Traduzioni

18 febbraio 2008

Pratiche sociali e trasformazione della città


Giancarlo Paba


(per una versione completa vedi Paba G., “Interazioni e pratiche sociali auto-organizzate nella trasformazione della città”, in Balducci A., Fedeli V., a cura di, I territori della città in trasformazione: tattiche e percorsi di ricerca, Angeli, Milano, 2007)



[…]


Pratiche urbane


Nabeel Hamdi ha coordinato nel corso del tempo molte esperienze di progettazione partecipata nel sud del mondo, insegnato nelle università, compilato manuali e diffuso concetti conosciuti tra gli esperti di partecipazione (making microplans, action planning). Nel suo ultimo libro, Small Change, il senso del lavoro compiuto è riassunto in una specifica visione delle pratiche. Hamdi ne fornisce una definizione semplice e ragionevole: «practice – that skilful art of making things happen», l’arte sottile di fare in modo che le cose accadano (Hamdi, 2004, p. xix). Le pratiche puntano alla trasformazione, attraverso l’azione comune, producono l’emergenza e la diffusione di piccoli cambiamenti, promossi da piccole organizzazioni, ma questi cambiamenti possono crescere, anche un poco ingrandirsi (diventando diversamente grandi, se posso dire così), consolidarsi e mettersi in rete, incidere efficacemente sull’organizzazione sociale e territoriale (secondo processi di emergence e scaling up, nella terminologia utilizzata da Hamdi).

Practice disturbs: la pratica, le pratiche disturbano. Creano nuovi legami tra le persone, orientano le azioni individuali verso obiettivi condivisi, sfidano «verità, credenze, valori, norme, rituali, poteri e relazioni di genere», modificandoli nel corso dell’azione. Nella costruzione delle pratiche, di alcuni tipi di pratiche, sono messe al lavoro le interazioni, e forse in alcune pratiche speciali un particolare tipo di interazione, l’interazione spinta, forte, circolare: Schatzki la chiama heedful interaction1, per dire dell’implicazione reciproca, attenta e profonda, che qualche volta si realizza quando un gruppo sociale organizzato, per un obiettivo fortemente desiderato, costruisce un’azione condivisa (Schatzki, 1997, 2005; Crosta, 1988).


È necessario, prima di poter proseguire, soffermarsi su una piccola storia locale, nella periferia popolare di Firenze. Le Piagge è un quartiere di edilizia pubblica, un quartiere ‘sensibile’ e problematico, cresciuto tra la via Pistoiese e l’Arno, in territori lungo il fiume che sarebbe stato giusto non urbanizzare (Paba, 2000). Le Piagge è un retro della città: un’area rimasta, grande e tuttavia interclusa, terreni inquinati (rifiuti clandestini, residui di un vecchio inceneritore ormai spento, aree di escavazione), un quartiere complicato anche dal punto di vista sociale (sfrattati, anziani, deportati dal centro storico, immigrati dal meridione e dal mondo). La sequenza di costruzione del quartiere è quella classica delle periferie italiane: case dopo case per un paio di decenni, e soltanto alla fine qualche modesta dotazione di servizi e qualche forma di complicazione funzionale (un centro commerciale Coop, essenzialmente, con farmacia, bar, piazzetta semipubblica e minigalleria commerciale).

Le navi simbolizzano il quartiere, allo stesso modo delle vele di Scampìa (ma il livello di degrado delle Piagge resta tuttavia assai lontano da quello della periferia di Napoli): cinque stecche di edilizia pubblica perpendicolari al fiume, galleggianti appunto come grandi piroscafi entro uno spazio inutilmente verde, costruiti in modo indecente e quindi subito degradati nell’aspetto, negli impianti, nelle strutture. Intorno edilizia pubblica di ogni genere, precedente e successiva alle navi, quasi un catalogo di mode architettoniche, dall’impianto stereometrico dei primi interventi, al recupero dell’isolato, al neomedievalismo dell’ultimo intervento di Paolo Portoghesi.

Il quartiere ha conosciuto tutti i possibili tipi di pianificazione: dal Peep al Piano casa, dal Programma di riqualificazione urbanistica al Contratto di quartiere, fino al Piano guida, costruito con qualche modalità di interazione positiva con la popolazione, ad opera di un gruppo di lavoro coordinato da Giancarlo De Carlo (forse l’ultimo suo progetto). Però il quartiere resta ancora lì, sempre molto malato, nella struttura fisica e nella condizione sociale.

