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18 febbraio 2008

Convegno “Arcipelago Napoli: costruire ponti per pensare una città diversa”, Promosso da “Cantieri Sociali” e da “Carta”, Sabato 9/Domenica 10 febbraio.


Cittadinanza sociale, impegno nei territori: illusione di vecchi e nuovi reduci o strategia plausibile per un’altra politica?


Intervento di Dino Greco


Parafrasando un celebre motto si potrebbe dire che la confusione sotto il cielo è grande, ma la situazione non è affatto eccellente. Detto molto ruvidamente: se la sinistra vuole costruire una chance per questo paese, prima che per se stessa, occorre che si disponga a fare molta fatica e a cambiare molto. E non covare l’illusione di scorciatoie elettorali miracolistiche, rivincite a breve che non ci saranno.

Vi propongo una chiave di lettura (non la sola) e una possibile via d’uscita (non l’unica) dal mio particolare punto di osservazione, dichiaratamente e consapevolmente parziale, quello di un sindacalista.

Utilizzo per comodità una data cruciale, quella del 23 marzo 2002. C’era già stata Genova, con tutto ciò che quella vicenda ha rivelato della crisi democratica e della svolta autoritaria in atto nel paese. Bene, in quel giorno di marzo, chiamati dalla Cgil, milioni di lavoratori, di cittadini, una massa enorme di popolo confluisce a Roma. L’attacco all’articolo 18 dello statuto dei lavoratori diviene il simbolo di una risposta corale. C’è in campo un’Italia diversa da quella che governa e che ha già mostrato il suo volto liberticida e che aveva già tentato di travolgere la democrazia manu militari. Bene, quella stagione non fu una grande illusione. Lì viveva una grande domanda di cambiamento che si era espressa all’indomani di una dura sconfitta politica. Quella fu a mio avviso l’ultima (fino ad oggi) occasione di creare in Italia una grande sinistra, una sinistra sociale, popolare, non un cartello elettorale. Una sinistra capace di aprire alla società italiana la prospettiva di una possibile riforma intellettuale e morale. Fu un movimento che ebbe una magnitudine vastissima: dalla Cgil ai girotondi di Flores D’Arcais, dalla sinistra sociale ai collettivi, alla gente normale, ad un ceto intellettuale che aveva intravisto la possibilità di alzare un argine alla degenerazione morale, politica, alla deriva autoritaria, gretta ed ignorante del paese. Una prospettiva nella quale nuovamente si incontravano e si saldavano diritti, democrazia, partecipazione.

Quella fu l’occasione che la sinistra politica non seppe cogliere, con la quale non seppe entrare in risonanza dando sbocco a quella straordinaria domanda. Fu così vanificata la possibile saldatura politica e sociale intorno al lavoro che si era tolto dall’angolo e che si era proposto, dopo una lunga eclisse, come il collante possibile di un processo di trasformazione profonda. La possibilità fu reale. Se ci fu un’illusione, come ha notato recentemente Mario Tronti, fu quella di avere trovato lì un leader politico.

Alla base della crisi successiva, che tuttora dura, c’è questa incapacità, questa asimmetria. Per cui il successo elettorale del centro-sinistra (per una incollatura) che incassa comunque i frutti di quel movimento, avviene a conclusione di una sconfitta culturale e politica che era già nelle cose. Si pensi -per ricordare un solo episodio- alla posizione di tutta la sinistra moderata contro il referendum per l’estensione del campo di applicazione dell’articolo 18.

L’azione concreta del governo Prodi è stata avvertita -nei fatti- come la sconfitta delle istanze espresse dall’aggregazione di massa di quegli anni: quella domanda non si fa governo perché al governo è andato in realtà un altro progetto, quello che aveva in gestazione nel suo seno il PD e che poco o nulla aveva a che fare con le motivazioni profonde che stavano alla base di quel movimento di massa.

