Traduzioni

30 novembre 2008

Manifestazione nazionale a Roma il 13 dicembre per dire no alla legge Carfagna sulla prostituzione



Sabato 13 dicembre a Roma ci sarà una manifestazione nazionale [promossa da decine di associazioni, tra cui l´Arci, il Comitato diritti civili delle prostitute di Pordenone, il Cnca, il Mit di bologna, il Coordinamento associazioni transessuali «Silvia Rivera», il Gruppo Abele, Cantieri sociali insieme a Carta, l´associazione Libellula e «La strega da Bruciare»] per dire no alla legge Carfagna sulla prostituzione e, più in generale, alle manie «securitarie» di questo governo e a tutte le ordinanze, di tutti i colori, che stanno inondando di soprusi, discriminazione e pelosi moralismi il nostro paese. Logiche che vengono da lontano, che utilizzando la falsità come paradigma della narrazione sociale e alimentando le paure e le diffidenze verso ogni forma di differenza, hanno come vero obiettivo lo smantellamento del sistema dei servizi, la privatizzazione delle prestazioni sociali e sanitarie, la riduzione della funzione pubblica in materia di welfare alla carità istituzionale. Leggi e indirizzi che in nome di queste finalità negano le persone, sono feroci con le loro storie, vite e relazioni. Le persone non sono più tali, ma puttane, tossici, matti, extracomunitari. E di nuovo, si viene da lontano... ricordate Veltroni, ancora sindaco di Roma, che orgoglioso in televisione rivendicava «ne ho spostati 15 mila» parlando dei rumeni. Così, nell´immaginario si costruivano universi abitati non da donne, uomini, anziani e bambini, ma soltanto da rumeni, e per questo cancellabili senza particolari traumi o rimorsi di coscienza. Sul disegno di legge Carfagna va aggiunto che con il divieto della prostituzione in strada non si risolve il problema ma lo si nasconde e così facendo si produce non più sicurezza ma maggiore insicurezza. Si rendono le vittime di tratta ancora più vittime, più deboli e fragili nelle mani degli sfruttatori perché chiuse e irraggiungibili negli appartamenti. Spostando e concentrando le donne in strada in luoghi più marginali, limitati e periferici le si sottopone a più forti rischi di violenze, abusi e furti. Dall´altra parte, costringendole a lavorare insieme si abbassa la capacità di contrattazione con i clienti, con forti rischi di accettare rapporti più pericolosi e meno protetti. Inoltre, con il divieto di prostituzione in strada si rischia di rendere inutili tutti i progetti e servizi che Italia, negli ultimi dieci anni, hanno raggiunto migliaia di vittime di tratta, aiutando più di diecimila donne a fuggire e a denunciare i propri sfruttatori Insomma il disegno di legge non renderà nessuno più sicuro. Perché, la sicurezza, al contrario di quello che oggi ci viene raccontato, si costruisce innanzitutto creando condizioni di maggior giustizia e maggiore uguaglianza. Riempiendo il territorio di opportunità diffuse e positive. Accompagnando le persone più fragili e in difficoltà nella fatica e nella ricerca della possibile autonomia. Garantendo a tutti e tutte pari opportunità non solo di accesso ai servizi, ma a spazi adeguati di vita, benessere, felicità, allegria. La legge Carfagna non tiene poi in nessun conto,i diritti e le aspettative di tutte le donne, gli uomini e le persone transessuali che hanno scelto liberamente di vendere prestazioni sessuali tra adulti consenzienti. Né si fa carico della quota sempre più alta di persone, italiane e straniere, che trovano nella prostituzione l´unico mezzo per fuggire da condizioni di povertà estrema. Tutte e tutti diventano nemici e potenziali criminali. Persone da multare ed espellere. Devianti e meretrici che imbrattano le strade e offendono il decoro. Le persone, le associazioni, gli enti che sabato 13 si troveranno in piazza a Roma esprimeranno un altro punto di vista, un altro modo di guardare alla convivenza, alle relazioni, all´organizzazione della nostra società. Persone convinte che il disegno di legge Carfagna sia solo il pezzo di un progetto più organico e complessivo che lede e limita i diritti di tutte e tutti. Che restringe le nostre libertà. Che vuole costruire una società di pochi, corporativa e cattiva con i differenti, infastidita da ogni forma di ospitalità, che pensa a tutto e a tutti come merce. Il 13, come per altre tante manifestazioni di questi giorni, per dire che «un altro mondo possibile» si costruisce anche a partire dalla vicinanza e dalla condivisione con chi sta in strada per scelta,
perché non ha altre possibilità, perché è costretta a starci.

Andrea Morniroli
















Le Foto della manifestazione dell'8 ottobre in Piazza Municipio, Napoli

Costo Rifiuti - Dossier di Cittadinanzattiva: caos nelle bollette

da Irpinia news venerdì 28 novembre 1008

Avellino -
Rifiuti a peso d’oro: in Campania, la spesa media annua del servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani è di 262 euro, ben 45 euro in più rispetto alla media nazionale, pari a 217. In positivo, nell’ultimo anno non si è registrato alcun aumento a fronte di un incremento tariffario che in Italia dal 2006 al 2007 è stato del 3,8% su base nazionale.

In assoluto, in Italia la spesa media annua più alta si registra in Sicilia con 280 euro, la più bassa in Molise (117), a dimostrazione di una marcata differenza tra aree geografiche del Paese, che trova conferma anche all’interno di una stessa Regione. In Campania, a Caserta la Tarsu arriva sfiorare i 400 euro, più del doppio rispetto ad Avellino (168 euro), ben 110 euro in più rispetto a Napoli, 142 euro in più rispetto a Benevento e 180 in più rispetto a Salerno.
Nello studio realizzato dall’Osservatorio prezzi & tariffe di Cittadinanzattiva in occasione della Settimana europea per la riduzione dei rifiuti, l’analisi a carattere regionale e nazionale del servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani in termini di costo sopportato da una famiglia di tre persone con reddito lordo complessivo di 44.200 euro ed una casa di proprietà di 100 metri quadri. L’indagine, condotta con il contributo dei rilevatori civici di Cittadinanzattiva, ha riguardato tutti i capoluoghi di provincia nel 2007.
Caro bollette: in media, in un anno una famiglia tipo ha sostenuto nel 2007 una spesa di 217 euro per il servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani, con Siracusa quale città più cara per le tariffe rifiuti (400€) e Reggio Calabria la più economica (95€).
Inoltre, in Italia da gennaio 2000 a ottobre 2008, secondo dati Istat, l’incremento registrato a livello di tariffe è stato del 47,5%.
A più di dieci anni dal Decreto Ronchi del 1997, nessuno dei cinque i capoluoghi campani è passato dalla Tarsu alla Tia, anche se, rispetto al 2006, in nessun capoluogo campano si registra un incremento tariffario.
Da qui le proposte:
Inserire nel pacchetto anticrisi l’eliminazione della addizionale provinciale, che può pesare fino al 5% del totale della spesa sostenuta per i rifiuti; Esenzioni di Tarsu e Tia per i beneficiari della social card; Per il 2009 blocco delle tariffe rifiuti e, dal 2010, introduzione di un tetto massimo agli aumenti annuali delle tariffe pari al tasso di inflazione programmato; Attuare il comma 461 dell’articolo 2 della Legge Finanziari 2008 (l. 244/2007) che prevede l’obbligo per i Comuni di strumenti di partecipazione civica degli utenti e di tutela dei diritti dei cittadini nei servizi pubblici locali; Piano nazionale di educazione e di responsabilizzazione, mediante incentivi fiscali a beneficio di famiglie, imprese e grande distribuzione, per lo sviluppo della raccolta differenziata e la riduzione dei rifiuti, a partire da imballaggi e confezioni dei prodotti; Piano pluriennale di incentivi e sanzioni per i Comuni e i rispettivi amministratori locali che non raggiungeranno l’obiettivo stabilito della copertura del 40% di raccolta differenziata dei rifiuti entro il 2010/11