Nei luoghi degradati spesso si forma una contro-città di relazioni umane, per contrastare la povertà, il disagio, la tristezza urbanistica e sociale. A volte sono storie che si ripetono: era già successo a Firenze nel primo dopoguerra con la comunità dell’Isolotto, che abitava la piazza davanti alla chiesa e produceva servizi pubblici nelle ‘baracche verdi’, costruzioni provvisorie divenute permanenti di un quartiere nato ancora una volta senza attrezzature (Poli, 2004). Michelucci era tra i progettisti dell’Isolotto, ed è accaduto proprio quanto egli aveva affermato, nella citazione con la quale ho aperto questo scritto: la città «è anteriore alla costruzione di edifici pubblici e risiede nel rapporto sociale che persone o gruppi riescono a determinare fra loro»; è l’interazione, la commonality2 costruita nelle pratiche, a radicare gli abitanti nella città e a porre le condizioni per la trasformazione e il consolidamento degli abitati. Don Enzo Mazzi era l’ispiratore della Comunità dell’Isolotto e un altro prete di frontiera, Alessandro Santoro a metà degli anni novanta ripeterà l’esperienza (in forme ovviamente diverse) nel quartiere delle Piagge.

La ‘storia di un quartiere senza storia’ e della Comunità delle Piagge è raccontata in un libro di una studiosa (e militante della comunità), e a quel libro è necessario rimandare per ogni dettaglio (Manuelli, 2007). Qui è sufficiente descrivere sinteticamente le attività che fanno riferimento alla Comunità, organizzate a partire da un capannone elementare e provvisorio collocato al centro del quartiere. Le elenco disordinatamente: microcredito, laboratorio della bicicletta, inserimento lavorativo, recupero dei malati mentali, recupero degli ex-carcerati, consumo critico, riuso e riciclaggio, microimprenditorialità per le donne straniere, gruppi di acquisto solidale, vivaio di impresa, ospitalità per i senza tetto, giornale di informazione alternativa, oasi del fiore e giardinaggio sociale, fattoria terapeutica nel casale di Villore, mediazione interculturale nelle scuole, assistenza agli stranieri e molte altre cose ancora (Pecoriello, 2007).

Non immaginate una grande organizzazione: le attività sono spesso piccole, circoscritte a un numero non rilevante di persone, mentre invece il disordine è forse fittizio: in realtà quelle attività sono integrate in un certo numero di pratiche, di sistemi di azione multi-obiettivo, promosse da qualcuna delle quattro cooperative che compongono la Comunità, e agganciate ai collettivi di volontari, ai programmi, ai finanziamenti, e ai sostegni esterni giudicati utili, sia istituzionali (pochi e forniti contro voglia), sia non istituzionali, volta a volta necessari.



Politiche pubbliche auto-organizzate


Se prescindiamo dalle valutazioni di scala (se assumiamo che una politica non abbia una scala minima di svolgimento), la comunità delle Piagge ha organizzato (dal basso, autonomamente) politiche pubbliche (nel senso indicato da Balducci, 2004 e Crosta, 2000): politiche bancarie e finanziarie, politiche formative e educative, politiche di gestione e riciclaggio dei rifiuti, politiche abitative, politiche di sostegno all’imprenditoria giovanile e femminile, politiche di trattamento dei problemi dell’immigrazione, politiche culturali, politiche di recupero del patrimonio architettonico e rurale, e altre ancora.

Queste politiche pubbliche auto-organizzate, o politiche pubbliche dal basso (d’ora in poi PPdB) hanno tuttavia caratteristiche profondamente differenti dalle politiche pubbliche tradizionali (e dalle politiche di assistenza sociale organizzate dallo stato o dal mercato). Elenco qui di seguito gli aspetti rilevanti di questo tipo di politiche (o di pratiche), con una importante avvertenza preliminare: non si tratta dei caratteri che è possibile rintracciare, tutti e sempre, nelle attività della Comunità delle Piagge o di qualsiasi altra simile esperienza. Si tratta di una sorta di checklist ideale di una pratica sociale auto-organizzata, che è possibile soltanto approssimare, in uno o più aspetti, nella effettiva sperimentazione sociale.

