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18 maggio 2008

Io chiedo scusa

di Don Luigi Ciotti UNITA 160508

Cara signora, ho visto questa mattina, sulle prime pagine di molti quotidiani, una foto che La ritrae. Accovacciata su un furgoncino aperto, scassato, uno scialle attorno alla testa. Dietro di Lei si intravedono due bambine, una più grande, con gli occhi sbarrati, spaventati, e l’altra, piccola, che ha invece gli occhi chiusi: immagino le sue due figlie. Accanto a Lei la figura di un uomo, di spalle: suo marito, presumo. Nel suo volto, signora, si legge un’espressione di imbarazzo misto a rassegnazione. Vi stanno portando via da Ponticelli, zona orientale di Napoli, dove il campo in cui abitavate è stato incendiato. Sul retro di quel furgoncino male in arnese - reti da materasso a fare da sponda - una scritta: “ferrovecchi”. Le scrivo, cara signora, per chiederLe scusa. Conosco il suo popolo, le sue storie. Proprio di recente, nei dintorni di Torino, ho incontrato una vostra comunità: quanta sofferenza, ma anche quanta umanità e dignità in quei volti. Nel nostro Paese si

parla tanto, da anni ormai, di sicurezza. È un’esigenza sacrosanta, la sicurezza. Il bisogno di sicurezza ce lo abbiamo tutti, è trasversale, appartiene a ogni essere umano, a ogni comunità, a ogni popolo. È il bisogno di sentirci rispettati, protetti, amati. Il bisogno di vivere in pace, di incontrare disponibilità e collaborazione nel nostro prossimo. Per tutelare questo bisogno ogni comunità, anche la vostra, ha deciso di dotarsi di una serie di regole. Ha stabilito dei patti di convivenza, deciso quello che era lecito fare e quello che non era lecito, perché danneggiava questo bene comune nel quale ognuno poteva riconoscersi. Chi trasgrediva la regola veniva punito, a volte con la perdita della libertà. Ma anche quella punizione, la peggiore per un uomo - essendo la libertà il bene più prezioso, e voi da popolo nomade lo sapete bene - doveva servire per reintegrare nella comunità, per riaccogliere. Il segno della civiltà è anche quello di una giustizia che punisce il tra

sgressore non per vendicarsi ma per accompagnarlo, attraverso la pena, a un cambiamento, a una crescita, a una presa di coscienza. Da molto tempo questa concezione della sicurezza sta franando. Sta franando di fronte alle paure della gente. Paure provocate dall’insicurezza economica - che riguarda un numero sempre maggiore di persone - e dalla presenza nelle nostre città di volti e storie che l’insicurezza economica la vivono già tragicamente come povertà e sradicamento, e che hanno dovuto lasciare i loro paesi proprio nella speranza di una vita migliore. Cercherò, cara signora, di spiegarmi con un’immagine. È come se ci sentissimo tutti su una nave in balia delle onde, e sapendo che il numero delle scialuppe è limitato, il rischio di affondare ci fa percepire il nostro prossimo come un concorrente, uno che potrebbe salvarsi al nostro posto. La reazione è allora di scacciare dalla nave quelli considerati “di troppo”, e pazienza se sono quasi sempre i più vulnerabili. La l

ogica del capro espiatorio - alimentata anche da un uso irresponsabile di parole e immagini, da un’informazione a volte pronta a fomentare odi e paure - funziona così. Ci si accanisce su chi sta sotto di noi, su chi è più indifeso, senza capire che questa è una logica suicida che potrebbe trasformare noi stessi un giorno in vittime. Vivo con grande preoccupazione questo stato di cose. La storia ci ha insegnato che dalla legittima persecuzione del reato si può facilmente passare, se viene meno la giustizia e la razionalità, alla criminalizzazione del popolo, della condizione esistenziale, dell’idea: ebrei, omosessuali, nomadi, dissidenti politici l’hanno provato sulla loro pelle. Lo ripeto, non si tratta di “giustificare” il crimine, ma di avere il coraggio di riconoscere che chi vive ai margini, senza opportunità, è più incline a commettere reati rispetto a chi invece è integrato. E di non dimenticare quelle forme molto diffuse d’illegalità che non suscitano uguale allarm

