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3 maggio 2008

Keynes: Prospettive per i nostri nipoti


Secondo un proverbio popolare spagnolo, "hombre que trabaja pierde tiempo precioso". Sarà in omaggio a questa filosofia esistenziale che John M. Keynes scelse la liberazione dal lavoro come tema per una conferenza tenuta a Madrid nel giugno del 1930, rintracciabile ora nel nono volume dei suoi Collected Writings intitolato Essays in Persuasion e tradotta in Italia da Bollati Boringhieri (La fine del laissez faire ed altri scritti, Torino 1991). Le idee portanti della conferenza dovevano frullare da tempo nella fervida testa di Keynes e dovevano stargli particolarmente a cuore se, fin dal 1928, egli ne aveva fatto oggetto di numerosi discorsi tenuti qua e là, su invito di associazioni culturali come la Essay Society del Winchester College o il Political Economy Club di Cambridge.
Poiché le teorie keynesiane sono alla base della strategia tuttora invocata e praticata (di validità sicura ai suoi tempi, assai dubbia oggigiorno) secondo cui la disoccupazione è un male che va combattuto elevando gli investimenti, è interessante riproporre la conferenza di Madrid, dove Keynes per primo anticipa i limiti di questa strategia.
Quando Keynes tenne la sua conferenza a Madrid, non erano stati ancora inventati il microscopio elettronico, l'elaboratore, il polietilene, il radar, le fibre artificiali, l'elicottero, il motore a reazione, la fissione e il reattore nucleare, il DDT, gli antibiotici, la penna a sfera, il rene artificiale, la bomba atomica, la plastica, il transistor, il videoregistratore, gli anticoncezionali, il laser, i circuiti integrati, le fibre al carbonio, le stazioni spaziali, la fecondazione artificiale, il fax, il telefono cellulare, il compact disc. Gli scienziati non sapevano ancora di che cosa è composto un atomo o come è fatto il DNA. Gran parte degli oggetti che compongono il nostro attuale universo quotidiano - dalla televisione ad Internet, dal robot al forno a microonde - esulavano dall'esperienza personale del raffinato economista di Bloomsbury. Eppure il suo acume, sociologico prima ancora che economico, riuscì a guidarlo oltre i confini dell'economia.
Per quanto lontano dai successivi sviluppi, già nel 1930 il progresso tecnologico doveva apparire a Keynes come un fenomeno portentoso e rivoluzionario, destinato a crescere con un ritmo a valanga. Del resto, i dati di fondo erano già ben chiari: l'uomo di Neanderthal - quando gli abitanti del pianeta non superavano 120 milioni - aveva una vita media di 29 anni e disponeva di circa 4000 calorie al giorno; nel 1750 - quando la popolazione complessiva del pianeta aveva raggiunto i 600 milioni - l'uomo pre-industriale dei paesi più ricchi aveva una vita media di 35 anni e disponeva di 24.000 calorie al giorno; oggi, che la rivoluzione industriale è ormai conclusa e che la società post-industriale ha preso il suo posto, gli abitanti del pianeta superano i 5 miliardi e ciascun abitante dei paesi ricchi vive in media 75 anni, disponendo di circa 300.000 calorie al giorno. Durante tutta la lunga storia che precede l'industrializzazione, le risorse energetiche di cui disponeva l'umanità non hanno mai superato il miliardo di megawattore; tra la metà dell'Ottocento e la metà del Novecento, grazie all'impulso industriale, sono aumentate di oltre cinquanta volte, superando i 53 miliardi di megawattore.
È su questo trend, colto nelle sue linee di fondo, che l'acuta intelligenza di Keynes imposta il proprio ragionamento, tuttora profetico. Keynes è nato nel 1883 ed è morto nel 1946. La sua conferenza è intitolata Economic Possibilities for our Grandchildren. I nipoti di chi è nato nel 1883 e parla nel 1930 corrispondono più o meno ai figli di chi, come noi, sono nati alla fine degli anni Trenta e scrivono nel 1998.