Le politiche pubbliche dal basso (le pratiche sociali auto-organizzate che producono beni pubblici) hanno quindi (possono avere) le seguenti caratteristiche:


  • sono (localmente) decisive, affrontano questioni, per così dire, di vita o di morte – problemi di ‘giustizia locale’ (Elster, 1995);

  • sono inclusive, in senso forte: portano dentro, strappano all’indifferenza, all’inesistenza;

  • si sintonizzano in modo sottile (fine tuning è un’espressione di Christopher Alexander che mi piace recuperare) sui problemi che debbono trattare, aderendo ai corpi degli abitanti, ai contesti umani, sociali e spaziali;

  • esaltano l’aspetto interattivo, producono beni relazionali, producono relazioni a mezzo di relazioni (Uhlaner, 1996; Bruni e Zamagni, 2004);

  • impongono di costruire interattivamente la conoscenza e l’azione (Crosta, 1988; Fischer, 2005);

  • sono multi-obbiettivo, colpiscono obbiettivi differenti tra loro intrecciati (intrecciano obiettivi che sembravano irrelati), il successo di ciascun obiettivo dipendendo dal raggiungimento degli altri obiettivi (Donolo, 2003);

  • mettono in relazione persone, istituiscono dei corpo a corpo tra le persone: body matters nella pratiche sociali auto-organizzate;

  • sono pratiche sensibili alle differenze, modulate sulle diversità delle popolazioni urbane – di età, di genere, di provenienza geografica e culturale, di modalità di lavoro e di consumo, di condizione sociale, di stile di vita (Sandercock, 2000; Perrone, 2004; Bridge, 2005);

  • sfruttano la ‘forza dei legami deboli’, mettendo in rapporto reti di relazione differenti, accostando mondi diversi, in un processo di reciproca fertilizzazione (Granovetter, 1998);

  • sono basate sulla circolarità e la gratuità delle prestazioni (mi viene in mente una definizione dell’amore di Jacques Lacan: «donare ciò che non si ha»);

  • puntano alla qualità, intesa non come proprietà della cosa o del servizio, ma come proprietà relazionale, sistemica (de Leonardis, 1998);

  • mobilitano terzo, quarto, ennesimo settore (dal volontariato ‘egoista’ a quello più gratuito e spontaneo) (Giusti, 1995; Bruni e Zamagni, 2004; Diamanti, 2006; Revelli, 2007; Evans e Saxton, 2005);

  • sono pratiche disegnate sui diritti di chi non ha diritti, sono rivolte a chi non è eligible, per definizione;

  • le pratiche si decidono, si definiscono caso per caso (sono uniche, essenzialmente, non replicabili);

  • si diffondono (e mutano nella diffusione) per disseminazione, gemmazione, contagio, imitazione-adattamento, proliferazione orizzontale (e anche per caso);

  • sono caratterizzate da un attenzione (quasi ossessiva) sui modi di fare, ritenuti più importanti non solo del cosa fare, ma anche del come fare; superano (tentano di superare) l’opposizione tra sostantivo e processuale (il modo di fare è insieme la cosa e il come, in alcune forme particolari di azione sociale).


Ho sintetizzato i caratteri delle pratiche solidali auto-organizzate in modo certamente eccessivo, contraendo i ragionamenti, rendendoli difficilmente comprensibili. Ritornerò ora più distesamente su alcuni aspetti, saltando da un punto all’altro, e anche trasversalmente (i problemi affrontati da questo genere di pratiche sono tipicamente trasversali – e transcalari).

Le politiche pubbliche dal basso (PPdB) trattano spesso problemi decisivi: la sorte dei destinatari (in realtà: co-protagonisti) dipende interamente da esse, almeno per quel particolare problema, in quel preciso momento, in quella specifica situazione. Questioni di vita o di morte, ho detto metaforicamente (ma qualche volta vale anche letteralmente): poter stare in Italia o essere espulso; avere o non avere un lavoro; morire o non morire di droga; abitare una casa o un marciapiede; uscire dal carcere o restarci. Le PPdB entrano in gioco nei punti di biforcazione, o di catastrofe, nei momenti in cui le traiettorie dell’esistenza possono divaricarsi, e prendere una direzione o un’altra.