29 novembre 2008

Non ne facciamo una bomboniera

Giovanni Laino, La Repubblica Napoli, 28-11-2008

Quando presento Napoli e il suo centro urbano agli stranieri mi trovo sempre dinanzi a un problema: la parola bomboniera non è traducibile. Allora devo spiegarmi meglio per dire che Napoli, che soffre ritardi e degrado, ha la fortuna di non essere stata trasformata in una bomboniera.
In diverse città europee invece, la sintesi fra storia locale e interventi di riqualificazione ha prodotto un effetto bomboniera: un habitat gradevole, con gli spazi pubblici e gli edifici recuperati. Un riuso che ha concentrato la cura sulle pietre, sullo spazio fisico, spesso senza preoccuparsi di trovare una vera rigenerazione degli usi. Ecco quindi tanti luoghi aulici che diventano contenitori di improbabili esposizioni, non sapendo bene cosa farne. Una sorta di museificazione della città, con edifici da contemplare. Parti urbane che sono diventate un grande plastico in scala uno a uno, dove però si evoca solo il passato, suggerendo che il presente può essere solo la rievocazione di quello che è stato.
Il centro urbano di Napoli, invece, è ricco di dinamiche di lenta trasformazione, non è stato gentrificato né monumentalizzato: si tratta di una opportunità da cogliere evitando di farne un presepio in cui proiettare le nostre nostalgie.
Da tempo è provato che gli interventi che non provvedono alle cure per le reti antropiche, alle attività che animano la città determinandone quella grande qualità che è la densa mixité (varietà di popolazioni e usi con una densità quasi caotica), quando vanno bene, producono bomboniere magari belle da vedere ma sostanzialmente impoverite di funzioni e flussi vitali. In diversi casi la bomboniera diventa attrattore di flussi turistici che però possono arrivare a fagocitare le parti urbane facendo arricchire solo alcuni; sostanzialmente deteriorano la città e la qualità della vita di buona parte della popolazione. Anche un certo recupero di attività artigianali e commerciali può rientrare in questa strategia sconsigliabile, con botteghe trasformate in boutique che espongono e commercializzano prodotti presunti tipici che spesso sono identici in ogni dove.
Il documento di orientamento strategico che nei prossimi giorni verrà presentato dal Comune e dalla Regione per gli interventi nel centro storico si concentra sugli interventi sullo spazio fisico, nella convinzione, di cui gli architetti sono ascoltati paladini, che sia l´assetto fisico della città a determinare la qualità della vita e la sua attrattività. Anche la considerazione più comune del patrimonio è schiacciata sull´attenzione allo spazio fisico.
Il recupero e la riqualificazione degli spazi aperti e degli edifici sono certamente rilevanti, in diversi casi improrogabili. È certo però che senza una straordinaria attenzione a un progetto di infrastrutturazione dell´economia e dei servizi culturali e sociali, anche nel centro storico, ogni programma è destinato all´insuccesso. Potranno goderne i settori legati ai lavori edili, i proprietari che vedranno aumentare - ancor più - i valori immobiliari delle loro case e botteghe, ma complessivamente il profilo qualitativo della città non migliorerà. È risibile l´ipocrisia di quelle scelte che mettono un po´ di interventi sociali, con il coinvolgimento di qualche parrocchia e il riuso approssimativo di qualche bene confiscato. Una strategia efficace, realmente competitiva, non può relegare ai margini gli interventi sulle reti immateriali, sui servizi sociali. È una convinzione dei governanti illuminati prima che degli assistenti sociali. Una certezza che in realtà vale anche per le periferie. Un´intenzione che può diventare progetto, rilanciando interventi che, nati nel centro storico della città, sono considerati d´avanguardia nello sfondo delle politiche sociali europee.

Centro storico, l'altra Bagnoli

Isaia Sales, il Corriere del Mezzogiorno, 25-11-2008

«Si tratta di una delle più antiche città d'Europa... I tracciati delle sue strade, la ricchezza dei suoi edifici caratterizzanti epoche diverse conferiscono al sito un valore universale senza uguali, che ha esercitato una profonda influenza su gran parte dell'Europa e al di là dei confini di questa».
Sono queste le motivazioni con le quali l'Unesco ha inserito nel 1996 il centro storico di Napoli nella lista del patrimonio mondiale dell'umanità. Il suo recupero, se ben progettato, organizzato, guidato, eseguito, potrebbe divenire un avvenimento nella storia della città, un evento per l'urbanistica mondiale, un caso di successo (o di insuccesso) di cui parlerebbe il mondo intero, come è avvenuto per il recupero a Barcellona del Barrio gotico, a New York per Harlem, o a Berlino. C'è questa consapevolezza nella classe dirigente napoletana, nel mondo della cultura, delle professioni, delle imprese, e nell'opinione pubblica più vasta?
Diversamente da ciò che è avvenuto nelle altre tre città, la discussione è ristretta agli addetti ai lavori, e non è diventata ancora passione e confronto collettivo neanche sui giornali, se si esclude qualche tradizionale punzecchiatura tra urbanisti. Eppure i tempi stringono e le decisioni da prendere non vanno al di là della fine di quest'anno. Com'è noto sono stati riservati 200 milioni di fondi europei a tale scopo (a cui si aggiungono 20 di cofinanziamento da parte del Comune di Napoli) e la proposta concreta per il loro utilizzo doveva essere già presentata entro il 30 settembre.
Con questo articolo provo a dire la mia, visto che quando ero in Regione a seguire il nuovo programma di utilizzo dei fondi europei ho voluto uno stanziamento ad hoc per il centro storico, augurandomi che su questo argomento sia la stessa amministrazione della città a promuovere un confronto di massa prima di assumere le proprie determinazioni.
Il sito Unesco interessa il centro storico per 700 ettari, il 16% dell'intero territorio della città, con una popolazione di quasi 300 mila abitanti. So che il Comune di Napoli vorrebbe sì proporre un intervento in un'area più ristretta, 16 kmq, ma che spazierebbe comunque tra ben 10 quartieri e 4 municipalità, da Castel dell'Ovo all'Albergo dei Poveri, da Monte Echia a porta Capuana, da via Marina a Caponapoli. Io penso che ci si possa limitare ai due decumani e alle zone interconnesse, cioè alla zona greco-romana e medievale, ridando alla stazione centrale il ruolo di porta della città, attraverso un percorso totalmente pedonalizzato che immetta direttamente nel cuore antico di Napoli. Meglio, dunque, un intervento limitato, ristretto, ben organizzato, che a sua volta funga da modello organizzativo e realizzativo per gli altri da fare. Se l'area è troppo ampia, non solo le risorse sono insufficienti, ma si rischia di preferire un'opera di «decoro» a un'azione di radicale ed esemplare trasformazione urbana.
È chiaro che qualsiasi scelta di riqualificazione deve essere inserita in una proposta di più ampio respiro. Non esiste nessun progetto urbanistico valido se non ha «un'anima», cioè se non si chiarisce bene quale assetto sociale si intende favorire. È certo che l'attuale stato dei luoghi e l'attuale configurazione della popolazione prevalente nel centro antico non permettono un suo stabile utilizzo a fini culturali, turistici, o quant'altro. Oggi, in quei luoghi, la classe egemone è quella caratterizzata da redditi bassi e da attività illegali, rispetto al blocco sociale del recente passato dove predominava l'artigianato e il lavoro sommerso.
Non esiste al mondo nessun sito turistico al cui interno dominano attività criminali. È questa una delle principali questioni storiche da affrontare. Napoli è l'eccezione tra le città occidentali: il suo centro storico non ha funzioni direzionali, né finanziarie, né commerciali di lusso, né vi abitano i ceti più benestanti. È come se si fosse formata una periferia nel suo cuore antico, caratterizzata da un fortissimo sovraffollamento di famiglie a bassissimo reddito. Questa peculiarità è stata per anni motivo di forti contrasti tra due schieramenti: tra chi riteneva ciò una ricchezza rispetto a tutte le grandi metropoli del mondo, e a chi invece si augurava che il mercato immobiliare, finalmente libero da vincoli, potesse riportare Napoli nella normalità, relegando in periferia i ceti sociali non in grado di reggere ai vertiginosi cambi di valore degli immobili. Queste due posizioni si sono così irrigidite da dare vita a una vera e propria contrapposizione ideologica. Ne hanno fatto le spese tutti i programmi di riqualificazione proposti negli ultimi anni, compresi alcuni che potevano essere corretti e non totalmente respinti. Naturalmente un po' di diffidenza era giustificata dopo i disastri del laurismo e delle prime giunte a guida Dc. Ma il totale immobilismo in quella parte della città ha condizionato tutte le altre scelte, come ad esempio costruire un Centro direzionale quasi in periferia, spostare le Università altrove con gravi problemi per gli studenti (Monte Sant'Angelo), non avere nessun grande albergo o una ospitalità turistica diffusa come avviene invece in tutti i centri antichi delle città d'arte.
Come conciliare l'integrità fisica e la identità sociale del cuore della città senza che ciò porti all'inazione; come difendere questa particolare composizione della popolazione senza che essa blocchi le potenzialità turistiche; come lasciare la peculiarità di zona fittamente abitata e al tempo stesso chiuderla al traffico veicolare recuperando spazi per bisogni elementari (parcheggi, verde attrezzato, parchi-giochi): sono queste alcune delle difficili decisioni da prendere. E, dunque, se non si vuole «deportare» la popolazione meno abbiente, bisogna però avanzare una proposta che rompa con l'attuale dominio di comportamenti illegali e spesso criminali. Fare del centro storico di Napoli un campus universitario urbano mi sembra una proposta di grande interesse. Si può rafforzare così un polo sociale altrettanto forte con funzioni di contrappeso rispetto a quello preesistente. Insomma un blocco sociale, con possibilità di divenire maggioritario nel tempo, cementato dagli studi, dalla cultura, dalla formazione, dalla produzione culturale, dall'accoglienza dei turisti e che, al tempo stesso, non perda il carattere di luogo vissuto e ampiamente abitato. Che siano, cioè, le Università con tutte le loro esigenze a plasmare l'assetto futuro del centro storico, più di quanto abbiano fatto nel passato. Che siano gli studenti e i professori il motore della riqualificazione.
La sfida è di fare di una grande città, e del suo centro storico, ciò che sono città più piccole, che vivono sul binomio «studio e accoglienza», senza contrasto tra studenti e turisti, quali Siena, Urbino, Pavia, o Salamanca. Andando in controtendenza rispetto a Roma e Milano che stanno trasferendo fuori dal centro le attività universitarie. E poiché non ci sono grandi proprietà immobiliari private, ma sono gli enti pubblici ad avere più patrimonio nel centro storico (Lo Stato, la Regione, la Provincia, il Comune) assieme alla Chiesa, sono questi enti che debbono darsi da fare. Un'operazione di questo tipo ha bisogno, certo, anche di capitali privati. Si potrebbe dare vita ad una società pubblico-privato con il compito di andare a cercare sui mercati finanziari capitali per una delle più grandi operazioni di recupero urbano al mondo. Con la premessa che rivolgendosi a studenti che si vogliono portare a risiedere a Napoli (molto, molto più di ciò che avviene ora), il capitale privato dovrebbe scommettere su di un ritorno dell'investimento meno rapido di quello a cui si è abituati nell'edilizia residenziale. In questo senso si calmierebbe il mercato e si offrirebbero sistemazioni più civili delle attuali. Anche gli Iacp potrebbero far parte di questo progetto, concentrando i loro programmi sul recupero del già costruito, facendo vivere insieme negli stessi palazzi ristrutturati studenti e beneficiari dell'alloggio popolare. E naturalmente l'arcidiocesi di Napoli potrebbe mettere a disposizione i numerosi conventi per questa operazione, com'è avvenuto a Pavia. Il tutto dovrebbe partire, lo ripeto, da un primo intervento su un'area ristretta, capace d'innescare un effetto a catena del recupero, offrendo incentivi ai proprietari privati sulla base del progetto Sirena, che andrebbe concentrato solo nell'area oggetto dell'intervento. E offrendo anche contributi per insediamenti di imprese, riservandoli però solo a quelle di carattere culturale e turistico.
Il centro storico di Napoli ha una potenzialità enorme, secondo me più di Bagnoli, più dell'area orientale. Napoli sarà sempre una città malata se resterà malato il suo cuore antico.

