigioniere palestinesi



Negli ultimi due anni (2005-2007), le forze di occupazione israeliane hanno arrestato circa 500 donne, di cui molte sono madri di famiglia. Alcune hanno partorito in carcere.

Nel 2006, venti ragazzine al di sotto dei 18 anni si trovavano in prigione, in celle con adulti.


L'occupazione israeliana ha peggiorato enormemente la già precaria condizione femminile: oltre all'incarcerazione di molte madri, la politica di arresti di massa di uomini palestinesi ha aggiunto ulteriori responsabilità alle donne, che devono cercare di sostentare la famiglia mentre il marito o i figli maschi sono in carcere.

Le prigioni in cui il governo israeliano fa rinchiudere le palestinesi sono Ha'asharon-Tilmond e Ramle - Nafe Trista, all'interno di Israele.

Le donne palestinesi hanno sperimentato il carcere già dai primi tempi dell'occupazione israeliana della Palestina: sono state torturate, picchiate, umiliate, violentate, condannate a lunghi periodi di detenzione.

Tuttavia, il numero di prigioniere negli ultimi anni sta crescendo molto: nel 2004, erano 81, nel 2007 sono state 118.

Durante l'Intifada di al-Aqsa, scoppiata nel settembre del 2000, a seguito della «passeggiata» provocatoria di Ariel Sharon alla Spianata delle Moschee, a Gerusalemme, sono state arrestate 650 donne: 62 sono state condannate; 44 sono senza condanna; 3 in detenzione amministrativa, senza capo d'accusa; 6 sono minorenni; 3 hanno partorito dentro la prigione. Torture e condizioni carcerarie spaventose.

Durante gli interrogatori, le donne, come gli uomini, sono soggette a torture, percosse, umiliazioni, insulti, minacce, pressioni psicologiche, ecc. Arresti e perquisizioni fisiche spesso sono effettuate da personale maschile, che le rende ancora più mortificanti. Gli interrogatori possono andare avanti per l'intera giornata e continuare per diversi giorni o mesi. Le celle sono piccolissime, affollate, ammuffite, poco areate, umide, i tetti non proteggono dalla pioggia dell'inverno: lasciano filtrare acqua, sono prive di riscaldamento, gli scarafaggi infestano anche i vestiti. L'alimentazione è carente e scarsa (anche per le gravide e le puerpere, con le immaginabili conseguenze per la salute fisica loro e dei loro bambini).
Sono numerose le prigioniere malate, che, intenzionalmente, non vengono curate: i problemi ginecologici sono molto diffusi, a causa della mancanza di igiene e di medicine. Le detenute subiscono quotidiane pratiche punitive e violazioni da parte della direzione delle prigioni. Esse vivono in condizioni molto difficili: sono rinchiuse in luoghi non idonei, senza che vengano rispettati i loro diritti basilari, garantiti dalle leggi internazionali.

Sei detenute si trovano da mesi in isolamento nella prigione al-Jumlah. Alcune soffrono di gravi disturbi. A seguito delle torture subite, le prigioniere scarcerate si portano dietro malattie come il cancro e molti disturbi psicologici.

Inoltre, donne e uomini palestinesi prigionieri devono pagare costose multe al momento dell'arresto e il proprio «mantenimento» in carcere (centinaia di dollari al mese!).

Cure mediche e psicologiche, percorsi scolastici, libri e attività sportive o educative non sono previste.

Ai malati cronici o a quelli affetti da tumore non vengono garantite né diete né cure adeguate. Per qualsiasi tipi di disturbo, il prigioniero/la prigioniera deve aspettare il giorno in cui il medico è presente in carcere. La detenzione di cittadini palestinesi in prigioni israeliane lede l'art. 49 della IV Convenzione di Ginevra, ma non è che una delle innumerevoli violazioni dei diritti umani e della legalità internazionale commesse, in totale impunità, da Israele.

Testimonianze. A dicembre del 2007, dopo due anni di carcere, è stata liberata Samar Sbeh, una giovane prigioniera palestinese, arrestata dalle forze di occupazione israeliane mentre era incinta. Contro di lei sono stati usati metodi brutali. Riad al-Ashqar, il direttore dell'ufficio stampa del Ministero per i Prigionieri del governo della Striscia di Gaza, ha dichiarato che la donna, residente a Jabaliya, nella Striscia, era stata arrestata il 29 maggio del 2005, mentre si trovava a casa di suo marito, a Tulkarem. Era al secondo mese di gravidanza e ha partorito il piccolo Bara'a, suo figlio, dietro le sbarre.
Al-Ashqar ha aggiunto che nonostante le forze di occupazione sapessero che la Sbeh era incinta, al momento dell'arresto l'hanno trattata con violenza: dopo aver circondato l'abitazione, con i megafoni hanno imposto a tutti gli abitanti di uscire con le mani alzate senza vestiti. I militari hanno fatto salire la donna su una jeep militare e le hanno ingiunto di
spogliarsi completamente. Quando lei si è rifiutata, l'hanno minacciata di morte. Per un'ora è stata interrogata sulla pubblica piazza, poi è stata trasferita, con gli occhi bendati e le mani e i piedi legati, nella prigione di al-Maskubiyah. Al suo arrivo, è stata denudata e perquisita dalle soldatesse. È stata interrogata per due mesi consecutivi, durante i quali ha perso molto peso. Inizialmente, veniva sottoposta a interrogatorio da 3 a 4 ore al giorno, poi sono passati a 12 ore al giorno, tenendola sempre con mani e piedi legati: seduta su una piccola sedia fissata per terra, ha subìto ogni forma di pressione psicologica e fisica. L'hanno minacciata di farla abortire, di bombardare la sua casa e di arrestare sua madre e suoi fratelli.

Il tutto veniva accompagnato da insulti e grida. Il giorno del parto, non hanno permesso ad alcuno dei suoi familiari di assisterla. Suo marito era agli arresti amministrativi, senza imputazione e processo. Solo un'avvocatessa dell'Associazione Mandela ha potuto essere
presente al momento del parto. Ha poi descritto la condizione in cui Samar ha dovuto dare alla luce il piccolo come «una violazione di tutti i diritti umani»: la giovane è stata sottoposta a perquisizioni umilianti, denudata e alla presenza di tre soldati carcerieri.

È stata costretta a una visita medica mentre era incatenata e, in quella situazione, ha partorito. Dopo il parto, ha potuto allattare il suo bambino due volte al giorno, con i piedi legati. Spesso cercava di tenerlo sospeso verso l'alto, sperando che i raggi del sole potessero accarezzare il suo corpicino.

Partorire al check-point. Un altro tragico, disumano, fenomeno, molto diffuso negli ultimi anni nella Cisgiordania occupata.

Il parto al check-point: donne in travaglio cercano di raggiungere il più vicino ospedale per partorire, ma il Muro ell'Apartheid, i posti di blocco e le varie barriere impediscono loro di arrivare a destinazione. I soldati israeliani non permettono il transito neanche in questi casi estremi, e molte madri sono costrette a dare alla luce la propria creatura per terra, davanti alla gente, senza assistenza medica.

E, spesso, donna e bambino muoiono o riportano gravi problemi di salute e danni permanenti


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