Le PPdB si assumono la responsabilità di decidere di quei problemi che Elster definisce di giustizia locale (Elster, 1995), e cioè dei dilemmi che nascono quando si tratta di attribuire beni scarsi e indivisibili (un posto di lavoro, un rene da trapiantare, l’ammissione agli asili infantili, la concessione di una casa, per fare qualche esempio) disponibili in quantità molto inferiore al numero delle persone che ne hanno bisogno (o che ne hanno diritto, o che ne fanno richiesta). La giustizia locale è “una faccenda veramente caotica” (Elster, 1995, p. 25), e la discussione sui criteri di allocazione di questa particolare categoria di beni e servizi è estremamente complicata e difficile (in particolare quando si tenti, come è naturale nelle politiche pubbliche, di definire norme astratte e generali).

In modo solo apparentemente paradossale le PPdB puntano a risolvere un determinato problema di ‘giustizia locale’, attraverso una forma consapevole di ‘ingiustizia locale’. Esse decidono della perentorietà di un bisogno, dell’ineludibilità di una richiesta, del carattere vitale per qualcuno molto concreto – per quella specifica persona – della concessione di un credito, di un sostegno economico, di un’attenzione dedicata, risolutiva. Escludono gli inclusi, per includere gli esclusi. Vìolano una normativa comunale, una graduatoria, una lista d’attesa; alterano i processi standardizzati di valutazione dei requisiti e dei criteri di ammissione. Le PPdB sono illegali per definizione, o almeno indifferenti alla legge, disobbedienti.

Forse è stato allora sbagliato dire che le PPdB attivano politiche finanziarie, abitative, assistenziali e così via, ed è invece più giusto dire che esse indicano modi diversi di fare banca, educazione, lavoro, cultura, assistenza. Sottolineando concretamente la necessità per le politiche pubbliche di rimettere in discussione protocolli, routines, regole di comportamento che non sono in grado di prestare a chi non ha soldi, di alloggiare chi non ha un tetto, di fornire un lavoro a un disoccupato.


Ho usato nell’elenco precedente una frase forse troppo suggestiva di Jacques Lacan e desidero ora spiegare perché l’ho fatto. Si tratta di una definizione dell’amore, tratta da uno dei seminari: l’amore è appunto ‘il dono di ciò che non si ha’. Mi è sempre sembrata una definizione magnifica e molto vera: l’amore è una struttura di interazione forte nella quale due attori cambiano in profondità ‘nel corso dell’azione’ per potersi offrire ciò che non hanno. Si auto-ingannano, essenzialmente, vedendosi reciprocamente migliori di ciò che sono, e per questo diventando migliori (ed è facile in questa procedura vedere all’opera una sorta di versione nobile dei meccanismi di auto-legame o di pre-commitment, di cui a lungo hanno trattato Schelling, Elster e molti altri).

Credo che il riferimento a Lacan sia pertinente, relativamente ad alcune caratteristiche che le PPdB possono avere. Le PPdB, a volte, non si limitano a distribuire un bene o un servizio che sono già a disposizione, ma inventano, creano quel bene o quel servizio. Appunto donano ciò che non hanno. A partire dalla rilevazione urgente dell’esistenza di un fabbisogno indifferibile producono il bene o il servizio che possono soddisfarlo. Non c’è una casa a disposizione da assegnare a chi ha più diritto (come nei problemi di giustizia locale di Elster), ma c’è questa famiglia che ha bisogno assoluto di una casa e bisogna inventarne l’esistenza per soddisfare quel bisogno. Don Alessandro abitava in una casa popolare delle ‘navi’ e una famiglia albanese senza tetto ha bussato alle porte della comunità. Don Alessandro ha ceduto la sua casa alla famiglia e si è spostato in una cabina elettrica dell’Enel dove ha vissuto per qualche tempo, attivando un meccanismo di mobilitazione sociale in tutta la città, finché una casa è stata trovata3. In genere avviene l’incontrario: nella cabina elettrica ci va la famiglia albanese, e ci rimane. Le PPdB obbediscono quindi al bisogno, non alla legge. L’Abbé Pierre gridava nel dopoguerra, di fronte al dramma impressionante dei senza tetto, che era necessaria un’insurrezione della bontà: le PPdB possono essere considerate insurgent planning practices, nel senso ripreso da Geddes e da Sandercock che ho altrove sviluppato (Paba, 2003, 2004).