ragnatela






ragnatela
mercato
C
_umano




un
incontro tra produttori e con i consumatori, la sperimentazione di un
modello che impegna entrambi al fine di eliminare i passaggi
intermedi valorizzando i rapporti sociali, il piacere ed il gusto



Un mercato di
piccola scala ma non di nicchia che possa diffondere forme
autogestite di scambio e pratiche di autocertificazione della qualità
dei cibi e degli altri prodotti, del modo dell'etica con la quale
sono coltivati/realizzati, azzerando così il profitto (filiera
corta). 



In linea con
“mercato senza mercanti” terra/TERRA di Roma l’idea
è di realizzare un appuntamento mensile del

mercato
C_umano
“ragnatela
ed un punto SPA (Spaccio Popolare Autogestito), uno SPAzio pensato
sia per diffondere i prodotti della “RETE>RAGNATELA”,
sia per informare diffondere e “connettere” esperienze e
realtà che difficilmente sarebbero "visibili".
All'interno dello SPA ci sarebbe un centro di documentazione dove si
può visionare il catalogo dei prodotti e le schede di
autocertificazione in cui sono descritte le caratteristiche di
ciascun prodotto esposto, le tecniche di coltivazione/realizzazione
utilizzate, le caratteristiche del terreno, la provenienza dei semi e
l'indicazione del prezzo sorgente



L'autocertificazione
svincola il produttore biologico (non certificato) dalle speculazioni
dell'agro-business, restituendogli la responsabilità del
proprio lavoro. La qualità di un prodotto è espressione
della qualità della vita e dell'ambiente in cui viene
generato.



Il prezzo
sorgente
,
praticato dal produttore prima di ogni altro ricarico della catena
commerciale, promuove una relazione basata sull'etica della
responsabilità e sulla cooperazione produttiva. 



L'agricoltura
in partenariato
,
impegna reciprocamente produttore e consumatore, tende a sviluppare e
rafforzare le piccole economie locali attraverso un sistema di
produzione basato sul ruolo attivo del consumatore (co-produttore).




Scontrino
Etico



(dal sito del mercato terraterra,
31 Ottobre 2007)



Acquistando i
prodotti di questo mercato, oltre ad assicurarti alimenti sani e di
migliore qualità rispetto a quelli che trovi al 
supermercato, partecipi ad un’importante azione di sostegno
all’agricoltura locale e familiare, oggi minacciata dal modello
agricolo industriale e dalle regole della grande distribuzione. I
contadini che partecipano a questo mercato, non solo coltivano e
trasformano i loro prodotti con metodi biologici ed ecocompatibili,
ma svolgono un’importante funzione di conservazione del
territorio e di trasmissione dei saperi legati alla terra ed al
nostro patrimonio agro-alimentare.  L’agricoltura
contadina rischia oggi di scomparire e con lei una fetta
importantissima delle nostre conoscenze e del nostro patrimonio
culturale.  Un’ alleanza forte tra piccoli produttori e
consumatori delle grandi città può contribuire ad
arrestare questo processo. Ed è per questo che noi
organizziamo questo mercato e perché crediamo che il cibo non
possa essere considerato una merce. Ed è per
questo che il prodotto che acquisterai  oltre al suo valore
intrinseco porta con sé un importantissimo valore sociale.



Durante il
giorno
incontri/cerchi
> gruppi d’acquisto, movimenti contadini, mobilità
sostenibile, casecomuni, ecovillaggi, fonti rinnovabili, artigiani,
artisti, scambi e regali, immigrazione…



Per
approfondire alcune tematiche attraverso il racconto di esperienze
significative, aprire nuovi percorsi di riflessione, elaborare
consapevolezze ed interrogativi



Per
“connettere” per quanto possibile realtà tipo la
ciclofficina in città e nuova contadinità in campagna,
per dare gambe a progetti comuni, ampliare le reti di solidarietà,
favorire gli scambi, trovare soluzioni concrete che ci permettano di
continuare a credere in ciò che facciamo e ciò in cui
crediamo.






INFO VARIE







ragnatela
si svolge nel cortile di casacuma o in caso di pioggia in versione
ridotta all’interno.







ORARI



Dalle 10 alle
22 di domenica 30.11.2008 (appuntamento mensile ogni prima o ultima
domenica del mese, come capita…)







PRODUTTORI



Le
degustazioni e assaggi sono gratuiti ma hanno il fine di far
conoscere una scelta di vita, un lavoro artigiano, una passione, un
sapere, un impegno, un sacrificio; vi suggeriamo di approfittare
dell’occasione, oltre che per “bere e mangiare”,
anche per “capire” il senso di ciò che facciamo.



Casacuma
avrà un “CAPPELLO MAGICO” per un contributo spese
libero!



Chi
desidera può contribuire con viveri e bevande da condividere







LOGISTICA







STOVIGLIE



A casacuma
non si utilizza plastica
e l’unico lavello che abbiamo non
basta rispetto al numero di persone che arrivano pertanto ognuno è
invitato a venire munito di bicchiere/ gavetta, piatto e posate.







FUMO



Negli spazi
interni non si fuma. Negli spazi esterni la cicca è di chi
fuma
!







CANI



Nel rispetto
di chi espone i frutti del proprio lavoro, dell’incolumità
dei bambini, di chi mangia e beve, del giardino e degli spazi
interni, insomma di tutti, visto i precedenti, se il cane è
“vivace” vi chiediamo di tenerlo al guinzaglio, e cmq di
raccogliere gli eventuali ricordi del loro passaggio.







RIFIUTI



Non
produciamoli, se qualcosa resta differenziamoli!




Vi preghiamo anche di riportarvi a
casa eventuali rimanenze di oggetti di baratto regalo o scambio.













Per aderire
contatta:



(www.myspace.com/casacuma;
casacuma@yahoo.it
) (
www.pazzariello.splinder.com;
kapaelion@libero.it
)







24 novembre 2008

Gaza: arrestato pacifista italiano a Gaza.