Da quel momento, il sindacato stesso, la Cgil, piuttosto che contrastare quella disillusione, quella deriva che ha via via accentuato la rinuncia alle istanze di cambiamento, farà rifluire la sua azione dentro quel quadro, senza provare davvero a forzarne i limiti, riscoprendo anzi forme di collateralismo consociativo che ne hanno paralizzato l’azione, corrodendo quel patrimonio di credibilità e quella autonomia politica del sociale che aveva così potentemente contribuito ad accendere speranze, a mobilitare energie vitali.

La situazione attuale vede conformarsi un bipolarismo politico, dove i due partiti maggiori sono sì fra loro concorrenti, ma non davvero alternativi, cioè fondati su paradigmi, su progetti antagonistici. Medesimo è l’ancoraggio al mercatismo, al monetarismo, ad un interclassismo che non riconosce più classi, ma solo -genericamente- individui o, più prosaicamente ancora, consumatori.

Nella politica che ha provato a governare l’Italia in questi due anni non c’è il bagaglio di idee capace di proporre una diversa e originale impostazione del rapporto fra economia e politica, fra politica e società, una diversa cultura democratica. C’è la sostanza del liberismo, il primato dell’impresa, in una babele sociologica dove tutti sono genericamente lavoratori, i datori di lavoro quanto i loro dipendenti: una melassa dove tutto si confonde e si inscrive nelle coordinate della modernizzazione. Solo che vati e mentori di questa modernizzazione non sono Maynard Keynes o il John Dewej ispiratore del new deal roosveltiano, ma Tito Boeri, i professori della Bocconi, quel Pietro Ichino che ancora ieri l’altro lanciava anatemi durissimi contro i blocchi stradali dei metalmeccanici nel nome della civiltà.

L’esito è disastroso. Farò tre esempi, fra i tanti possibili, che illustrano i tratti della cultura dominante: a) L’articolo 41 della Costituzione (parte di quel titolo terzo della Carta cui Giuseppe Di Vittorio diede un determinante contributo) recita: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi (si noti la formula imperativa, ndr) in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Al punto che “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possano essere coordinati e indirizzati a fini sociali”. Dunque i fini sociali sono sovraordinati rispetto agli interessi privati di qualsivoglia natura. Non a caso per salvaguardarli la Costituzione giunge sino a mettere in discussione i rapporti di proprietà (articolo 43). Ma nella realtà, nella costituzione materiale, nell’ideologia condivisa, l’articolo 41 è stato così riscritto: “La sicurezza, la libertà, la dignità umana devono essere tutelate purchè non entrino in contrasto con la libera attività economica, con gli interessi degli investitori, con la remunerazione del capitale, con la competitività dell’impresa, ecc.”. Di qui l’uso spregiudicato della flessibilità del lavoro, la spoliazione dei diritti, la riduzione del lavoro a merce, fino al lavoro servile, lo smantellamento del diritto del lavoro e la sua sostituzione con il diritto commerciale, adatto alla transazione di cose, ma non alla relazione fra persone. Per questo proprio non ce la fanno a cancellare la legge 30!

