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18 marzo 2008

La Repubblica

SUPPLEMENTO AFFARI E FINANZA

17 Marzo 2008

L’avidità è nemica del mercato

MARCO PANARA

«Greed is good predicava Michael Douglas nelle vesti di Gordon Gekko, nel film Wall Street, del 1987 greed is right». Non è vero. L’avidità (greed) non è né buona né giusta. E, quel che più conta, dal punto di vista del sistema, non funziona. Se ne discute dai tempi di Adamo Smith ed anche da prima, ma l’evidenza ci dice che quando l’avidità si allarga e diventa pervasiva, all’economia fa tutt’altro che bene.
La crisi finanziaria nella quale è precipitato il mondo, che sarà lunga e faticosa da digerire, «la più grave dopo quella del ‘29», l’ha definita Steven Pearlstein sul Washington Post ancora nel dicembre scorso, è figlia proprio dell’avidità.
L’avidità non è una cosa nuova, accompagna l’uomo da sempre e, presumibilmente, non lo lascerà. Per lunghissimi periodi della storia è stata legale, l’avidità di re e baroni che impoverivano il proprio popolo, poi con il «no taxation without representation», con le monarchie costituzionali e le democrazie, l’avidità di stato è stata temperata, regolata, almeno dove la democrazia è arrivata. E’ rimasta l’avidità privata, dei singoli, più o meno (meno, in realtà) contrastata da regole che guardavano all’interesse generale.
Poi è accaduto qualcosa: la deregulation, la benvenuta liberalizzazione dei mercati, l’altrettanto benvenuto crollo del comunismo, fatto sta che è cominciata una nuova fase, dominata dalla finanziarizzazione dell’economia e, in particolare, dalla finanziarizzazione del credito. Ottimi passaggi, ai quali il mondo deve anni di fiorente sviluppo, l’allargamento dell’area del benessere, l’esplosione delle tecnologie. La globalizzazione. Ma deve, e cominciamo ora a pagarne lo scotto, anche dell’altro: il rischio che l’avidità, se istituzionalizzata, industrializzata, portata a modello sociale, possa mettere a repentaglio molto di quello che si è costruito.
L’aspetto morale lo lasciamo ad altri. Prendiamo l’aspetto funzionale: l’avidità rischia di uccidere i mercati liberi e aperti che tanta prosperità hanno creato. Il problema non è il singolo individuo, di personaggi avidi ce ne sono stati sempre e sempre ce ne saranno. E’ piuttosto nel fatto che la finanziarizzazione dell’economia e del credito hanno istituzionalizzato e industrializzato un sistema nel quale il reddito di breve periodo conta e vale di più della reputazione, di più della costruzione o della creazione di qualcosa. Vale in se, è la chiave del successo sociale e, nel breve periodo, del successo almeno borsistico dell’impresa.
La questione del ‘giusto profitto’ è irrisolvibile, ma quando imprese finanziarie guadagnano miliardi di dollari e singoli, persone fisiche, dopo dodici mesi di lavoro portano a casa decine di milioni di dollari, in alcuni casi centinaia e in qualcuno anche miliardi, e non per aver scoperto la cura contro il cancro né qualcosa che sostituisca il petrolio, un’evidenza si pone. C’è la sensazione che più che di ricchezza creata, si tratti di ricchezza spostata, trasferita da alcune tasche ad altre.
Negli Stati Uniti, la culla di questo modello, se ne discute da mesi, in Europa la Germania combatte una battaglia solitaria contro questo tipo di eccessi. Ma la questione, ancora una volta, non sono i singoli, è la tenuta del sistema.