«Un pacifista italiano, Vittorio Arrigoni, è stato arrestato martedì scorso dalla marina militare israeliana mentre si trovava a sette miglia dalla costa, al largo della Striscia di Gaza, su un peschereccio insieme a una quindicina di pescatori palestinesi.
Arrigoni aveva deciso, insieme ad altri due attivisti internazionali per i diritti umani, uno scozzese e uno statunitense, di accompagnare i palestinesi mentre si procuravano il cibo. La marina israeliana ha requisito il peschereccio e arrestato tutti i presenti nonostante stessero pescando in un’area di mare nella quale gli accordi internazionali riconoscono il diritto alla pesca per i palestinesi.
Detenuto senza aver commesso alcun reato, è stato fermato per essere espulso dal governo israeliano in quanto “persona non gradita”; attualmente si trova in carcere a Ramla a circa 30 chilometri da Tel Aviv.
L’Italia si attivi subito per la liberazione di un suo cittadino detenuto illegalmente da un altro Paese – dichiara Vittorio Agnoletto, eurodeputato di Rifondazione comunista/Sinistra europea, che questa mattina ha contattato telefonicamente il pacifista italiano – .
Vittorio Arrigoni mi ha comunicato che da stamane ha iniziato uno sciopero della fame.
Inconcepibile che una persona venga sequestrata dalle autorità di uno Stato, in attesa di un’espulsione immotivata, visto che Arrigoni non ha nemmeno mai messo piede in Israele: infatti è arrivato direttamente a Gaza a settembre, con una nave di pacifisti. Il governo italiano non può tacere di fronte a quanto accaduto nelle acque palestinesi.
Oggi presenterò un’interrogazione parlamentare alla Commissione europea, affinchè chieda a Israele di rispettare le convenzioni internazionali, e in particolare gli accordi di Oslo sul conflitto arabo-israeliano, che sanciscono l’autogoverno palestinese nell’area di Gaza e la possibilità dei pescatori palestinesi di pescare in un’area di mare fino a 20 miglia dalla costa oltre che il transito sicuro delle persone in quell’area.
Israele gode con l’Europa di un rapporto di partnership particolare: non può calpestare in questo modo i diritti di un cittadino europeo, senza che le istituzioni europee muovano un dito».

21 novembre 2008 - www.carta.org

L'orizzonte zapatista

Da Carta, un articolo uscito ieri sul quotidiano messicano La Jornada che, a venticinque
anni dalla nascita dell'Esercito zapatista di liberazione nazionale [Ezln],
disegna l'esperienza degli zapatisti in Messico e le loro relazioni sociali e
politiche.

«Ya se mira el horizonte», dice la prima strofa dell'inno
zapatista.. Quell'orizzonte non è una destinazione lontana o irraggiungibile.
Non è un'idea astratta. Almeno in parte, le comunità ribelli del sudest
messicano l'hanno trasformato in un fatto reale.
Questo lunedì 17 novembre si
sono compiuti 25 anni dalla fondazione dell'Esercito zapatista di liberazione
nazionale [Ezln]. Due decenni e mezzo di un'esperienza che ha trasformato la
politica e la società messicana e che ha ispirato le molteplici forme
dell'arcipelago altromondista che in molti paesi lotta per un altro mondo.
Lo
zapatismo ha costruito una delle esperienze di autogestione più profonde e
innovatrici di quante si siano viste in America latina: la Comune della
Lacandona. Nonostante l'accerchiamento militare e l'offensiva economica contro
di loro, le comunità ribelli si sono date forme di autogoverno stabile, vivono
secondo le loro regole e si sono fatte carico del proprio sviluppo.
Lungi
dall'esaurirsi col tempo, il trascorrere degli anni consolida e approfondisce il
loro laboratorio di futuro alternativo e di un'altra politica. L'autonomia qui
non solo è una proposta o una rivendicazione politica, ma un fatto pratico,
un'esperienza sistematizzata; è pensiero con i piedi per terra.
Quest'impresa
di resistenza ribelle è riferimento e stimolo per milioni di indigeni in tutto
il paese.
È una dimostrazione che l'autonomia di fatto è possibile. È la
prova che esiste chi non si arrende né si vende.
Durante quindici anni
quattro amministrazioni federali e sei statali hanno destinato risorse
miliardarie per contenere e distruggere lo zapatismo. Non ci sono riuscite.
Malgrado abbiano speso migliaia di milioni di pesos in opere pubbliche, progetti
produttivi, forniture alimentari e per comperare le coscienze, non sono riusciti
a spegnere la fiamma della dignità indigena. I ribelli non accettano un solo
pesos dai governi. Il denaro governativo è arrivato con il bastone. La
persecuzione poliziesco-militare contro l'insurrezione non cessa. L'Esercito
messicano mantiene acquartierato nella zona ribelle migliaia di uomini. I
pattugliamenti sono costanti. Tuttavia, né questa presenza né quella dei diversi
corpi di polizia sono riusciti disarticolare la resistenza.
Tra le
conseguenze immediate che l'insurrezione zapatista ha avuto per il movimento
sociale, c'è quella di aver costruito una visione di ciò che è possibile
raggiungere con la lotta, molto più ampia di quella esistente fino al 1994. Il
margine di azione statale è minore, e maggiori sono le concessioni che deve fare
alle organizzazioni. Anche se non sempre lo sanno né ne approfittano, i
movimenti indipendenti hanno oggi uno spazio molto più ampio per il loro
sviluppo.
Dal 1994, quando si stabilì la Convenzione nazionale democratica,
gli zapatisti hanno convocato diverse iniziative per organizzare e offrire un
canale allo scontento nazionale.
Nella maggioranza dei casi hanno proposto
che fossero altri a guidarle. Fino all'Altra Campagna nessuna ha avuto successo:
sono tutte naufragate in mezzo alle dispute interne di potere delle diverse
personalità e correnti di sinistra. L'Altra Campagna aspetta ancora la grande
prova del fuoco. E' ancora pendente la diffusione di un programma nazionale di
lotta e la dimostrazione di fino a dove sono arrivate le reti di solidarietà ed
azione costruite durante il cammino.
Gli zapatisti mantengono grandi simpatie
nel mondo indio, tra i giovani, tra i contadini poveri e i coloni urbani. Al
contrario, l'appoggio di cui godevano tra importanti settori del mondo
intellettuale è svanito. La solidarietà che qualche volta hanno raccolto tra
ampie frange della sinistra di partito si è trasformata in decisa avversione.
Molte delle Ong che qualche volta sono state vicine alla loro causa si sono ora
allontanate.
L'insurrezione del 1994 ha rianimato e stimolato la formazione
di importanti movimenti sociali rivendicativi e di opposizione. Per anni l'Ezln
è stato il catalizzatore delle proteste sociali di diversissimo segno al di
fuori della sua area di influenza diretta. Oggi questa funzione sembra essere
giunta alla fine. Gli zapatisti sembrano aver privilegiato la costruzione delle
proprie forze. Importanti movimenti politici e sociali fuori della sua orbita di
ascendenza non hanno meritato, da parte sua, espressioni esplicite di
solidarietà. [.]
Come è successo molte volte dal 1994, c'è chi ora assicura
che i ribelli non hanno più impatto nel paese. L'esperienza mostra che chi
afferma questo si sbaglia. I ribelli sono tornati al centro della politica
nazionale con successo più di una volta. Sebbene alcune delle loro definizioni
politiche possano essere state sbagliate, contano su un capitale etico enorme
che conferisce loro credibilità e capacità di convocazione.
Lo zapatismo
rappresenta una rottura formidabile con i vecchi modi di fare politica che,
nonostante il trascorrere degli anni, conserva la sua freschezza. A venticinque
anni dalla fondazione dell'Ezln il suo orizzonte è qui e continuerà a farsi
sentire.

22 novembre 2008

manifestazione nazionale per i diritti delle donne



style="PADDING-RIGHT: 8px; PADDING-LEFT: 8px; BACKGROUND: #ffffcc; PADDING-BOTTOM: 4px; PADDING-TOP: 4px; BORDER-BOTTOM: #eeeeee thin solid; FONT-FAMILY: Arial,sans-serif">href="http://mail.google.com/mail/?view=att&th=11db194aee010632&attid=0.1&disp=attd&zw">Scarica
l'allegato originale



Manifestazione Nazionale
delle Donne a Roma Sabato 22 Novembre 2008 


“Contro la violenza alle
donne”
 


In occasione della
manifestazione che si terrà sabato a Roma vorrei ricordare il recente episodio
di cronaca che ha coinvolto SHAMSIA, una ragazza afgana sfigurata da alcuni
integralisti perché si ostinava a frequentare la scuola. Dopo l’accaduto SHAMSIA
reagisce dichiarando “Voglio continuare con la scuola anche se dovessero
uccidermi”. A lei vorrei dedicare la mia presenza alla manifestazione di Sabato
22 Novembre a Roma contro la violenza alle donne. A lei come simbolo di coraggio
contro ogni forma di violenza, sopraffazione ed ingiustizia  che le donne
di tutto il mondo subiscono quotidianamente. Che sia un esempio per tutte noi e
ci sproni a rialzare la voce, a ricomporci ancora per arginare le politiche
reazionarie che ledono la nostra autodeterminazione, per consolidare una
solidarietà di genere che ci dia la forza di esprimere le nostre idee, la nostra
cultura e di denunciare le continue ed innumerevoli difficoltà delle nostre vite
quotidiane condotte troppo spesso senza alcun sostegno e riconoscimento sociale.