e sociale perché “depenalizzate” nelle coscienze di chi le pratica, frutto di un individualismo insofferente ormai a regole e limiti di sorta. Infine di fare attenzione a tutti gli interessi in gioco: la lotta al crimine, quando scivola nella demagogia e nella semplificazione, in certi territori può trovare sostenitori perfino in esponenti della criminalità organizzata, che distolgono così l’attenzione delle forze dell’ordine e continuano più indisturbati nei loro affari. Vorrei però anche darLe un segno di speranza. Mi creda, sono tante le persone che ogni giorno, nel “sociale”, nella politica, nella amministrazione delle città, si sporcano le mani. Tanti i gruppi e le associazioni che con fatica e determinazione cercano di dimostrare che un’altra sicurezza è possibile. Che dove si costruisce accoglienza, dove le persone si sentono riconosciute, per ciò stesso vogliono assumersi doveri e responsabilità, vogliono partecipare da cittadini alla vita comune. La legalità, che

è necessaria, deve fondarsi sulla prossimità e sulla giustizia sociale. Chiedere agli altri di rispettare una legge senza averli messi prima in condizione di diventare cittadini, è prendere in giro gli altri e noi stessi. E il ventilato proposito di istituire un “reato d’immigrazione clandestina” nasce proprio da questo mix di cinismo e ipocrisia: invece di limitare la clandestinità la aumenterà, aumentando di conseguenza sofferenza, tendenza a delinquere, paure. Un’ultima cosa vorrei dirLe, cara signora. Mi auguro che questa foto che La ritrae insieme ai Suoi cari possa scuotere almeno un po’ le nostre coscienze. Servire a guardarci dentro e chiederci se davvero questa è la direzione in cui vogliamo andare. Stimolare quei sentimenti di attenzione, sollecitudine, immedesimazione, che molti italiani, mi creda - anche per essere stati figli e nipoti di migranti - continuano a nutrire. La abbraccio, dovunque Lei sia in questo momento, con Suo marito e le Sue bambine. E mi p

ermetto di dirLe che lo faccio anche a nome dei tanti che credono e s’impegnano per un mondo più giusto e più umano. Presidente del «Gruppo Abele» e di «Libera - associazioni, nomi e numeri contro le mafie»

Il Pogrom moderno

Adriano Prosperi - La Repubblica 16.05.08

“Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case”: proprio voi, telespettatori, lettori di giornali, guardate e chiedetevi se sono esseri umani questa donna, quest´uomo e questo bambino che una fotografia terribile ci ha mostrato caricati coi loro stracci sul pianale di un´Ape, in fuga davanti a popoli ebbri di sangue.

Così, con le parole di Primo Levi, avrebbe potuto e dovuto cominciare qualunque reportage sugli eventi di Ponticelli se il giornalismo riuscisse sempre ad avere una memoria lunga e una funzione civile, se non si riducesse talvolta a essere la registrazione muta di orrori quotidiani o la feroce amplificazione di pregiudizi e razzismi diffusi. Là dove si alzano ancora cumuli di immondizia le fiamme consumano ora baracche, materassi e stracci nelle tane dove altri esseri umani hanno trovato un rifugio meno che bestiale.

La parola pogrom è uscita dalle rievocazioni storiche della Shoah per diventare realtà. Non è nemmeno escluso che si possa alla fine scoprire che stavolta – per la prima volta – gli zingari hanno cominciato a rubare bambini, come voleva il pregiudizio di quell´Italia contadina che aveva tanti figli e non conosceva altra ricchezza che la sua prole. Ma c´è un´altra prima volta, questa certa e indiscutibile, che riguarda noi, gli italiani. Da oggi la parola «pogrom» ha cessato di indicare solo tragedie di altri tempi e di altri popoli per diventare la definizione di atti compiuti da folle di italiani.