Le PPdB agiscono su un terreno nel quale i protagonisti intrecciano rapporti personali attraverso transazioni di valori d’uso, valori di esistenza4, beni relazionali (Bruni e Zamagni, 2004; Prouteau e Wolff, 2004; Uhlaner 1989). Nella piccola banca etica delle Piagge (la cui radicalità di comportamento è critica persino nei confronti delle esperienze standard di microcredito, accusate di qualche cedimento alle logiche del mercato) i termini tradizionali dello scambio di equivalenti sono rovesciati: la persona che chiede un aiuto entra in un circuito di relazioni sostanzialmente non monetarie, e lo scambio multidirezionale di relazioni diventa la sostanza della vita della banca. Contano i modi della relazione, contano le vite delle persone, non le garanzie o le fideiussioni. La possibilità di restituzione del credito non è un requisito che il destinatario deve già possedere, ma una costruzione collettiva, l’esito delle interazioni. Chi riceve un prestito diventa parte di un collettivo e chi lo fornisce acquisisce subito un incremento del proprio capitale di relazioni.


Nella critica all’individualismo metodologico e alla concezione di razionalità che lo sostiene Alessandro Pizzorno indica la necessità, per capire la complessità dei processi sociali, di superare «la connessione di razionalità con intenzionalità soggettiva e con scelta strumentale», per introdurre invece la «connessione razionalità-recezione dell’azione» (Pizzorno 2007, pp. 152 e 158). Le nostre azioni sono determinate non soltanto dall’attesa di una utilità individuale materiale e contabile, ma anche dall’importanza data a «metapreferenze, piani di vita, controlli di un Io futuro»; dalla coerenza delle azioni intraprese «con un immaginario piano di vita», «con un progetto di costituzione della propria identità»; «dall’aspettativa della probabile recezione da parte di un altro soggetto» (Pizzorno 2007, pp. 160, 164 e 185), dalla considerazione dei rapporti di fiducia o reputazione (degli altri e di se stessi), da forme di altruismo, di gratuità dei comportamenti, di reciprocità (Bruni, 2006).

Nelle PPdB queste modalità dell’agire sociale risultano prevalenti e qualche volta esclusive. Nelle attività partecipative a interazione forte la soddisfazione che si prova nel gioco sociale (utilità di processo) si sostituisce all’inseguimento di qualche utilità di risultato (Frey e Stutzer, 2006). Soltanto il riferimento ai livelli di soddisfazione e di felicità che possono derivare dalle ‘attività a motivazione intrinseca’ (Frey, 2005) è in grado di spiegare l’estensione e il lento ma progressivo rafforzamento delle forme di economia civile che si accompagnano, o si contrappongono, alle economie di mercato e alle attività gestite dallo stato (Bruni e Zamagni, 2004).

Le PPdb, infine, mettono al lavoro un’altra forma di lavoro. Si tratta di un universo, anche contraddittorio e differenziato, di attività e di soggetti, chiamato in modi diversi e spesso dal significato incerto e fluido: associazionismo, volontariato, terzo settore, terzo attore. Un mondo complesso sul quale è necessario appuntare un’attenzione anche critica (de Leonardis, 2006; Cefai, 2006). La discussione sulle diverse forme di volontariato è aperta e va dalla rivendicazione che anche il volontario abbia il diritto di essere spinto da una forma – ancorché nobile – di egoismo (il selfish volunteer analizzato e difeso in Evans e Saxton, 2005) all’esaltazione di una figura che Ilvo Diamanti ha definito volontario involontario (Diamanti, 2006).

Una discussione che non è possibile in queste note sviluppare. Personalmente credo non sia necessario – almeno non sempre – scegliere tra una forma e l’altra, alla ricerca della forma migliore, dell’unica legittima o possibile. Ben Sanyal, per esempio, in un articolo molto opportuno, a fronte delle potenzialità, ma anche dei limiti della governance e dei processi deliberativi, ha proposto l’idea che una forma sensata di planning, possiamo forse dire di tradizionale buon governo, possa funzionare come anticipation of resistance e quindi contribuire alla soluzione di problemi sociali e territoriali significativi, insieme alle altre forme di interazione (Sanyal, 2005). Soltanto l’ampiezza, l’apertura, l’estensione, la varietà, la differenziazione, l’interdipendenza, la reciproca interferenza dei giochi sociali possono aumentare l’aspettativa che qualche problema sociale difficile possa essere affrontato. Molti giochi ‘buoni’ sono possibili nelle società complesse (e anche molti giochi ‘cattivi’) e la stessa possibilità di confrontarne l’efficacia, per i fini che ciascuno di noi si propone, deriva proprio dall’eventualità che molti di questi giochi possano essere positivamente giocati.