Ida Orabona


href="mailto:idaorabona@hotmail.it"
target=_blank>idaorabona@hotmail.it


size=4>Napoli


manifestazione nazionale per i diritti delle donne



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Manifestazione Nazionale
delle Donne a Roma Sabato 22 Novembre 2008 


“Contro la violenza alle
donne”
 


In occasione della
manifestazione che si terrà sabato a Roma vorrei ricordare il recente episodio
di cronaca che ha coinvolto SHAMSIA, una ragazza afgana sfigurata da alcuni
integralisti perché si ostinava a frequentare la scuola. Dopo l’accaduto SHAMSIA
reagisce dichiarando “Voglio continuare con la scuola anche se dovessero
uccidermi”. A lei vorrei dedicare la mia presenza alla manifestazione di Sabato
22 Novembre a Roma contro la violenza alle donne. A lei come simbolo di coraggio
contro ogni forma di violenza, sopraffazione ed ingiustizia  che le donne
di tutto il mondo subiscono quotidianamente. Che sia un esempio per tutte noi e
ci sproni a rialzare la voce, a ricomporci ancora per arginare le politiche
reazionarie che ledono la nostra autodeterminazione, per consolidare una
solidarietà di genere che ci dia la forza di esprimere le nostre idee, la nostra
cultura e di denunciare le continue ed innumerevoli difficoltà delle nostre vite
quotidiane condotte troppo spesso senza alcun sostegno e riconoscimento sociale.


Ida Orabona


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19 novembre 2008

I report dell'Onda dall'Assemblea della Sapienza

[17 Novembre 2008]

Dall’assemblea plenaria conclusiva

Il movimento che tutti stiamo vivendo e che abbiamo contribuito a generare è un movimento straordinario. L’Onda ha fatto irruzione nel nostro presente e nel presente di questo paese, mutando una scena, quella del governo delle destre, che sembrava suggerire solo senso di sconfitta e desolazione. La rottura definita dall’Onda ha infranto equilibri tutt’altro che marginali. Nel giro di poche settimane la popolarità del governo è profondamente diminuita; il movimento, intanto, è riuscito a codificare, con un linguaggio comprensibile ai più, un rifiuto esplicito della crisi economica globale. L’unità concertativa dei sindacati confederali sembra per adesso un ricordo lontano, mentre il 12 dicembre la Cgil propone uno sciopero generale di tutte le categorie. Non è tutto merito del movimento, indubbiamente, è senz’altro vero, però, che senza questo movimento tutto ciò non sarebbe stato possibile.
Uno spazio enorme si è aperto, uno spazio conquistato dall’onda, dalla sua forza, uno spazio che ci consegna una grande sfida politica. Ci siamo detti in più occasioni, infatti, che questo movimento non vuole perdere: un movimento nuovo, una grande marea generazionale, che vuole riconquistare il futuro di cui è stata derubata. “Ci bloccano il futuro e noi blocchiamo la città”: non solo uno slogan, un modo nuovo per l’università, di praticare il conflitto.
Un conflitto che parla non tanto e non solo del rifiuto dei tagli previsti dalla legge 133; piuttosto un conflitto in grado di contrapporre forza all’arroganza di chi vuole imporre la crisi socializzando le perdite di banche e imprese. Dopo anni di politiche neo-liberiste d’improvviso si riscopre il debito pubblico, un debito pubblico che viene utilizzato per sostenere i privati e che penalizza ancora i giovani, i precari, la società tutta. Si taglia il welfare, dopo che già tanto si era e si è fatto in questi anni nel senso della privatizzazione dei servizi. La sfida politica che questo movimento ha posto è come sottrarre l’università pubblica all’attacco finale che la finanziaria Tremonti e il governo Berlusconi in generale hanno disposto. Un attacco ben preciso che parla di una forma altrettanto definita di sviluppo, che individua come priorità la salvaguardia di un modello economico fallimentare invece di investire sulla formazione, sull’innovazione, sulla ricerca, in una parola sul nostro futuro. Una politica economica ben definita dalle legge 133 che prevede una serie di provvedimenti “volti a razionalizzare la spesa e il debito pubblico” tagliando indiscriminatamente scuola, servizi e università. E ancora, insieme alla drastica riduzione del personale, si prevede la possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazione di diritto privato, cancellando così il carattere pubblico dell’istruzione, ovvero la sua qualità essenziale e un nostro diritto fondamentale. Un movimento che non accetta rappresentanza, ci siamo detti a più riprese. Un movimento che guarda al cambiamento e che sa che il cambiamento non è delegabile, va agito da subito, nel pieno delle forme di auto-organizzazione e nel conflitto. Un movimento che ha saputo esprimere in modo chiaro e inequivocabile il suo antifascismo e di concerto la sua capacità di parlare alla società tutta, partendo dalla sua specificità ma con la tensione ad allargare quanto più possibile i temi della mobilitazione. Non solo: questo è un movimento che sta sperimentando nuove forme di organizzazione, superando anche qualsiasi forma di rappresentanza interna al movimento stesso.
Partiamo da quello che il movimento è già riuscito a determinare. La controffensiva del Governo infatti non è altro che il tentativo, mal riuscito, di far fronte all’evidente crisi (anche di consenso) prodotta dalla forza delle mobilitazioni. Il progetto di riforma presentata dal ministro Gelmini, pur attestandosi su una frettolosa e confusa retromarcia, cerca tuttavia di riproporre i punti centrali del complessivo progetto di dismissione dell’università: il taglio dei finanziamenti viene ora giustificato dalle retoriche della differenziazione, dell’efficienza e della meritocrazia, che altro non sono se non i processi di dequalificazione dei saperi, di gerarchizzazione e declassamento contro cui il movimento sta lottando. Pur predicando il cambiamento il progetto di riforma del Governo rafforza i privilegi della casta baronale e la difesa dello status quo, scaricando su studenti e precari la doppia crisi, quella dell’università e quella economica. Ciò è dimostrato dalla proposta, proveniente da più parti, di innalzamento delle tasse universitarie, che possono essere pagate solamente attraverso l’introduzione massiccia dei cosiddetti prestiti d’onore. In realtà si tratta del ricorso a quel sistema del debito pienamente sviluppato nel mondo anglosassone che è alla radice dell’attuale crisi globale.
Ancora una volta il Governo e il suo think tank, non fanno altro che proporre l’importazione di ricette e modelli già falliti altrove.
Dunque, gli unici alleati del Governo all’interno del mondo della formazione, sono in realtà quei baroni che a parole dice di voler combattere. In questo contesto l’unica forza di trasformazione è il movimento, che non solo si oppone ai tagli della legge 133, ma sta già costruendo le basi per un’altra università. Laddove Stato e Mercato lavorano congiuntamente alla dismissione dell’università, l’Onda Anomala lancia immediatamente la sfida dell’autoriforma.
Chiariamo: per autoriforma non intendiamo la definizione di un insieme di proposte tecniche da consegnare al legislatore di turno o a qualche attore specializzato nella mediazione politica o sindacale.
Per autoriforma intendiamo al contrario un processo costituente aperto, modificabile e implementabile che organizza quella potenza di conflitto e autorganizzazione nella produzione dei saperi già presente in queste straordinarie settimane di mobilitazione, blocchi e occupazioni. La sfida, in altri termini, non si esaurisce nell’opposizione alla legge 133 e al futuro disegno di riforma, ma aggredisce immediatamente l’università esistente. Il fallimento del modello del 3+2 e dei tentativi di misurazione del sapere attraverso il sistema dei crediti, è stato determinato dalla diffusa indisponibilità degli studenti ad accettare i meccanismi disciplinari e la continua dequalificazione della formazione contenuti nella riforma Berlinguer-Zecchino.
L’autoriforma quindi non è una semplice carta di intenti, né tantomeno un tentativo di burocratizzare l’irrappresentabilità del movimento. L’autoriforma è invece l’apertura di un processo che già vive nelle pratiche del movimento, è un passaggio di consolidamento delle forme di autorganizzazione e un rilancio degli elementi del conflitto. L’unica verifica per questo processo, è la capacità di tradurre da subito l’autoriforma in concreti elementi di programma e di agenda politica.
Il movimento di queste settimane, che ha coinvolto tutto il settore della formazione e dell’istruzione, nasce da una parzialità per parlare il linguaggio della generalizzazione.
“Noi la crisi non la paghiamo” condensa istanze e rivendicazioni che vanno oltre i confini classici di scuola e università, per porre immediatamente le questioni del lavoro, del welfare, della precarietà e della libertà.
È su questo piano di generalizzazione che il movimento lancia la sua sfida anche verso il prossimo sciopero generale.