Dobbiamo capire perché: e non ci aiutano le grida di incoraggiamento alle folle inferocite che giungono quasi da ogni parte politica. Bisognerebbe che qualcuno facesse un esame pacato di quel che è accaduto nelle nostre città e in quella vasta, informe e desolata periferia in cui è stata trasformata tanta parte del suolo della penisola. Come tutti sanno, la mercificazione dei suoli edificabili è stata una fonte essenziale per risolvere i problemi di bilancio delle amministrazioni pubbliche. Chi doveva pensare a provvedere di luoghi vivibili gli emarginati, gli immigrati, i residui gruppi umani non stanziali, ha fatto tutt´altro.

Una frazione crescente di umanità abita oggi in Italia sotto i ponti dei fiumi e delle autostrade, vicino alle discariche, in contesti di discarica obbligata, senza acqua corrente, con stufe di fortuna. Qualcuno forse ricorda ancora altri bambini oltre a quelli «rubati» dai rom – i figli di famiglie rom morti nei roghi provocati da stufe occasionali. E ci sono altre storie che hanno un sapore tristemente familiare: quella del bambino rom che non vuole più andare a scuola perché i compagni lo escludono dal gruppo e dicono che è sporco, che puzza. Anche per gli ebrei dei secoli scorsi si diceva che fossero sporchi e riconoscibili dall´odore: ma lo dicevano coloro che prima li avevano chiusi negli spazi stretti e senza acqua dei ghetti.

Ma il problema in assoluto più grave è un altro: come e perché gli italiani sono diventati razzisti? Come e quando le autorità di governo prenderanno iniziative serie per l´integrazione civile e per la tutela giuridica di tutti gli abitanti del paese? Per ora, si assiste solo a una gara a chi grida di più, a chi trova le parole più minacciose contro gli sventurati, contro i dannati della terra. E´ una raffica di provvedimenti di polizia, veri o ventilati, una gara in cui sono impegnati amministratori locali e poteri centrali di ogni colore e che sarebbe ridicola se non fosse tragica per gli effetti di insicurezza e di violenza che provoca. Siamo già alle ronde. Aspettiamo l´arrivo degli squadroni della morte e delle polizie fai-da-te.

Certo, se lo sguardo si ferma non su quella fotografia ma sulle altre che le fanno dissonante compagnia sulle prime pagine – quelle scattate nelle aule del Parlamento – ci sarebbe di che rallegrarsi. Non più risse nel Palazzo: anzi un venticello dolce di mutuo rispetto tra maggioranza e opposizione, un gusto della correttezza, uno scimmiottamento del perfetto stile anglosassone che fanno pensare a quelle caricature dei nostri vezzi provinciali in cui eccelleva Alberto Sordi.

Di fatto nel Palazzo circola un´aria di intesa e di pace che riscalda il cuore: il governo e la sua ombra camminano lungo la stessa linea di luce, come si conviene a un paese che ha una coscienza non più divisa. E tuttavia, è spontaneo per chi ha una memoria lunga riflettere sulla opposizione speculare tra l´Italia nuova, quella della pace nei palazzi del potere e della guerra tra poveri, e l´Italia antica, quella della durissima lotta tra partiti inconciliabili e dello spirito di solidarietà diffuso in una società memore della sua storia e delle sue radici popolari.

Oggi il Palazzo e la Piazza appaiono ancora una volta divisi, ma la loro divisione è di tipo insolito e inquietante. Diceva Francesco Guicciardini della Firenze del ´500 che «spesso tra il palazzo e la piazza c´è una nebbia sì folta o uno muro sì grosso che...tanto sa el popolo di quello che fa chi governa o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che si fanno in India».

Oggi ancora una volta la scena italiana è divisa tra il palazzo e la piazza.

Ma se allora era il popolo che non vedeva ciò che facevano i potenti nel palazzo, oggi sono i potenti che sembrano non vedere quel che accade nelle piazze e nelle periferie di questo nostro paese. O forse lo vedono: forse il pensiero nascosto dietro tutto quel fair play è che conviene a chi sta sul ponte di comando lasciare che la violenza scatenata dal malgoverno sia incanalata contro i soliti capri espiatori.

Con la scusa del popolo

di GAD LERNER


LA CACCIA ai rom scatenata in tutta Italia sta cominciando a suscitare disagio, ma non ancora la necessaria rivolta morale.