Keynes, come Marx, come Weber e come Taylor; è più citato che letto. Pochi, dunque,sanno che già nel 1930 egli considerava la disoccupazione tecnologica come una fase transitoria in vista della liberazione dal lavoro.
In realtà, alla luce dell'attuale esperienza, le sue previsioni risultano addirittura sbagliate per difetto. Egli ipotizzava che, nei cento anni successivi alla sua conferenza, la situazione economica dei paesi civili sarebbe stata otto volte superiore a quella del 1930. Invece, grazie all'accelerazione impressa dalla seconda guerra mondiale, dallo sviluppo scientifico-tecnologico, dalla globalizzazione, dalla scolarizzazione e dai mass media, lo sviluppo è stato ben più accelerato. Non resta, dunque, che ridurre drasticamente l'orario di lavoro e sostituire la "perizia nel lavoro" con la "perizia nella vita".
Come Taylor seppe vivere in piena coerenza con la sua utopia (liberare l'uomo dal lavoro attraverso la tecnologia e lo Scientific Management), dedicandosi sempre meno alla professione di ingegnere e sempre più al giardinaggio e alla vita di relazioni, così Keynes seppe anticipare la realizzazione della sua utopia dimostrando "perizia nella vita" attraverso l'esperienza multidisciplinare e raffinatissima del circolo di Bloomsbury (vivere esteticamente in virtù e saggezza, liberati dall'assillo del lavoro e del guadagno). Il sodalizio con Vanessa e Clive Bell, con Virginia Woolf, con Wittgenstein, con Bertrand Russell, con Strachey, con Forster, costituisce infatti la mirabile anticipazione di una possibile società post-industriale, fondata sui bisogni radicali della cultura, dell'amicizia e dell'estetica, contrapposta al perbenismo rituale dell'Inghilterra vittoriana, tanto falsa quanto opulenta e contrapposta alla morsa di efficientismo e consumismo in cui, per due secoli, si é trovato costretto l'uomo industriale.

Ma leggiamo i passi essenziali del testo di Keynes. (Il testo originale in inglese è qui)



PROSPETTIVE PER I NOSTRI NIPOTI
di John Maynard Keynes

I. In questo momento siamo affetti da un grave attacco di pessimismo economico. È cosa comune sentir dire dalla gente che è ormai conclusa l'epoca dell'enorme progresso economico che ha caratterizzato il secolo XIX; che adesso il rapido miglioramento del tenore di vita dovrà rallentare, per lo meno in Gran Bretagna; che nel prossimo decennio è più probabile un declino anziché un fiorire della prosperità.
Ritengo che questa sia un'interpretazione estremamente errata di quanto sta accadendo. Quello di cui soffriamo non sono acciacchi della vecchiaia, ma disturbi di una crescita fatta di mutamenti troppo rapidi e dolori di riassestamento da un periodo economico a un altro. L'efficienza tecnica è andata intensificandosi con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a risolvere il problema dell'assorbimento della manodopera; il miglioramento del livello di vita è stato un po' troppo rapido; il sistema bancario e monetario del mondo ha impedito che il tasso d'interesse cadesse con la velocità necessaria al riequilibrio.(…)
La depressione che domina nel mondo, l'atroce anomalia della disoccupazione in un mondo pieno di bisogni, i disastrosi errori che abbiamo commesso ci rendono ciechi di fronte a quanto sta accadendo sotto il pelo dell'acqua, cioè di fronte al significato delle tendenze autentiche del processo. Voglio affermare, infatti, che entrambi i contrapposti errori di pessimismo, che sollevano oggi tanto rumore nel mondo, si dimostreranno errati nel corso della nostra stessa generazione: il pessimismo dei rivoluzionari, i quali pensano che le cose vadano tanto male che nulla possa salvarci se non il rovesciamento violento; e il pessimismo dei reazionari i quali ritengono che l'equilibrio della nostra vita economica e sociale sia troppo precario per permetterci di rischiare nuovi esperimenti.