b) La sicurezza. Ovvero, la più malata delle parole, non meno di quanto lo siano riforme e riformismo. Una volta, la parola sicurezza si declinava come sicurezza sociale, come universalismo dei diritti di cittadinanza (sussistenza, sanità, previdenza, istruzione), come inclusione. Oggi, sicurezza vuol dire essenzialmente militarizzazione della politica interna, fondata sulla paura come fattore di identità collettiva. La paranoia sociale è eretta a collante identitario. Ma paura di chi e di che cosa? Paura di una criminalità identificata, di volta in volta, con lavavetri, graffitari, posteggiatori abusivi, Rom, migranti in genere. Una paura che si traduce in lotta senza quartiere alla marginalità. Così scopriamo che al posto dei diritti universali di cittadinanza viene di moda il galateo della cittadinanza. Come diceva con involontario effetto comico un noto anchorman del giornalismo liberal italiano, “cancellare la presenza delle vite derelitte in mezzo a noi non è possibile, ma ripristinare dignità e legalità agli incroci cittadini è doveroso”. Poi c’è l’ ”infezione” dei migranti, per cui, in perfetto stile apartheid, è necessario tenere i nativi da una parte, gli stranieri dall’altra e la polizia in mezzo a proteggere i primi dai secondi. Quindi, addosso alla criminalità di sussistenza (come la definisce efficacemente Luigi Ferrajoli). E la criminalità al potere, o quella interfacciata con il potere, o quella tollerata dal potere? Non rilevata! Corruzione, falso in bilancio, frodi fiscali, fondi neri, insider trading, riciclaggio di denaro sporco (nei templi della finanza), racket e mafie, devastazione ambientale, attentati alla salute, adulterazioni alimentari, infortuni sul lavoro, sfruttamento e riduzione in schiavitù finiscono per essere inciampi lungo il cammino della modernizzazione, cronicità con cui imparare a convivere; c) Ma la modernizzazione cos’è. Economisti, politici, (molti) sindacalisti dicono: liberalizzazione. E intendono: dare a i privati tutto ciò che è pubblico perché loro (solo loro) sono capaci di generare valore ed efficienza, secondo il modello che Formigoni ha affermato in Lombardia con ampie compiacenze bipartisan. E la misura del valore è il PIL, crogiolo di ogni speranza, totem idolatrato a destra e a manca. Al riguardo, ho trovato questo pezzo sorprendente, vecchio di quarant’anni e che merita una citazione per esteso: “Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones né i successi del paese sulla base del Prodotto interno lordo. Il Pil comprende l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine del fine settimana. Contabilizza le serrature speciali per le porte delle nostre case e le prigioni per coloro che cercano di forzarle (…) Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche le ricerche per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione e della gioia dei loro momenti di svago (…) Non comprende la bellezza della nostra poesia e la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere e l’onestà dei pubblici dipendenti. Non tiene conto della giustizia dei nostri tribunali, né dell’equità dei rapporti fra noi.(…) Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna d’essere vissuta”. Queste parole non sono di Serge Latouche o di Amartya Sen, ma -udite, udite- di Robert Kennedy, il cadetto della nuova frontiera, pronunciate nel marzo del ’68 all’Università del Kansas quando il Pil -per dirla con le parole di Giovanni Mariotti- aveva manifestato solo in parte la sua natura di gramigna virulenta e altamente infestante. Eppure, questa è la più pervasiva delle ideologie: lo sviluppismo, il mito della crescita quantitativa che ha sin qui impedito alle stesse organizzazioni del movimento operaio di elaborare una critica della produzione, lasciando che la contestazione delle degenerazioni culturali, dei modelli di comportamento che plasmano la vita comunitaria sia esercitata -quando ciò avviene- solo dal lato del consumo.

Del resto, è in pieno dispiegamento un colossale processo di assimilazione delle classi subalterne alla cultura dominante. Ricorrendo ad una categoria classica, possiamo dire di vera e propria egemonia. Ciò che spiega anche quei fenomeni di autolesionismo sociale di cui sono protagonisti non piccoli settori del lavoro dipendente, catturati dal rutilante messaggio berlusconiano e inclini a scivolamenti xenofobi.