La parola ‘greed’, avidità, ricorre spesso nei titoli dei commenti dei media americani sulla crisi scatenata dai subprime. C’è una specie di consensus sul fatto che si sia come rotta una diga, e c’è preoccupazione per tutto quello che può scappare fuori da quella falla. La finanziarizzazione del credito è stata una innovazione strepitosa, al servizio dell’espansione dell’economia. Le cartolarizzazione dei rischi assunti dalle banche e la rivendita dei titoli rappresentativi di quei rischi ha consentito da una parte di distribuire il rischio e dall’altra di ampliare la capacità di credito del sistema, e questo ha dato un grande contributo alla crescita del prodotto mondiale. Poi però quello strumento, via via più sofisticato, è diventato una gallina dalle uova d’oro, una slot machine che creava utili miliardari per le investment bank che li collocavano, bonus milionari per i giovani finanzieri che li costruivano, decine di milioni per le società di rating che ne valutavano l’affidabilità, redditi elevati (almeno all’inizio) per gli investitori che li acquistavano (spesso senza sapere che cosa compravano veramente).
Con questo giochetto del rischio che finiva in tasca di chissà chi, i primi che lo assumevano non si sono curati abbastanza della solvibilità dei debitori e della qualità delle garanzie, contava di più il guadagno immediato. Il futuro sarebbe stato un problema di altri.
Il guadagno elevato ha fatto aggio sulla professionalità, sulla prudenza, sulla rispettabilità, in tutti i passaggi della catena. Ora la frittata è fatta e la lista dei danni si allunga giorno dopo giorno: le banche, gli hedge fund, i private equity, le famiglie che hanno acquistato una casa con un mutuo e quelle che vorrebbero acquistarla ma trovano chiusa la porta della banca che dovrebbe finanziarle, le imprese che trovano meno credito in giro ed a prezzi assai più cari, l’economia insomma, tutta.
Secondo alcuni dietro l’istituzionalizzazione dell’avidità, che da individuale è diventata aziendale, c’è la pressione dei risultati trimestrali, la corte di analisti e di investitori che si aspettano redditi sempre crescenti, un ritorno sul capitale del 10 per cento non basta, uno del 15 soddisfa a mala pena, uno del venti va bene, ma comunque deve continuare a crescere. E, viene da chiedersi, come può un ritorno sul capitale investito del 20 per cento essere realizzato stabilmente senza togliere qualcosa ai clienti, ai fornitori o ai dipendenti? Ed è un obiettivo al quale la finanza nel suo complesso può tendere, o che può pretendere, senza creare nel medio periodo problemi all’economia? E un progressivo spostamento del reddito prodotto dal lavoro al capitale, fenomeno già vistosamente in atto da almeno dieci anni a questa parte, non crea rischi alla coesione e alla stabilità sociale?
Uno dei sintomi della malattia, proprio all’interno dei mercati borsistici, è già percepibile. E’ la lunga catena dei delisting, che altro non è che la fuga da meccanismi che non riconoscono i valori e i risultati di aziende sane che, deprezzate, preferiscono tirarsi fuori.
Quanto all’industrializzazione dell’avidità oltre alle letture sociologiche che raccontano di una società in cui il patrimonio conta più del lavoro e di quello che viene costruito con il lavoro, è la sola garanzia di libertà di scelta, di azione e di stabilità in un mondo forse non a caso sempre più precario la discussione pone al centro il sistema degli incentivi, i meccanismi delle retribuzioni, legati ai risultati di breve periodo e del tutto sconnessi con la stabilità di quei risultati nel tempo.
Discussioni aperte. Resta quella falla nella diga, una falla larga, che tocca i meccanismi profondi della società in cui viviamo e ancora di più il futuro che ci aspetta. Perché se il castello era di carte, e quel castello è crollato, all’avidità che era stato il fragile cemento con il quale era stato costruito si sostituisce la paura, la voglia di mettere toppe frettolose, la tentazione di iperregolamentare, si ricreano le condizioni per un ritorno dei protezionismi e dei nazionalismi. Ovvero di tutto ciò che con l’apertura e la liberalizzazione dei mercati, e con i successi ottenuti per questa via, credevamo di aver messo nell’angolo.

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