Difficile, soprattutto per dei politici, mettersi contro il popolo. Col rischio di passare per difensori della delinquenza, dei violentatori, dei ladri di bambini. E’ questa, infatti, la percezione passivamente registrata dai mass media: un popolo esasperato, l’ira dei giusti che finalmente anticipa le forze dell’ordine nel necessario repulisti.

Ma siamo sicuri che “il popolo” siano quei giovanotti in motorino che incendiano con le molotov gli effetti personali degli zingari fuggiaschi, le donne del quartiere che sputano su bambini impauriti e davanti a una telecamera concedono: “Bruciarli magari no, ma almeno cacciarli via”? Che importa se parlano a nome del popolo i fautori della “derattizzazione” e della “pulizia etnica”, i politici che in campagna elettorale auspicarono “espulsioni di massa”, i ministri che brandiscono perfino la tradizione cattolica per accusare di tradimento parroci e vescovi troppo caritatevoli?

La vergogna di Napoli, ma anche di Genova, Pavia e tante altre periferie urbane, non ha atteso l’incitamento dei titoloni di prima pagina, cui ci stiamo purtroppo abituando. “Obiettivo: zero campi rom” (salvo scatenarsi se qualche sindaco trova alloggi per loro). “I rom sono la nuova mafia” (contro ogni senso delle proporzioni). “Quei rom ladri di bambini” (la generalizzazione di un grave episodio da chiarire). Dal dire al fare, il passo dell’inciviltà è compiuto. Perfino l’operazione di polizia effettuata ieri con 400 arresti e decine di espulsioni sembra giungere a rimorchio. La legge preceduta in sequenza dalla furia mediatica e popolare, come se si trattasse di una riparazione tardiva.

Chi si oppone è fuori dal popolo. Più precisamente, appartiene alla casta dei privilegiati che ignorano il disagio delle periferie. Ti senti buono, superiore? Allora ospitali nel tuo attico! L’accusa, e l’irrisione, risuonano ormai fin dentro al Partito democratico. Proclama Filippo Penati, presidente di centrosinistra della Provincia di Milano: “I rom non devono essere ‘ripartiti’, bisogna farli semplicemente ripartire”. E accusa Prodi di non aver capito l’andazzo, di non aver fatto lui quel che promettono i suoi successori. Nel 2006 fu Penati, insieme al sindaco Moratti, a chiedere al comune di Opera di ospitare provvisoriamente 73 rom (di cui 35 bambini). Dopo l’assedio e l’incendio di quel piccolo campo, adesso è stato eletto sindaco di Opera il leghista rinviato a giudizio per la spedizione punitiva. Mentre si è provveduto al trasferimento del parroco solidale con quegli estranei pericolosi.

La formula lapalissiana secondo cui “la sicurezza non è né di destra né di sinistra” appassisce, si rivela inadeguata nel tumulto delle emozioni che travolge la cultura della convivenza civile. Perfino la politica sembra derogare dal principio giuridico della responsabilità individuale di fronte alla legge. Perché un conto è riconoscere le alte percentuali di devianza riscontrabili all’interno delle comunità rom, che siano di recente immigrazione dalla Romania, oppure residenti da secoli in Italia, o ancora profughe dalla pulizia etnica dei Balcani. Un conto è contrastare gli abusi sull’infanzia, la piaga della misoginia e delle maternità precoci, i clan che boicottano l’inserimento scolastico e lavorativo, la pessima consuetudine degli allacciamenti abusivi alla rete elettrica e idrica.

Altra cosa è riproporre lo stereotipo della colpa collettiva di un popolo, giustificandola sulla base di una presunta indole genetica, etnica. Quando gli speaker dei telegiornali annunciano la nomina di “Commissari per i rom”, sarebbe obbligatorio ricordare che simili denominazioni sono bandite nella democrazia italiana dal 1945. Il precetto biblico dell’immedesimazione - “In ogni generazione ciascuno deve considerare se stesso come se fosse uscito dall’Egitto” - dovrebbe suggerirci un esercizio: sostituire mentalmente, nei titoli di giornale, la parola “rom” con la parola “ebrei”, o “italiani”. Ne deriverebbe una cautela salutare, senza che ciò limiti la necessaria azione preventiva e repressiva.