Primo workshop: la didattica

La complessità emersa nell’ambito di una discussione sull’autoriforma della didattica, ha messo in luce la molteplicità di articolazioni possibili tramite le quali immaginare una ristrutturazione dei processi didattici, cosi da poterli ripensare come non piu asserviti alla logica di disciplinamento introdotta dall’università del 3+2. Al tempo stesso queste differenze e pluralitá attestano tanto l’inevitabilità di contestualizzare queste riarticolazioni a contesti specifici, quanto la necessità diffusa di ripensare una trasformazione radicale dei processi formativi.
Infatti, pur nelle differenze é emersa una chiara e totale opposizione al modello definito in Italia dal 3+2. Dall’assemblea si é prodotto quindi un dibattito complesso, espressione dell’esigenza dei differenti nodi di affrontare una discussione progettuale sull’autoriforma della didattica che dovesse tenere conto dell’articolazione di un confronto assembleare dal quale potessero risaltare la volontà di avviare un processo costituente e non di arrivare ad una definizione finale ed univoca delle pratiche che nell’attraversamento quotidiano delle facoltá e degli atenei giá aprono spazi di riappropriazione e decisione.
Da questo punto di vista sono emersi punti di convergenza vertenziali tra le differenti realtá.
1) Abolizione del sistema del 3+2 così come del sistema del credito. Da questo punto di vista si è prodotto un dibattito non sintetizzabile sulle modalità attraverso cui raggiungere l’obiettivo.
2) Critica alla parcellizzazione degli esami e proposte di riaccorpamento per favorire un sapere critico e complessivo
3) Rivendicazione di un’equa retribuzione del lavoro svolto in stages e tirocini: in ogni caso va garantito il carattere facoltativo degli stessi.
4) Critica della meritocrazia e sua applicazione in Italia. Non devono esistere poli di eccellenza contrapposti al resto delle universitá, a maggior ragione se autoproclamati come nel caso dell’AQUIS. In secondo luogo si è svolta una critica ai parametri di valutazione schiacciati sulla produttivitá, e nello stesso tempo si sono proposte nuove forme che privilegiassero la valutazione dal basso e la qualitá.
5) Abolizione dei blocchi all’accesso e lungo il percorso di formazione superiore. I blocchi devono essere eliminati sia come sistema di esclusione dal diritto allo studio, sia come filtri progressivi di stratificazione sociale.
6) Abolizione della frequenza obbligatoria come strumento di controllo sui tempi di vita e di studio.
7) Revisione dei piani di studio nella direzione di una conquista di una maggiore libertà dei propri percorsi formativi.
8) Le università del sud Italia hanno posto ulteriori motivazioni alla necessità della natura pubblica dell’università. La specificità dei loro territori pone l’accento su una massiccia corruzione.

Il dibattito del workshop è stato attraversato da un’analisi comune: quello di concepire il processo di autoriforma non come un disegno organico o un intervento legislativo, ma come il recupero di spazi di decisione diretta da parte degli studenti. Questo ha significato critica alla rappresentanza studentesca, ai processi di gerarchizzazione dell’amministrazione universitaria, e necessità dell’organizzazione autonoma del conflitto: riappropriazione di spazi (biblioteche, laboratori, aule autogestite, etc.) e di tempo, diffusione critica e autonoma del sapere.

Accanto a questo si è sviluppato un dibattito articolato e aperto sulla proposta dell’autoformazione: questa è una tra le varie pratiche sperimentate per l’inflazionamento e il sabotaggio del sistema del credito. La discussione su modalità autogestite di didattica ha dato spunto per proporre e approfondire la didattica partecipata, e che, in ogni caso, destrutturasse un rapporto gerarchico e verticale nella trasmissione del sapere: così come ha posto molta attenzione alla formazione non come accumulo indistinto di nozioni, ma come produzione di sapere critico.

Concludiamo ricordando l’indicazione di metodo rispetto al proseguimento delle lotte indicate durante questi due giorni: la cooperazione nasce dal dibattito propositivo e non ideologico tra le varie realtá che sperimentano in maniera autonoma conflitto dentro l’università.

Secondo workshop: welfare e diritto allo studio

Il workshop di ieri è stato partecipato da circa un migliaio di persone, al pari degli altri due. Si tratta, evidentemente, di un dato eccezionale dal punto di vista della quantità, in piena continuità con l’assemblea nazionale nel suo complesso e con queste straordinarie settimane di mobilitazione che stiamo vivendo. Ma c’è di più. Il dato della discussione di ieri è eccezionale anche dal punto di vista qualitativo. I quasi cento interventi da tutte le città che si sono susseguiti per più di sette ore di intensa discussione segnano un deciso e importante passaggio in avanti nell’elaborazione collettiva e nella costruzione di agenda politica su temi assolutamente decisivi per il movimento.
Lo slogan che attraversa e che maggiormente caratterizza le mobilitazioni universitarie, “Noi la crisi non la paghiamo”, definisce già con chiarezza la centralità delle questioni del Welfare e del lavoro dentro la riflessione politica e i processi di conflitto che si sono dati nelle mobilitazioni di queste settimane.
Sulla crisi finanziaria globale si registrano varie interpretazioni, talora contrastanti anche negli stessi ambiti del pensiero critico e radicale. In questo workshop, com’è stato più volte ribadito, il nostro obiettivo non era la definizione in termini di analisi di genealogia e tendenze dell’attuale crisi: essendo questo un tema di straordinaria importanza e attualità, preferiamo a tal fine proporre fin da subito la costruzione di uno o più momenti seminariali. Il nostro punto di partenza è stato invece la definizione del carattere politico e il terreno di lotta che attorno al tema della crisi si apre, più precisamente sul problema della decisione della distribuzione della ricchezza sociale in un contesto che dalla crisi è profondamente segnato.
Il presente movimento si muove all’interno di una doppia crisi: quella finanziaria e quella dell’università. Quest’ultima in Italia assume caratteristiche peculiari, determinate dallo storico disinvestimento nel sistema dell’istruzione e della ricerca, e dalle strategie di smantellamento operate dai governi di centro-destra così come da quelli di centro-sinistra.
In questo quadro, come emerso dalla discussione, i processi di aziendalizzazione dell’università e i tagli dei finanziamenti alla ricerca e alla formazione si accompagnano all’aumento delle spese di guerra, ai fondi statali regalati alle imprese private, al piano salva-banche. La retorica degli sprechi e del contenimento del debito pubblico, abbondantemente utilizzata dal Governo nel tentativo di giustificare i tagli mortali contenuti nella legge 133, rivela qui infatti la sua natura puramente ideologica.
Tutto ciò, soprattutto, permette di individuare nell’università un terreno di lotta di particolare importanza, a partire da cui produrre dei processi di generalizzazione del conflitto. La parola d’ordine “noi la crisi non la paghiamo” indica quindi non una semplice istanza espressa da un particolare soggetto sociale, ma la sua capacità di parlare il linguaggio dell’intera composizione del lavoro e del precariato contemporaneo, proprio in virtù della centralità di studenti e saperi nelle forme attuali della produzione. Quello della generalizzazione è uno dei punti particolarmente sottolineati nel corso della discussione, come posta in palio delle possibilità di sviluppo dello straordinario movimento che sta stravolgendo le compatibilità che si credevano imposte dal governo Berlusconi. Non a caso, la Cgil è stata costretta a indire lo sciopero generale sotto la spinta e la forza dell’onda.
Nel workshop si è prodotta una ricca discussione che ha permesso di fare un importante passo in avanti, di analisi e di merito politico, nella riconfigurazione del diritto allo studio e nelle battaglie attorno ad esso. L’attacco al diritto allo studio non assume più solo i tratti classici dell’esclusione, ma dei nuovi processi di selezione e inclusione differenziale direttamente interni al sistema universitario.
Laddove i diritti sociali non sono più garantiti dal welfare pubblico, l’indebitamento rappresenta una costrizione per continuare a soddisfare bisogni collettivi, quali ad esempio la formazione e l’accesso ai saperi. Nonostante l’irrisorio e propagandistico stanziamento di fondi per le borse di studio, strettamente regolato dal sistema meritocratico, il progetto complessivo di trasformazione dell’università va nella direzione di un aumento delle tasse d’iscrizione. In questo contesto, se il diritto allo studio è certamente garantito dalla Costituzione, esso è di fatto non solo disatteso nella pratica, bensì nel nuovo contesto produttivo assume nuove caratteristiche. Infatti, un numero crescente di persone entra nel sistema dell’istruzione superiore nella misura in cui sono costrette a indebitarsi e si dequalificano i saperi a cui hanno accesso. I processi di lotta si spostano quindi sul piano del mercato del lavoro (sempre più regolato e intrecciato alla produzione di saperi e formazione), dei processi di gerarchizzazione e del welfare.
Di pari passo, il diritto allo studio si riconfigura come battaglia sulla qualità dei servizi e riqualificazione e autogestione dei saperi. Allora, prendendo anche atto del fallimento delle agenzie per il diritto allo studio, la lotta contro l’aumento delle tasse e la liberalizzazione dell’accesso, si deve accompagnare a una battaglia sulla qualità dei servizi, contro i numeri chiusi, per il non ripagamento dei prestiti d’onore (ovvero il sistema italiano del debito, ancora non pienamente affermato ma in via di tendenziale espansione).
Una battaglia, quindi, contro qualsiasi tentativo di scaricare su studenti e precari i costi della crisi finanziaria e dell’università. La crisi la paghino invece le banche e le imprese, i governi e i baroni, oggi tutti alleati ben al di là delle retoriche su sprechi e corruzione.
Se la sfida lanciata dal movimento ha nell’università un terreno privilegiato, deve al contempo riuscire a generalizzare le proprie istanze per poter aprire un terreno di più complessiva lotta sul welfare. Da questo punto di vista, è stato evidenziata l’inesistenza in Italia di ammortizzatori sociali e strumenti di sostegno al reddito per gli studenti e i precari. Occorre allora reclamare anche in Italia forme di erogazione, dirette e indirette, di reddito per gli studenti e i precari che vadano nella direzione dell’autonomia e dell’indipendenza e del rifiuto delle forme di precarizzazione.
La discussione ha elaborato delle proposte di agenda e campagna politica verso lo sciopero generale e generalizzato del 12 dicembre e oltre.