E’ da tempo alle spalle la grande stagione degli anni ’70 -la vera, grande occasione persa di scrivere un’altra storia- resa possibile dall’irruzione sulla scena sociale di una classe e di una generazione insieme. Si pensi all’emigrazione meridionale al nord, verso Torino, Milano, verso le valli bresciane e bergamasche. Fu un’esperienza di democrazia, di potere (e di contropotere), di libertà, innanzitutto dentro i luoghi di produzione ed irradiatasi poi a tutta la società, contaminando la politica e le istituzioni. Fu una generazione che fece saltare molti tappi, sollevare tante incrostazioni burocratiche. Ed ebbe la capacità di parlare a tutte le latitudini, disorganizzando le idee tradizionali degli intellettuali. Quella stagione di riscossa operaia, ispirata ad un’idea di uguaglianza radicale, produsse l’abolizione delle gabbie salariali, il punto unico di contingenza, la riduzione dell’orario di lavoro contrattuale a 40 ore, le 150 ore per il diritto allo studio, un’esperienza formidabile di tutela della salute in fabbrica (la soggettività operaia, l’istituzione del libretto sanitario individuale, l’individuazione dei quattro fattori di rischio) e forme originali di organizzazione della rappresentanza, i Consigli di fabbrica, ispirati ad una idea di democrazia diretta che viveva nella pratica del gruppo omogeneo, nell’assemblea dove si scioglie ogni forma di delega perché “dove c’è il rappresentato cessa il rappresentante”. Questo possente movimento, come ho già detto, influenza tutta l’attività politica e la stessa azione parlamentare. Sono gli anni dello statuto dei lavoratori (la legge 300 del’70), della legge sul lavoro a domicilio, di quella sulle lavoratrici madri. Ma anche della casa, della previdenza, della sanità, della psichiatria (la legge Basaglia che abolisce la segregazione “restituisce alla società la cura della malattia mentale che in essa si è generata”). E poi la legge sul divorzio, il nuovo stato di famiglia. La classe operaia si pone in quegli anni come classe generale, parla al sud del paese, combatte l’insorgenza fascista (la calata a Reggio Calabria degli operai contro i “boia chi molla” di Ciccio Franco). Sono gli anni in cui si sviluppano originali esperienze di contrattazione: le vertenze, a suon di scioperi, sul “plafonamento” degli investimenti al nord, per spingere gli industriali ad investire al sud, a creare lì lavoro. Idea tipica della fase fordista, se volete un po’ ingenua, fondata sull’idea che portando l’industria al sud sarebbe nata anche lì una classe operaia e si sarebbero create le condizioni per quell’unità che il nostro paese non aveva mai conosciuto. Idea un po’ ingenua, dicevo, e forse anche un po’ velleitaria, ma sorretta da uno straordinario slancio solidaristico. Bene, la distanza da quel tratto di storia è siderale. Oggi, con una latitudine che va da destra a sinistra, è la disuguaglianza ad essere ritenuta il motore dello sviluppo; al massimo si arriva a concepire il diritto a pari opportunità, come dato di partenza, mai come punto d’arrivo; varrà il merito personale, cioè la dote individuale di conoscenze e di abilità che ognuno spenderà sul mercato prevalendo sul contiguo più debole (ce n’è sempre uno). Il conflitto non è più considerato come la fisiologia di una società divisa in classi antagonistiche, ma come patologia da estirpare dei rapporti sociali. La parola più gettonata è “competitività”, traslata dai rapporti fra le imprese a quelli fra gli individui che non è altro che quel “mors tua vita mea” in base al quale non si progredisce insieme, ma mettendo gli uni i piedi sulla testa degli altri, in un mondo dove la flessibilità, sinonimo perfetto di precarietà, è il requisito essenziale per ottenere un’occupazione.

La solitudine operaia è l’esatto rovescio di quella formidabile coscienza di sé, come classe, che si è frantumata nel processo di riorganizzazione capitalistica che ha marciato in questi vent’anni con gli stivali delle sette leghe, indebolendo pesantemente il potere di coalizione dei lavoratori e risalendo la corrente delle conquiste della seconda metà del secolo scorso. E se non c’è più una risposta collettiva alta alla domanda di giustizia e di uguaglianza succede una cosa molto semplice. Succede che alla solidarietà “orizzontale”, fra lavoratori, si sostituisce quella “verticale”: è al mio padrone che chiederò di poter fare le straordinarie (rigorosamente in “nero”), unico modo per guadagnare qualche euro, sperando che vengano negate al mio compagno di lavoro che versa in analoghe condizioni; è col mio padrone che darò addosso al fisco odioso, alle tasse (anche se lui trova il modo di evaderle ed io le pago alla fonte), alla politica corrotta; è col leghista di turno che farò sfoggio di razzismo contro il migrante (più disperato di me) fingendo di credere -o credendo sul serio- che venga a rubarmi il pane e che sia lui la fonte delle mie disgrazie. Ma l’esito è anche quello di una generazione intera allo sbando. E’ quella generazione che ha impattato con la riforma previdenziale di Dini e il passaggio al metodo di calcolo contributivo e, contemporaneamente, con quel devastante processo di precarizzazione del lavoro che da Treu alla legge 30 ha ricreato le condizioni del lavoro servile, sottopagato, sottocontribuito o decontribuito, privo di diritti: presente gramo e futuro inquietante.