In questi giochi voglio pensare che possa avere un posto rilevante l’idea di attivismo, di militanza, di volontariato che Marco Revelli ha definito con queste parole, che mi piace assumere come conclusione provvisoria di questo scritto: «L’informalità del volontariato rinvia alla messa in campo dei sentimenti, di ciò che non è numerabile (riducibile a quantità) né calcolabile (il valore di un gesto di amore o di solidarietà è infinito). È all’antitesi della razionalità calcolistica dell’economia, e anche alle geometrie del potere della politica. Tratta l’altro come un soggetto irriducibile a ogni astrazione. Se ne prende cura con la logica ‘domestica’ del ‘maternato’, non con quella ‘tecnica’ della legge e del diritto. […] Il volontariato mira a ritessere relazioni tra prossimi. A rendere prossimo l’estraneo. A superare l’estraneità dell’altro, con la risorsa calda del rapporto di amicizia, non con le tecnologie fredde del potere e della norma» (Revelli, 2007, p. 70).



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Young, G.L. (1996), “Interaction as a Concept Basic to Human Ecology: An Exploration and Synthesis”, Advances in Human Ecology, 5, 157–211.



1 «Le heedful interactions si verificano quando persone che si pensano come un collettivo e puntano a costruire azioni congiunte, accuratamente, criticamente e attentamente partecipano e rispondono ognuna alle azioni dell’altra. Quando le persone agiscono heedfully, le loro azioni convergono, si sostengono e si assistono reciprocamente, e insieme allo stato delle cose che queste azioni producono, formano un pattern emergente» (Schatzki, 2005, p. 480). Forse ‘attenzione’, ‘attento’ sono le traduzioni più adatte di heedfulness e heedful, per i nostri fini.

2 Utilizzo commonality al posto del troppo impegnativo community perché mi sembra indicare meglio il tipo di implicazione reciproca che si costruisce tra coloro che non appartengono a una stabile e per così dire ‘predefinita’ comunità organica, ma si mettono insieme, e coordinano le loro azioni, per il raggiungimento di un fine condiviso. Pizzorno propone di utilizzare il concetto di socialità, per indicare una modalità di relazione simile a quella accennata nel testo (Pizzorno, 2007, p. 17; Uhlaner, 1989).

3 Sono consapevole del fatto che in una visione del mondo come quella che Stefano Moroni ha sistematizzato nel suo ultimo libro (Moroni, 2006) questo accadimento possa sembrare profondamente ingiusto e illiberale: la casa concessa alla famiglia albanese sarà stata tolta a qualcuno che ne aveva diritto in base a qualche cieca norma generale. Non credo che sia così: le forme di ‘íngiustizia locale’ prodotte dal basso attivano infatti, attraverso il conflitto e l’emergenza di bisogni fino a quel momento invisibili, processi profondi di ristrutturazione sociale sulla base dei quali effettivamente più case per i poveri possono essere prodotte. Nel caso inoltre in cui sia un servizio ad essere ‘socialmente inventato’, attraverso l’offerta gratuita di se stessi, l’obiezione non avrebbe comunque fondamento. L’argomento è tuttavia consistente e troppo complesso perché possa essere risolto in una nota, e mi piacerebbe domani trovare il tempo – e avere la capacità – di tornarci sopra più distesamente.

4 L’importanza di tenere conto, nelle valutazioni ambientali, dei valori di esistenza (e dei non-use values) – e cioè del valore che alcuni beni ambientali possono avere per il solo fatto di esistere, indipendente dagli usi che ne possono essere fatti – può forse essere trasferita anche alle relazioni tra le persone: nei giochi di interazione sociale è possibile dire che le persone possono essere assunte come rilevanti (e possono quindi orientare le nostre scelte in una direzione o in un’altra) per la loro semplice esistenza nel mondo (Aldred, 1994). In fondo molte forme di aiuto (adozione a distanza, cooperazione decentrata), sono motivate dal desiderio che popoli, paesi, gruppi sociali, singole persone continuino ad esistere, anche se le loro traiettorie di vita non si incontreranno mai con le nostre. I valori di esistenza non avrebbero neppure bisogno di una economia della reciprocità per essere affermati.

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