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31 maggio 2008

Dieci anni con l'euro: un punto di vista liberista

La Stampa 31/05/2008

Dieci anni con l'euro
di Carlo Bastasin

Lunedì in Europa si celebreranno i dieci anni della nascita dell’euro. Gli italiani, che senza l’unione monetaria sarebbero da tempo in stato di fallimento, dovrebbero festeggiare meno distrattamente di chiunque altro. Nel terreno dell’economia l’euro sta irrigando dal basso una silenziosa trasformazione di mentalità, ma le implicazioni politiche dell’euro sono rimaste avvolte nella nebbia della nostra infantile inconsapevolezza. Una buona parte degli errori nella nostra vita pubblica derivano da una politica che è rimasta specchio di se stessa.
Il percorso verso l’unione monetaria aveva denunciato la quantità dei guasti della cattiva politica, a cominciare dal debito pubblico.
Ora l’euro evidenzia la qualità di una pubblica amministrazione inefficiente e mal governata a cui i cittadini, risvegliati dall’ipnosi del debito e delle svalutazioni, sono diventati insofferenti. Reagiscono con severità ai fallimenti dello Stato fin da quando l’introduzione della moneta unica è avvenuta nell’assenza di controllo sugli speculatori che hanno manipolato abusivamente i prezzi. La lezione dell’euro sulla qualità del mercato e dello Stato ha armato i cittadini contro i lussi castali della politica, delle lobby o di imprese fallimentari.
Vi sono però implicazioni politiche più profonde e rivelatrici del solo riconoscimento del mercato. L’euro non ha sostituito la politica, non ha reso cioè meno necessarie le scelte responsabili dei governi, ma ne ha cambiato metodi e contenuti, fino a creare il bisogno a livello europeo di avere più, non meno, politica comune e più, non meno, avanzamento istituzionale in questioni che riguardano gli ambiti tradizionali della politica nazionale: la difesa, la politica estera, il fisco, la giustizia. Oggi però le richieste di maggiore ruolo della politica in Europa, o di governo dell’economia globale, non fanno più leva sugli strumenti del primato della politica: i vertici tra Stati, sempre meno risolutivi, o i patti per l’occupazione, l’ambiente, le pensioni, o i modelli sociali omogenei. Si sono cioè affrancati dal modello della sovranità classica, eppure non mettono più in dubbio che le soluzioni debbano essere comuni. L’euro infatti non ha funzionato gerarchicamente, ma attraverso i principi di competizione tra Paesi e di responsabilità reciproca. La competizione si è svolta nel «con-correre» verso un modello di stabilità economica giudicato fattivamente migliore, non verso un modello politicamente preferito. La responsabilità si è espressa nel controllo reciproco sui risultati materiali, addirittura contabili, della politica.
L’euro ha cioè corrisposto a una metamorfosi della politica che già si manifestava a livello nazionale. La connotazione negativa della politica, propria della dittatura - sotto la quale «si diventa politici quando si comincia a pensare» -, si è estesa nelle democrazie europee nella forma di una diffusa intolleranza al fatto che, in sistemi sociali sempre più complessi, attraverso la politica, pubblico e privato vengano abusivamente schiacciati l’uno sull’altro. Dietro questo disagio si è fatta strada una visione fattuale della politica che in ogni campo favorisce la funzionalità e la solidità di scelte collettive che agevolano l’agire individuale.
Il caso dell’euro che consente e stimola l’integrazione europea, non per volontà della politica - che si accontenta di un ruolo protezionista - ma nel mettere in comunicazione gli individui, in tal senso davvero animali politici, è macroscopico. Ma corrisponde a un sentire che, almeno dalla caduta del Muro, sa riconoscere per esempio che la giustizia politica non è mai giustizia, l’informazione soggetta alla politica non è mai informazione e così via per la cultura, il mercato, i commerci, la finanza, fino alla gestione del risparmio, cioè alla scelta individuale tra consumo presente o futuro. In tutti questi ambiti, per via dell’apertura dei confini nazionali, la politica ha perso capacità di definizione autonoma. Il ruolo che ne viene apprezzato e che funziona è quello di intermediazione. Non nel senso banale di comporre e compensare interessi sociali diversi, bensì in quello di regolare, stimolare e verificare l’interazione tra sfere dell’agire individuale e collettivo che danno forma alla società e al suo futuro con la stessa legittimità della politica. Si tratta di ciò che alcuni costituzionalisti tedeschi chiamano il «federalismo dei fatti», in cui la politica «modera e ottimizza gli sviluppi di altre forme di realizzazione sociale». Così è nel caso della moneta unica, che non determina la libera scelta degli attori sociali, ma tiene aperta a essa la prospettiva del futuro.