La categoria “sicurezza” non è neutrale. Ne sa qualcosa il centrosinistra sconfitto alle elezioni, e solo degli ingenui possono credere che se Prodi, Amato o Veltroni avessero cavalcato l’allarme sociale con gli stessi argomenti della destra il risultato sarebbe stato diverso. Qualora il nuovo governo applichi con coerenza la politica di sicurezza annunciata, è prevedibile che nel giro di pochi anni il numero dei detenuti raddoppi, o triplichi in Italia. Scelta legittima, anche se la sua efficacia è discutibile. Quel che resta inaccettabile è il degrado civile, autorizzato o tollerato con l’alibi della volontà popolare. Insopportabili restano in una democrazia provvedimenti contrari al Codice di navigazione - l’obbligo di soccorso alle carrette del mare - o che puniscano la clandestinità sulla base di criteri aleatori di pericolosità sociale.

Da più parti si spiega l’inadeguatezza della sinistra a governare le società occidentali con la sua penitenziale vocazione “buonista”. E’ un argomento usato di recente da Raffaele Simone nel suo “Mostro Mite” (Garzanti), salvo poi trarne una previsione imbarazzante: la cultura di sinistra col tempo sarebbe destinata a essere inclusa, digerita dalla destra. Discutere un futuro lontano può essere ozioso, ma è utile invece riscontrare l’approdo a scelte comuni là dove meno te l’aspetteresti: per esempio sulla pratica delle ronde a presidio del territorio.

Naturalmente gli assalti di matrice camorristica ai campi rom di Ponticelli non sono la stessa cosa della Guardia nazionale padana. Che a sua volta non va confusa con i volontari di quartiere proposti dai sindaci di sinistra a Bologna e a Savona. Nel capoluogo ligure, per giustificare la proposta, è stata addirittura evocata l’esperienza del 1974, quando squadre antifasciste pattugliarono la città dopo una serie di bombe “nere”. Il richiamo ai servizi d’ordine sindacali o di partito è suggestivo, quasi si potesse favorire così un ritorno di partecipazione e militanza che la politica non sa più offrire. Ma è dubbio che nell’Italia del 2008 - afflitta da nuove forme di emarginazione come i lavoratori immigrati senza casa, le bidonvilles fucine di criminalità ma spesso impossibili da cancellare - le ronde possano considerarsi uno strumento di democrazia popolare.

Dobbiamo sperare in una reazione civile agli avvenimenti di questi giorni, prima che i guasti diventino irrimediabili. Già si levano voci critiche ispirate a saggezza, anche nella compagine dei vincitori (Giuseppe Pisanu). Il silenzio, al contrario, confermerebbe solo l’irresponsabilità di una classe dirigente che ha già cavalcato gli stupri in chiave etnica durante la campagna elettorale.

(16 maggio 2008)


Piero Sansonetti LIBERAZIONE 160508 PROVE DI PULIZIA ETNICA

Non è grave - per Rifondazione - essere fuori dal parlamento. E’ grave per il Parlamento. Questo Parlamento senza Rifondazione fa un po’ schifo (dico Rifondazione per semplicità e per patriottismo, ma naturalmente intendo «sinistra». Fa un po’ schifo un Parlamento senza Rifondazione, senza Pdci, senza verdi, senza sinistra democratica...). Basta dire questo: contro la violenta campagna di scontro razziale avviata da qualche giorno dalle autorità, e che ieri ha portato alla retata, e alle rappresaglie contro i rom e gli immigrati (accusati in blocco per un presunto e molto improbabile tentativo di sequestro di bambino a Napoli), in Parlamento non si è alzata neanche una voce. Silenzio, completo silenzio. I partiti di maggioranza, naturalmente hanno fatto quadrato intorno al governo. I partiti di opposizione hanno fatto quadrato anche loro.

Il capo del Pd continua a definire tutta questa situazione «tema della sicurezza»: proprio non si accorge che è in corso un linciaggio di massa e che è iniziata la persecuzione di Stato contro gruppi di persone deboli e povere, additate alla repressione su base razziale, e che ci troviamo di fronte alla più grave emergenza razzista che mai si sia verificata in Italia nel dopoguerra, e che lo Stato ha avviato atti di pulizia etnica che ricordano quelli di Milosevic.

