Traduzioni

5 maggio 2008

tardamodernità

tardamodernità
Quella libertà creativa senza radici
«La globalizzazione e la fine del sociale», un importante saggio di Alain Touraine per il Saggiatore. La centralità dell'individuo e il suo diritto alla differenza come ultima barriera alla diffusione del virus dell'economia di mercato. Un testo da leggere come epilogo di «Metamorfosi della questione sociale» di Robert Castel, un classico delle scienze sociali finalmente tradotto anche in Italia
Il manifesto del 01 Maggio
Benedetto Vecchi

La globalizzazione è un virus che ha dissolto il sociale. Meglio: ha dissolto tutte quelle istituzioni che lo studioso Georg Simmel ha definito un apriori del vivere associato. E se nei primi anni del Novecento tra di esse potevano essere annoverate la chiesa, l'esercito, le gilde e le corporazioni, nel corso del lungo secolo il loro posto è stato occupato da sindacati, partiti e da quelle interfacce tra il singolo e lo stato che si è soliti chiamare welfare state . Rimane solo la religione, ritornato ad essere un potente dispositivo che fornisce identità rassicuranti ai migranti e a quelle donne e uomini che vivono in alcuni realtà con lo stigma dello straniero, sebbene molti di loro, come in Francia, siano nati nello stesso paese che li considera «estranei». Da qui il giudizio senza appello di fine del sociale emesso da Alain Touraine nel saggio La globalizzazione e la fine del sociale (Il saggiatore, pp. 288, euro 22) e che può essere considerato l'epilogo, certo non condiviso dal suo autore, Robert Castel, di Metamorfosi della questione sociale (Sellino editore, pp. 551, euro 35), un testo oramai considerato un classico delle scienze sociali, finalmente tradotto anche in Italia a oltre dieci anni dalla sua pubblicazione. Sono due testi molto diversi l'uno dall'altro, sebbene abbiano lo stesso oggetto di indagine, la società capitalista. Quello di Castel ha il respiro storico della lunga durata e una forte impronta transdisciplinare. Può essere considerato la narrazione della lunga marcia verso la formazione della Sécurité sociale, segnata dalla messa a punto di categorie utili a individuare le fasce della popolazione verso le quali indirizzare l'intervento statale a causa delle loro condizioni di «minorità» psicologica, fisica e sociale. Il volume di Alain Touraine non segue invece nessuna periodizzazione storica, perché ancorato a un vischioso presente, dove la dissoluzione del sociale lascia il posto una «una produzione di sé» che catalizza tutte le facoltà intellettuali degli individui, mentre le istituzioni politiche sono delegate al ruolo di accompagnatori di questa tortuoso e conflittuale processo di costruzione di una identità che muta alla diffusione del virus della globalizzazione.

Il secolo dei diritti
L'obiettivo di Touraine è ambizioso. Lo studioso francese, infatti, considera il dinamico equilibrio tra economia, società e politica un residuo a perdere della modernità capitalistica, mentre il centro della scena viene occupato da un individuo teso al riconoscimento della propria unicità all'interno del campo d'azione definito dalla Carta dei diritti universali dell'uomo. Ma proprio quando lo studioso francese sembra piombare nelle nebbie dell'individualismo metodologico, recitando il mantra dei diritti inalienabili della persona, il libro propone un cambiamento di rotta inaspettato. Nella scansione lineare dei diritti a cui ci hanno abituato le teorie liberali o democratiche - prima quelli civili, poi quelli politici, infine quelli sociali - intervengono alcuni elementi che terremotano la scena capitalistica. Della globalizzazione si è gia detto, sebbene Touraine la presenti come un fenomeno inarrestabile e sempre uguale a se stesso, rimuovendo la crisi economica del 2001 e quell'inizio di recessione che come un tornado colpirà tanto il Nord che il Sud del pianeta. L'indice viene inoltre puntato sulla guerra preventiva e sui movimenti sociali, un suo cavallo di battaglia da quando dedicò un libro all'esperienza di Solidarnosc, considerando il sindacato polacco come esemplificazione della crisi dell'idea illuminista, fatta propria anche da movimento operaio, di «interesse generale». La globalizzazione e la fine del sociale è stato scritto quando l'invasione dell'Afghanistan e dell'Iraq si stavano trasformando in un disastro militare per gli Stati Uniti, ma forte era ancora l'eco, almeno in Europa e negli Usa, dell'attacco alla Torri Gemelle, un episodio che, se non ha cambiato il corso della storia, certo ha accelerato alcune tendenza in atto. La guerra ritorna quindi a essere lo strumento che regola le relazioni internazionali tra gli stati e accorre in difesa del mercato in quanto unico regolatore della vita associata, mentre il comunitarismo è la reazione identitaria alla globalizzazione. A fronte di tutto ciò il «soggetto personale», così Touraine chiama l'individuo, dà vita a movimenti sociali che non hanno nessuna pretesa di presentare un modello di società alternativa a quella dominante. Semmai i conflitti che esprimono sono lotte per il riconoscimento di «diritti culturali», dove la differenza è un valore. Da qui la centralità che lo studioso assegna ai movimenti delle donne, in particolar modo quelli incentrati sul «pensiero della differenza». Dunque, un individuo che vuol difendere la sua unicità, ma che sceglie la forma del movimento sociale, cioè un ambito collettivo, per affermarla. È proprio sull'aver messo a tema questa incongruità che rende interessante il libro di Touraine, al di là dei toni spesso fastidiosi con cui liquida qualsiasi pensiero critico radicale. Un'incongruità, infatti, che va vista come una sfida teorica per quanti continua a ritenere che il capitalismo contemporaneo non sia l'unico mondo possibile.