È talmente poco ideologica l’avventura dell’euro, che riesce a unire un’Europa priva di ogni strumento indispensabile all’influenza ideologica: né una lingua comune, né un’opinione pubblica europea, né mezzi di comunicazione comuni. Nonostante i progressi degli ultimi anni, mancano in Europa una mentalità comune, una partecipata mediazione degli interessi politici, meccanismi di comunicazione e di legittimazione indispensabili a riempire il «vuoto repubblicano». Nondimeno l’euro, questo medium prosaico - il primo davvero continentale - pur corrispondendo a interessi materiali, continua a creare il bisogno di migliore politica, fino a convertire le opinioni pubbliche scettiche. In questo senso la vicenda dell’euro non si è manifestata con la prevalenza dell’economia sulla politica, bensì di una politica funzionale all’agire individuale anziché su politiche che poggino sull’ideologia sia di partito sia nazionale. Fino a trasformare la sovranità degli Stati, a disarmarla e aprirla, con successo tale però da alimentare nuova domanda di politica europea in aree, come la politica estera, in cui essa sovrasta la capacità d’azione dei singoli Stati.
Nondimeno il lascito del Novecento è ancora fertile nelle nostre teste e per le ragioni sbagliate. Prima dell’euro destra e sinistra combattevano una titanica lotta di fantasmi nella difesa rispettiva di capitale e lavoro, salvo poi rimediare alle cattive allocazioni delle risorse tra i fattori produttivi con svalutazioni (in Italia o Francia) o rivalutazioni (in Germania o Olanda) delle monete nazionali, che aggiustavano gli squilibri delle bilance dei pagamenti. Manovrando le valute, gli Stati pre-euro azzeravano il bilancio dello scontro tra le ideologie: un eccesso di inflazione salariale veniva abbattuta con apprezzamenti recessivi del cambio, o con aumenti dell’inflazione importata che azzeravano gli incrementi salariali reali. Il bilancio tra capitale e lavoro tornava ciclicamente in pareggio. Proprio per la loro inefficacia, destra e sinistra potevano usare una retorica ideologica infuocata, in cui interessi dei lavoratori o dei capitalisti inscenavano la lotta di classe a uso interno.
L’euro e la globalizzazione paradossalmente hanno reso permanenti gli squilibri che la politica di parte induce nelle distribuzioni del reddito. Da dieci anni non è più possibile aggiustare con il cambio gli squilibri tra capitale e lavoro che politiche di destra e di sinistra, prigioniere delle fedeltà di classe, producono. È oggi quindi che la scelta politica di parte è davvero perversamente efficace nel dividere le sorti del capitale e del lavoro, divenuti diversamente mobili. Mai più di oggi le politiche di parte sono influenti nel distribuire ideologicamente il reddito, mai più di oggi dovrebbero essere calibrate, pur diversamente, sull’interesse del Paese intero.
Per scappare dalla trappola delle ideologie, la politica di parte può ora uscire dai confini culturali nazionali, apprendere la lezione di essere corresponsabile senza bisogno di sovranità esclusive. Solo misurandosi sugli effetti della libertà di movimento, sull’interdipendenza e sulla diversità dei popoli, potrà realizzare politiche d’incentivo o sostegno, di stimolo o di solidarietà, che non danneggino il Paese intero. Non è togliendo la libertà agli altri che si diventa più liberi. È l’apertura delle mentalità - tanto in contrasto col linguaggio prevalente della politica nazionale - la lezione dell’euro e degli ultimi dieci anni. Una lezione che l’Italia deve tornare a imparare.

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