In questo saggio, tuttavia, mio scopo non è di esaminare il presente o il futuro immediato, ma di sbarazzarmi delle prospettive a breve termine e di librarmi nel futuro. Quale livello di vita economica possiamo ragionevolmente attenderci fra un centinaio d'anni? Quali sono le prospettive economiche per i nostri nipoti?
Dai tempi più remoti dl cui abbiamo conoscenza (diciamo duemila anni prima di Cristo) fino all'inizio del secolo XVIII, il livello di vita dell'uomo medio, che vivesse nei centri civili del mondo, non ha subito grandi mutamenti. Alti e bassi sicuramente. Comparse di epidemie, carestie e guerre. Intervalli aurei. Ma nessun balzo in avanti, nessun cambiamento violento. Nei quattromila anni, conclusisi all'incirca nell'anno di grazia 1700, alcuni periodi hanno fatto registrare un miglioramento del 50 per cento (nel migliore del casi del 100 per cento) rispetto ad altri.
Questo lento tasso di progresso, ovvero questa mancanza di progresso, era dovuto a due motivi: l'assenza vistosa di miglioramenti tecnici di rilievo, e la mancata accumulazione di capitale.
L'assenza di grandi invenzioni tecniche fra l'era preistorica e i tempi relativamente moderni è davvero degna di nota. Quasi tutto ciò che, di sostanziale importanza, il mondo possedeva all'inizio dell'età moderna, era già noto all'uomo agli albori della storia. Il linguaggio, il fuoco, gli stessi animali domestici che abbiamo oggi, il grano, l'orzo, la vite e l'olivo, l'aratro. la ruota, il remo, la vela, le pelli, la tela e il panno, i mattoni e le terrecotte, l'oro e l'argento, il rame, lo stagno e il piombo (e il ferro vi si aggiunse prima del 1000 a C.), il sistema bancario, l'arte del governo, la matematica, l'astronomia e la religione: non sappiamo quando l'uomo abbia avuto per la prima volta in mano queste cose. (…)
L'età moderna si è aperta, ritengo, con l'accumulazione di capitale iniziata nel secolo XVI. (…) Dal secolo XVI è incominciata, proseguendo con crescendo ininterrotto nel XVIII secolo, la grande era delle invenzioni scientifiche e tecniche che, dall'inizio del secolo XIX, ha avuto sviluppi incredibili: carbone, vapore, elettricità, petrolio, acciaio, gomma, cotone, industrie chimiche, macchine automatiche e sistemi di produzione di massa, telegrafo, stampa, Newton, Darwin, Einstein e migliaia di altre cose e uomini troppo famosi e troppo noti per essere ricordati. Quale il risultato? Nonostante l'enorme sviluppo della popolazione del mondo, che è stato necessario dotare di case e di macchine, il tenore medio di vita in Europa e negli Stati Uniti è aumentato, devo ritenere di quattro volte. Lo sviluppo del capitale è avvenuto su una scala di gran lunga superiore a cento volte quella conosciuta da qualsiasi altra epoca. E d'ora in avanti non dobbiamo attenderci un incremento demografico tanto forte.
Se il capitale aumenta, diciamo, del 2 per cento l'anno, in vent'anni l'attrezzatura produttiva del mondo sarà aumentata del 50 per cento e in cent'anni di sette volte e mezzo. Pensate a questo in termini di beni capitali: case, trasporti e simili.
Al tempo stesso i miglioramenti tecnici nei settori manifatturiero e dei trasporti sono proceduti negli ultimi dieci anni con tassi molto superiori a quelli registrati precedentemente dalla Storia. Negli Stati Uniti la produzione pro capite dell'industria, nel 1925, superava del 40 per cento quella del 1919. (…)
Vi sono buoni elementi per ritenere che le rivoluzionarie trasformazioni tecniche, che finora hanno interessato soprattutto l'industria, si applicheranno presto all'agricoltura. Può ben darsi che ci troviamo alla vigilia di un'evoluzione del rendimento della produzione agricola di portata analoga a quella verificatasi nell'estrazione mineraria, nell'industria manifatturiera, nel trasporti. Nel giro di pochissimi anni, intendo dire nell'arco della nostra vita, potremmo essere in grado di compiere tutte le operazioni dei settori agricolo, minerario, manifatturiero con un quarto dell'energia umana che eravamo abituati a impegnarvi.