Lo spirito repubblicano
«Soggetto personale», diritti culturali e movimenti sociali sono dunque la triade che emerge dalla fine del sociale e attraverso la quale leggere i conflitti attuali. Per Touraine il passato non è una presenza ingombrante, quanto irrilevante, anche quando prova a difendere quello «spirito repubblicano» che anima invece il saggio di Robert Castel, il quale va letto come l'antefatto della postmodernità capitalistica. Robert Castel spazia infatti dalla Francia seicentesca a quella tardonovecentesca, quando cadute le speranze della presidenza di Francois Mitterand comincia a fare conoscenza con la «controrivoluzione liberale». Così, incontriamo il vagabondo, che passa da un paese all'altro suscitando i timori della popolazione locale per la sua estraneità rispetto ai legami sociali, e ai conseguenti rapporti di potere e di asservimento, della Francia di Luigi XIV. Per lui sono previsti il carcere o la carità, in quanto strumenti di un controllo sociale che ritengono la sradicamento un male da colpire perché mina l'ordine sociale. La libertà di movimento va infatti sottoposta a controlli e vincolata a un campo ben delimitato di comportamenti. Così, è punito con la prigione il mendicante , figura chiave che muove l'intervento statale durante la rivoluzione industriale. L'oscillazione tra repressione e «intervento compassionevole» vale anche per l' indigente o per l'handicappato, le altre due categorie che Castel considera tappe di quella lunga marcia verso il «salariato», figura portatore di diritti di cittadinanza con valenza «universale». L'indigente viene preso in cura dalle amministrazioni politiche locali, dando vita a quella breve e significativa stagione che gli storici del movimento operaio francese hanno chiamato del «socialismo municipale» e che conoscerà una seconda fioritura tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento. Per quanto riguarda l'analisi condotta nella M etamorfosi della questione sociale il «socialismo municipale» vede all'opera certo i comuni, ma anche una fitta rete di cooperative di consumo, di organizzazioni del mutuo soccorso. Siamo in piena rivoluzione industriale e l'indigente spesso coincide con la figura del disoccupato o del piccolo contadino stritolato dalla modernizzazione capitalista dell'agricoltura. Diversa è invece la figura dell 'handicappato, attorno al quale fanno le prime mosse quelle istituzioni totali così esaurientemente descritte da Michel Foucault, un autore verso il quale Castel è molto debitore in questa sua opera.

Irrompe il salariato
La parabola descritta dallo studioso francese merita molta attenzione per comprendere l'irrompere sulla scena del «soggetto personale» di Alain Touraine. Da una parte, come si è detto, la definizione di alcune categorie è funzionale all'esercizio di un controllo sociale rispetto alle eccedenze delle norme dominanti. La libertà di movimento dei vagabondi, l'alterità rispetto ai legami di prossimità dell'indigente, l'oscenità del corpo, e della mente, visto che il disagio psichico viene equiparato a un handicap, dell'handicappato. L'intervento statale è teso a ricondurre all'ordine quelle eccedenze, attraverso la presa in cura dei singoli. Ma è la natura del politico che viene modificato dall'irrompere sulla scena pubblica del «salariato». Il conflitto di classe impone infatti alla stato un ripensamento radicale dei diritti e dell'accesso ai servizi sociali. La Sécurité sociale è dunque progettata attorno alla figura del «salariato», considerando il lavoro quale condizione sufficiente per accedere alla cittadinanza. Condizione sufficiente, ma non necessaria laddove il conflitto di classe eccede il compromesso tra capitale e lavoro. Di tutto ciò ci sono solo accenni nel libro di Castel, ma la sua analisi si presta a interessanti sviluppi. Come, ad esempio, sulla natura ambivalente dei diritti sociali di cittadinanza: progettati per una figura sociale specifica, il salariato appunto, diventano il contesto che viene continuamente forzato dal conflitto di classe, senza che però venga destrutturata la loro funzione di controllo sociale. Tutto ciò entra in fibrillazione con la globalizzazione, che dei diritti sociali vuol mantenere solo quella funzione di controllo, con il suo corollario di inclusione differenziata dove la cittadinanza è ancorata rigidamente alla figura di un «salariato» modellata dai rapporti di produzione capitalistici e da quel manufatto culturale che si è soliti chiamare identità. Prospettiva, quest'ultima, che crea qualche imbarazzo al «soggetto personale» di Alain Touraine, figura disincarnata da qualsiasi relazione sociale che non sia quella vis-à-vis o quelle stabilite nelle lotte per il riconoscimento. I movimenti sociali sono però presenze «effimere», visto che si dissolvono quando il riconoscimento dei diritti culturali ha avuto luogo.

Le gerarchie del sociale
La sfida teorica su un individuo ricco della sua creativa libertà di «produrre il sé» attraverso la messa in comune di quella differenza in un movimento sociale lanciata da Touraine rimane però incagliata proprio in quella fine del sociale così frettolosamente decretata. L'individuo è, infatti, un prodotto sociale, perché senza quella condizione peculiare di vivere in società non esisterebbe proprio. Per essere vinta quella sfida teorica occorre introdurre i rapporti sociali di produzione, cioè quel fattore qualificante che Touraine rimuove dalla sua rappresentazione del capitalismo contemporaneo. E quindi fare i conti con quelle agency che producono quei rapporti di potere, di sudditanza, di gerarchia in cui il «soggetto personale» è inserito. In altri termini, il «soggetto personale» è tale solo se è una figura che agisce all'interno della «fabbrica del politico», affinché l'altra fabbrica, quella dei rapporti sociali di produzione e del lavoro salariato, non riduca la sua libertà creativa a mezzo di produzione.


Archivio blog