Terzo workshop: Ricerca, Formazione e lavoro

Ricerca, formazione, lavoro. Questi i temi di cui abbiamo discusso durante la giornata di ieri, dal nostro punto di vista, dal punto di vista dell’onda. Abbiamo chiamato il nostro percorso autoriforma, autoriforma dal basso dell’università. Autoriforma dal basso per noi e’ travolgere questa università, attraversarla con i nostri desideri e le nostre proposte, proposte che
vogliamo costruire a partire dalla comprensione della sua crisi e del suo rapporto con la società.
Una crisi esplosa da tempo e approfondita da un quindicennio di pessime “riforme” volte ad aziendalizzazione e privatizzazione dell’università, che i provvedimenti di questo governo trasformano in catastrofe. Pensiamo al taglio del FFO, al blocco del turnover , ma soprattutto alla trasformazione degli atenei in fondazioni di diritto privato, alle sue conseguenze in termini di discriminazione di censo nell’accesso a un’istruzione di qualità e di destrutturazione dell’intero Sistema universitario nazionale. Effetti che non potranno non aggravare le già critiche condizioni della scuola di ogni ordine e grado.
Non dimentichiamo però le responsabilità di chi l’università ha gestito con meccanismi corporativi e clientelari, di chi soffoca la ricerca per mezzo di un’opprimente gerarchizzazione, di chi ha costruito un sistema fondato sullo sfruttamento generalizzato del lavoro precario, di chi ha oramai accettato l’idea di un drastico restringimento dell’accesso a un’istruzione pubblica di qualità. Il nostro obiettivo è stanare e denunciare queste aberrazioni ovunque si manifestano, conoscerle per scardinarle. E’ superare il cosiddetto 3+2, contrastare i suoi effetti di frammentazione e scadimento della didattica funzionali allaproduzione di lavoratori precari e ricercatori al servizio del privato o dell’impresa di turno.
In due mesi di mobilitazioni abbiamo dimostrato di non avere alcuna intenzione di lasciarci incantare dalle false aperture del ministro Gelmini o chiuderci nel recinto di uno studentismo vuoto e arrogante. Abbiamo gridato dalle piazze di tutta Italia la nostra consapevolezza che solo l’unione e la generalizzazione di proteste particolari può rovesciare quei rapporti di forza che schiacciano il mondo dell’istruzione e della ricerca tanto quanto quello del lavoro. Solo il continuo coordinamento e allargamento della protesta potrà portare a un reale cambiamento nelle politiche del governo e per questa ragione aderiamo allo sciopero generale indetto per il 12 dicembre con la promessa di farlo vivere nelle nostre metropoli e in qualunque luogo
raggiunto dall’Onda. Il nostro sciopero sarà dunque all’insegna della generalizzazione delle mobilitazioni, della lotta contro la precarietà e per l’abolizione di tutte le forme di lavoro parasubordinato contenute nella legge 30, contro ogni discriminazione di genere, cultura e razza, contro la criminalità organizzata che strangola il nostro Sud e sempre più anche il nostro Nord.
Autoriforma è il percorso concreto di elaborazione, d’inchiesta e di conflittualità che mette in crisi il sistema attuale, che propone un modello diverso di università attraverso una critica radicale dell’esistente. Vogliamo costruire un’università pubblica, democratica ed accessibile a tutti. Per questo sentiamo l’urgenza, in questa fase di crisi profonda del modello sociale ed economico neoliberista, di un’università che sappia dare il suo contributo alla costruzione di un nuovo e più equo modello di sviluppo. Il nostro punto di partenza sarà l’analisi della ricerca concretamente prodotta dalle nostre università ed enti, delle sue ricadute sul territorio, la creazione di sapere critico e la moltiplicazione delle esperienze di autoformazione e didattica alternativa cui abbiamo dato vita nelle nostre mobilitazioni.
1) L’indipendenza e l’autonomia della ricerca sono per noi principi fondativi. La ricerca non deve essere subordinata a logiche di mercato: le risorse e le strutture pubbliche dalle quali essa dipende non possono essere messe al servizio di interessi privati. Il sapere è un bene pubblico, una produzione collettiva e per questa ragione non appropriabile: i suoi risultati devono essere socializzati, ossia posti al servizio dell’intera società. Per questo riteniamo essenziale lo sviluppo di forme non commerciali della loro tutela (GPL/Creative commons) in contrapposizione al brevetto nonchè il sostegno all’editoria scientifica open source ed una stretta sinergia tra ricerca e didattica. Siamo però consapevoli che l’emergenza attuale ha tra le sue cause principali il cronico sottofinanziamento delle attività di ricerca, che deve essere portato almeno ai livelli indicati dal Trattato di Lisbona (3 per cento del Pil contro l’attuale 1 per cento). E poichè una ricerca libera non può esistere senza ricercatori autonomi e indipendenti da ogni condizionamento, la democratizzazione dell’accesso ai fondi e la sua apertura ai ricercatori non strutturati e ai dottorandi è per noi condizione irrinunciabile.
2) L’autonomia della ricerca e la qualità dell’università pubblica non possono essere disgiunte dalla realizzazione di un nuovo concetto di valutazione. Tale concetto, più complesso della combinazione di indici presuntamente quantitativi, non deve essere legato al contenimento del bilancio, alla produzione di brevetti o al semplice numero delle pubblicazioni. Pensiamo che la valutazione debba essere intesa anche come rendicontazione sociale delle attività degli atenei e del sistema nel suo complesso, che non possa prescindere dai contesti territoriali in cui le università sono inserite. Contemporaneamente, ribadiamo che anche docenti, ricercatori e dottorandi dovrebbero essere coinvolti nei processi di valutazione. Gli esiti della valutazione della didattica e della ricerca dovrebbero condizionare la distribuzione di parte dei finanziamenti per gli atenei sia nella distribuzione dei finanziamenti ai singoli.
3) Il problema del reddito è sicuramente trasversale a tutto il corpo vivo dell’università: studenti dottorandi e ricercatori precari. Al lavoro di ricerca, perchè di lavoro si tratta, devono corrispondere un salario adeguato e i diritti stabiliti dallo statuto dei lavoratori. La moltitudine di tirocini, stage e praticantati tutti rigorosamente non retribuiti non sono più tollerabili, cosi? come la dilagante attività didattica a titolo gratuito. Ogni prestazione deve essere contrattualizzata al più come forma di lavoro subordinato a tempo determinato e in tal caso deve essere garantita la continuità del reddito, diritto fondamentale di cui chiediamo l’estensione a tutti i lavoratori precari. Non solo, commossi dall’attenzione del ministro Gelmini alle condizioni degli edifici scolastici, rivendichiamo ambienti idonei di studio, lavoro e ricerca.
4) Il dottorato di ricerca è il più alto grado dell’istruzione italiana e contemporaneamente l’introduzione all’attività di ricerca. Vanno dunque garantiti adeguati percorsi didattici e il diritto all’autonomia economica. Questo significa in particolare l’immediata soppressione dei dottorati senza borsa e il pagamento di tasse di iscrizione. I dottorandi dovrebbero vedere riconosciuti i loro diritti per mezzo di uno statuto nazionale a loro dedicato. Per quanto riguarda le specializzazioni è emersa la necessità di nuove procedure concorsuali trasparenti. Le mansioni affidate agli specializzandi non devono mai oltrepassare le competenze previste dalla legge.
5) Per quanto riguarda la spinosa questione del reclutamento, ribadiamo la nostra ferma opposizione al blocco del turnover. Ma questo non ci basta, dopo anni di blocco dell’accesso ai giovani che ha esasperato la precarietà e incentivato la fuga dei cervelli. Chiediamo l’istituzione di un contratto unico di lavoro subordinato una volta terminato il dottorato, di durata non inferiore ai due anni: esso deve sostituire l’attuale jungla di “contratti” precari. Tali misure non avrebbero tuttavia alcun senso senza un consistente reclutamento straordinario via concorso, che deve essere seguito da un reclutamento ordinario via concorso costante nel tempo. Per quanto concerne l’inquadramento della docenza, chiediamo l’istituzione di un ruolo unico e l’incompatibilità della libera docenza con contratti di diritto privato.
6) I ricercatori precari, essenziali al funzionamento di tutte le università italiane, sono completamente assenti dagli organi decisionali delle stesse. E’ questo un elento chiave della gerarchizzazione del lavoro di ricerca e didattica. Come ogni altra categoria nell’università, i ricercatori precari e i dottorandi devono partecipare ai processi decisionali tramite i loro
rappresentanti eletti.
7) L’Onda ha già valicato i confini nazionali. In tutta Europa si sono svolte manifestazioni di solidarietà al movimento italiano. Questo fatto ci parla della dimensione transnazionale dei problemi che stiamo affrontando. Il lavoro di ricerca prevede la mobilità come elemento irrinunciabile ma continuamente ostacolato dalle differenze dei diversi sistemi nazionali.
Spesso le riforme, sgradite a chi l’università la vive, sono state giustificate in nome di una presunta volontà di integrazione a livello europeo. Vogliamo sottolineare che uno spazio europeo della ricerca ancora non esiste e che il movimento deve assumersi la responsabilità di cominciare a crearlo, non attraverso la normazione astratta ma attraverso la circolazione delle
idee e delle lotte.
8) L’osservazione dei diversi modelli di sistema universitario presenti al momento in Europa ci permette di rigettare immediatamente alcune ipotesi di sviluppo, come il modello anglosassone e il principio del debito di formazione, già ampiamente entrato in crisi in Inghilterra e negli Stati Uniti. In quest’ottica proponiamo la convocazione di una riunione europea che metta in circolo le diverse vertenze sviluppate dai movimenti di studenti e ricercatori precari.
9) Questione di genere nella ricerca. Nella ricerca rimane aperta la stessa questione di genere che troviamo ovunque nel mondo del lavoro: da una parte la progressione dei carriera delle donne è fortemente filtrata ai livelli più bassi, dall’altra le donne subiscono il perenne ricatto biologico, aggravato dalla precarietà, per cui la maternità diventa in realtà la via di espulsione dal mondo della ricerca.
10) Se infatti autoriforma è anche e soprattutto un percorso condiviso di lotte questo workshop ha espresso una molteplicità di strade che possono essere percorse a livello locale e nazionale:
- Se il precariato è il problema di questa generazione una grande inchiesta sul lavoro precario nell’università ci sembra fondamentale, che porti ad un censimento a livello nazionale che ci permetta di tradurre nella forza dei numeri l’enormità del fenomeno
- La congiunzione con la protesta della scuola
- Appello studenti, dottorandi e precari per lo sciopero generale/gli scioperi generali.
- Coordinamento con la scuola (insegnanti, genitori, precari, anti137, nogelmini, circoli genitori-insegnanti-universitari)
- Azioni locali contemporanee e condivise da tutto il movimento.
- Giornata nazionale della ricerca.
- Vertenze locali comuni studenti, ricercatori precari
- Sviluppare vertenze per l’Applicazione della Carta europea della ricerca.
- Iniziative di apertura verso l’esterno , nel territorio, di apertura dell’università alla
cittadinanza, ai bambini delle scuole, alle famiglie, ai lavoratori. Seminari in piazza ecc.
- Gruppo di studio sulla valutazione.
- Occorre sviluppare una critica di tutti gli strumenti di governance universitari a partire dalla fondazione di diritto privato CRUI e dell’autoproclamato circolo dei migliori atenei d’Italia, AQUIS
- Promuovere una assemblea Europea