Per il momento, la rapidità stessa di questa evoluzione ci mette a disagio e ci propone problemi di difficile soluzione. I paesi che non sono all'avanguardia del progresso ne risentono in misura relativa. Noi, invece, siamo colpiti da una nuova malattia di cui alcuni lettori possono non conoscere ancora il nome, ma di cui sentiranno molto parlare nei prossimi anni: vale a dire la disoccupazione tecnologica. Il che significa che la disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera. Ma questa è solo una fase di squilibrio transitoria. Visto in prospettiva, infatti, ciò significa che l'umanità sta procedendo alla soluzione del suo problema economico. Mi sentirei di affermare che di qui a cent'anni il livello di vita dei paesi in progresso sarà da quattro a otto volte superiore a quello odierno. Né vi sarebbe nulla di sorprendente, alla luce delle nostre conoscenze attuali. Non sarebbe fuori luogo prendere in considerazione la possibilità di progressi anche superiori.
II. Ammettiamo, a titolo di ipotesi, che di qui a cent'anni la situazione economica di tutti noi sia in media di otto volte superiore a quella odierna. Cosa di cui, in verità, non dovremmo affatto stupirci.
È ben vero che i bisogni degli esseri umani possono apparire inesauribili. Essi, tuttavia, rientrano in due categorie: i bisogni assoluti, nel senso che li sentiamo quali che siano le condizioni degli esseri umani nostri simili, e quelli relativi, nel senso che esistono solo in quanto la soddisfazione di essi ci eleva, ci fa sentire superiori ai nostri simili. I bisogni della seconda categoria, quelli che soddisfano il desiderio di superiorità, possono davvero essere inesauribili poiché quanto più alto è il livello generale, tanto maggiori diventano. Il che non è altrettanto vero dei bisogni assoluti: qui potremmo raggiungere presto, forse molto più presto di quanto crediamo, il momento in cui questi bisogni risultano soddisfatti nel senso che preferiamo dedicare le restanti energie a scopi non economici.
Veniamo ora alla mia conclusione che credo riterrete sconcertante, anzi quanto più ci ripenserete, tanto più la troverete sconcertante.
Giungo alla conclusione che, scartando l'eventualità di guerra e di incrementi demografici eccezionali, il problema economico può essere risolto, o per lo meno giungere in vista di soluzione, nel giro di un secolo. Ciò significa che il problema economico non è se guardiamo al futuro, il problema permanente della razza umana.
Perché mai, potrete chiedere, è cosa tanto sconcertante? È sconcertante perché, se invece di guardare al futuro ci rivolgiamo al passato, vediamo che il problema economico, la lotta per la sussistenza, è sempre stato, fino a questo momento il problema principale, il più pressante per la razza umana: anzi, non solo per la razza umana, ma per tutto il regno biologico dalle origini della vita nelle sue forme primitive.
Pertanto la nostra evoluzione naturale, con tutti i nostri impulsi e i nostri istinti più profondi, è avvenuta al fine di risolvere il problema economico. Ove questo fosse risolto, l'umanità rimarrebbe priva del suo scopo tradizionale.
Sarà un bene? Se crediamo almeno un poco nei valori della vita, si apre per lo meno una possibilità che diventi un bene. Eppure io penso con terrore al ridimensionamento di abitudini e istinti nell'uomo comune, abitudini e istinti concresciuti in lui per innumerevoli generazioni e che gli sarà chiesto di scartare nel giro di pochi decenni.
Per adoperare il linguaggio moderno, non dobbiamo forse attenderci un "collasso nervoso" generale? Abbiamo già avuto una piccola esperienza di quello che intendo, cioè un collasso nervoso simile al fenomeno già piuttosto comune in Gran Bretagna e negli Stati Uniti fra le donne sposate delle classi agiate, sventurate donne in gran parte, che la ricchezza ha privato dei compiti e delle occupazioni tradizionali: donne che non riescono a trovare sufficiente interesse nel cucinare, pulire, rammendare quando vi manchi la spinta della necessità economica: e che tuttavia sono assolutamente incapaci di inventare qualche cosa di più divertente.