Anzi, il capo del Pd rivendica tutte le recenti posizioni del suo partito su questo presunto tema sicurezza, ed è amareggiato del fatto che il Pd abbia capito troppo tardi che il pugno duro, la faccia feroce, sono l’unico modo per conquistare consensi popolari. Alle parole di Veltroni si è associato il capo dell’Italia dei Valori, quel Di Pietro considerato ormai da tutti un sovversivo e il leader della sinistra parlamentare. Di Pietro è il più antigovernativo di tutti i deputati. Ieri ha proclamato il suo entusiasmo per il pacchetto anti-rom e anti immigrati annunciato dal governo. Ha detto: «Che l’immigrazione clandestina divenga un reato è indispensabile al nostro paese».

Non era mai successo nella storia della repubblica. Mai c’era stato un parlamento del tutto succube del governo, il quale, a sua volta, sembra succube della Lega, anzi, dei settori più oltranzisti della Lega e del famoso partito trasversale dei sindaci.

Ad essere del tutto sinceri, in questi giorni si è alzata dal Parlamento una sola voce critica. E a sorpresa si è levata dallo schieramento di centrodestra. E’ quella dell’on. Beppe Pisanu (con qualche imbarazzo dobbiamo ammettere che gliene siamo grati).



Per fortuna, poi, nel paese, seppure in forma molto minoritaria, iniziano a levarsi delle proteste. Soprattutto dal mondo delle religioni. Un certo numero di associazioni cattoliche e di tutte le altre confessioni cristiane, settori dello stesso Vaticano, e ieri anche il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche, Renzo Gattegna, hanno protestato contro le deportazioni di massa e gli atti di repressione indiscriminata. Hanno ricordato che i reati prevedono responsabilità individuale, non esiste la responsabilità di gruppo né tantomerno la responsabilità di «razza». Nei giorni scorsi aveva protestato il presidente delle Acli, e ieri lo stesso papa, seppure con la dovuta prudenza, ha parlato di dovere «all’accoglienza», che - capite bene - è un modo di parlare molto ma molto diverso da quello di Maroni, di Alemanno, di Veltroni e di Di Pietro.

Vedo due rischi, gravissimi. Il primo è quello di un mondo politico barricato su posizioni reazionarie e oltranziste, che rompe con tutti i tabù della democrazia moderna e del pensiero liberale, che espelle persino l’ombra dell’ombra della sinistra e delle sue tentazioni autoritarie, e che propone al mondo cattolico un patto: vi diamo tutto sul piano dell’integralismo religioso (lotta all’aborto, alla libertà sessuale, ai diritti della persona, alla dignità della donna...) e in cambio voi rinunciate alla vostra dottrina sociale.

Il secondo rischio è che la sinistra, restata fuori dal parlamento, si faccia paralizzare da questa svolta a destra, non ne comprenda la portata, la riduca a un gioco di grandi manovre all’interno della borghesia, e si faccia del tutto espellere dalla battaglia politica. Identificando il suo «non essere» in parlamento con il «non essere» e basta.

Naturalmente i due rischi sono intrecciati e dipendono l’uno dall’altro. Se la sinistra non riesce a rialzarsi in piedi e a gettare tutta la sua forza e il prestigio rimasto nello scontro che è aperto (e che ha come posta la civiltà) è probabile che riesca anche l’operazione di scambio di potere coi cattolici, e allora davvero ci troveremo in una notte scurissima e senza uscita. Se invece scoccherà una scintilla, un circuito virtuoso, e - dopo tanti anni - le battaglie della sinistra troveranno la strada per ricollegarsi coi settori più consapevoli del mondo cattolico, cristiano, ebraico, allora forse entrerà in crisi quell’equilibrio parlamentare che oggi ci atterrisce e si riapriranno prospettive, vie, speranze, idee.

Dipenderà da noi, da nessun altro. Non possiamo certo aspettarci che venga a salvarci Di Pietro, munito di manette, o Veltroni, e neppure D’Alema o Bonino.


16/05/2008

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