Una molteplicità di strade ma molte di più, pensiamo, sono quelle che usciranno dalla fantasia di questo movimento, dalla forza della partecipazione che lo sta facendo vivere, dalla capacità di sperimentare percorsi nuovi che ha mostrato in questi giorni di mobilitazione.
Il movimento deve durare, sappiamo che la nostra lotta avrà tempi lunghi ma sappiamo anche che, almeno per questo paese, è una grande occasione e grande speranza.

17 novembre 2008

Lettera a Carlotto

In questo momento della vita di molti di noi, in cui la gioia di abitare un luogo dove le proprie idee e aspirazioni per un mondo migliore hanno finalmente trovato un loro spazio, si mischia alla triste
consapevolezza di quanto lunga e faticosa sarà la strada da percorrere per riuscire a farsi sentire in questa società narcotizzata, le parole di Carlotto aprono il cuore e lo riempiono di “affetto”. Non siamo poi così soli, non siamo poi così pochi, né tanto meno così lontani. Ed uno dei compiti da portare avanti, parallelamente alle lotte, è quello di riconoscerci e conoscerci ovunque siamo.

E’ vero, quindi, caro Massimo “dobbiamo avere il coraggio di cambiare completamente il nostro modo di comunicare”. E, per farlo, il primo passo è quello di uscire di casa, avere la forza di staccarsi dall’unico luogo dove ci sentiamo sicuri, protetti e amati. Ma questo non è ugualmente praticabile per tutti. Anche per “uscire di casa” sono necessarie non poche risorse, culturali, relazionali e, non ultime, economiche. Capisco e condivido il tuo attacco alla televisione e soprattutto all’uso che ne fanno i politici, ma penso anche che essa sia, oggi più che mai, lo strumento più democratico che esista per comunicare con coloro che non sanno neanche cosa sia un blog, che non leggono, e che meno che mai vanno a teatro o a cinema per vedere un documentario. Quindi un impegno maggiore per “occuparla”, per far sì che quanto di buono si riesce a fare e a vedere esca dall’attuale collocazione di nicchia, va tentato in ogni modo. Anche la televisione pubblica è un “territorio” per il quale lottare, la prospettiva che venga del tutto consegnata a coloro che ne sono oggi i padroni, più o meno occulti, mi atterrisce.

Uscire di casa però significa anche, come sottolinei giustamente, coltivare “nuove forme di relazioni umane”, un rinnovato impegno non solo nel condividere le lotte, ma anche e soprattutto nell’agire sociale in senso più lato.
Ed è così che da circa un mese, ad esempio, ho iniziato un’attività di doposcuola per i bambini del mio quartiere (a composizione prevalentemente popolare) che frequentano le scuole elementari. Si sta rivelando un’esperienza molto bella, ma anche difficile per me che non ho avuto figli e so poco di come rapportarsi ai ragazzini di 9, 10 anni. L’altro pomeriggio però, dopo l’ultimo incontro in cui le tre ragazzine che sto seguendo mi avevano accolto con baci, abbracci e disegni in regalo, è arrivata la doccia fredda: due di loro da alcuni giorni non stanno andando più a scuola e non per motivi di salute. Solo l’idea che due bambine (e sottolineo il fatto che si tratti di due femminucce) possano abbandonare la scuola senza neanche aver preso la licenza elementare mi ha fatto venire la pelle d’oca. Ho pensato a come comunicare con i genitori, gli insegnanti e le bambine stesse per scongiurare questa eventualità e mi sono un po’ avvilita, temendo la mia inadeguatezza. Ma soprattutto ho anche pensato, più in generale, che per comunicare con qualcuno e convincerlo, ad esempio come dici tu che “abbiamo ragione e che è bello, giusto, lungimirante e socialmente conveniente schierarsi con noi”, andrebbero create le condizioni per far sì che un numero sempre maggiore di persone acquisisca gli strumenti per comprendere e scegliere consapevolmente.
Chi frequenta un blog o va a teatro probabilmente già li ha, mentre tra tutti quelli che non frequentano questi luoghi (e forse vedono tanta televisione) ce ne sono molti che non li hanno affatto ed è innanzitutto con questi che sarebbe necessario imparare a comunicare.