Per ridare speranza a queste persone occorrerebbe investire risorse assai consistenti, qui e subito, senza la qual cosa il decennio che abbiamo alle spalle è semplicemente irrecuperabile. Ecco perché le misure contemplate nel protocollo welfare hanno l’efficacia di un impacco caldo su una gamba di legno.

Occorre cambiare, cambiare in profondità. Lo deve fare la sinistra politica e lo deve fare il sindacato. Sì, anche il sindacato, anche la Cgil che dopo questi due anni di riedizione della pratica consociativa, sta correndo un drammatico rischio di implosione, di perdita di autonomia, di crisi democratica. Anche la Cgil ha bisogno di una grande riforma del proprio modello contrattuale. Non basta più la contrattazione nel luogo di lavoro e -dentro il luogo di lavoro- solo per il nucleo di lavoratori stabili. E’ indispensabile ricomporre tutto ciò che è stato frammentato, decentrato, terziarizzato, somministrato, attraverso una contrattazione di sito e di filiera che ricostruisca il ciclo del prodotto e riafferri la rappresentanza unitaria dei lavoratori che vi sono coinvolti. Occorre una vertenzialità che si riproponga di afferrare la condizione di lavoro in tutti i suoi aspetti e, contemporaneamente, sappia guardare all’esterno, riconnettendo diritti nel lavoro e diritti di cittadinanza, saldandosi ai movimenti. Insomma, caratterizzandosi come contrattazione sociale. Per fare questo la Cgil deve riorganizzarsi -se il termine non fosse abusato dire: rifondarsi- come un sistema, come una rete di camere del lavoro comunali, molecolarmente diffuse nel territorio. Camere del lavoro intese come strumenti di riorganizzazione della democrazia partecipata, centro di annodamento di un’altra idea di politica, a maggior ragione di fronte alla disintegrazione dei partiti che hanno abbandonato la politica sul territorio trasformandosi in comitati elettorali quando non in consorterie di interessi. Quando per la prima volta esposi questa proposta mi fu chiesto quale funzione immaginassi per un sistema così fortemente decentrato, quali funzioni dovesse mai ricoprire un segretario di questa proliferazione di realtà sindacali diffuse. Per rendere l’idea risposi: deve fare tutto, occuparsi di tutto. Del sostegno a quella lotta di fabbrica, della difesa di quel bene comune espropriato, di quell’episodio di inquinamento ambientale, della destinazione di quell’area dismessa, del diritto negato all’abitazione per gruppi di persone come del singolo caso di sopraffazione e di prepotenza, della destinazione sociale dei bilanci comunali (perché non c’è solo la legge finanziaria nazionale), della lotta per l’inclusione sociale ed altro ancora. Ogni lavoratore, ogni cittadino deve sapere che c’è sempre quel luogo, quello strumento, a sua volta collegato ad una rete diffusa, che ti permette di unirti ad altri e ad altre, di organizzarti, di essere protagonista di una lotta di giustizia e di riscatto. E che nessuno rimane solo.

Insomma, si tratta di riconquistare il territorio della politica come terreno dell’azione sociale diretta, contendendolo alla politica intesa come gestione elitaria di una casta sacerdotale che lo amministra in proprio in un rapporto sempre più evanescente con le persone.

In realtà, bisognerebbe ricominciare la discussione proprio da questo punto, ma ho abbondantemente abusato del tempo che mi era stato concesso e mi fermo qui.

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