Per chi suda il pane quotidiano il tempo libero è un piacere agognato: fino al momento in cui l'ottiene.
Ricordiamo l'epitaffio che scrisse per la sua tomba quella vecchia donna di servizio: "Non portate il lutto, amici, non piangere per me che farò finalmente niente, niente per l'eternità".
Questo era il suo paradiso. Come altri che aspirano al tempo libero, la donna di servizio immaginava solo quanto sarebbe stato bello passare il tempo a far da spettatore. C'erano, infatti, altri due versi nell'epitaffio: "Il paradiso risuonerà di salmi e di dolci musiche ma io non farò la fatica di cantare".
Eppure la vita sarà tollerabile solo per quelli che partecipano al canto: e quanto pochi di noi sanno cantare!
Pertanto, per la prima volta dalla sua creazione, l'uomo si troverà di fronte al suo vero, costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza e l'interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza.
Gli indefessi, decisi creatori di ricchezza potranno portarvi tutti, al loro seguito, in seno all'abbondanza economica. Ma saranno solo coloro che sanno tenere viva, e portare a perfezione l'arte stessa della vita, e che non si vendono in cambio dei mezzi di vita, a poter godere dell'abbondanza, quando verrà.
Eppure non esiste paese o popolo, a mio avviso che possa guardare senza terrore all'era del tempo libero e dell'abbondanza. Per troppo tempo, infatti, siamo stati allenati a faticare anziché godere. Per l'uomo comune, privo di particolari talenti, il problema di darsi un'occupazione è pauroso, specie se non ha più radici nella terra e nel costume o nelle convenzioni predilette di una società tradizionale. A giudicare dalla condotta e dal risultati delle classi ricche di oggi, in qualsiasi regione del mondo, la prospettiva è davvero deprimente. Queste classi, infatti, sono per così dire la nostra avanguardia, coloro che esplorano per noi la terra promessa e che vi piantano le tende. E per la maggior parte costoro, che hanno un reddito indipendente ma nessun obbligo o legame o associazione, hanno subìto una sconfitta disastrosa, così mi sembra, nel tentativo di risolvere il problema che era in gioco.
Sono certo che, con un po' più di esperienza, noi ci serviremo del nuovo generoso dono della natura in modo completamente diverso da quello dei ricchi di oggi e tracceremo per noi un piano di vita completamente diverso che non ha nulla a che fare con il loro.
Per ancora molte generazioni l'istinto del vecchio Adamo rimarrà così forte in noi che avremo bisogno di un qualche lavoro per essere soddisfatti. Faremo, per servire noi stessi, più cose di quante ne facciano di solito i ricchi d'oggi, e saremo fin troppo felici di avere limitati doveri, compiti, routines. Ma oltre a ciò dovremo adoperarci a far parti accurate di questo "pane" affinché il poco lavoro che ancora rimane sia distribuito fra quanta più gente possibile. Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi.
Dovremo attenderci cambiamenti anche in altri campi. Quando l'accumulazione di ricchezza non rivestirà più un significato sociale importante, interverranno profondi mutamenti nel codice morale. Dovremo saperci liberare di molti dei principi pseudomorali che ci hanno superstiziosamente angosciati per due secoli, e per i quali abbiamo esaltato come massime virtù le qualità umane più spiacevoli. Dovremo avere il coraggio di assegnare alla motivazione "denaro" il suo vero valore. L'amore per il denaro come possesso, e distinto dall'amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po' ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali. Saremo, infine, liberi di lasciar cadere tutte quelle abitudini sociali e quelle pratiche economiche relative alla distribuzione della ricchezza e alle ricompense e penalità economiche, che adesso conserviamo a tutti i costi, per quanto di per se sgradevoli e ingiuste, per la loro incredibile utilità a sollecitare l'accumulazione del capitale.
(…) Vedo quindi gli uomini liberi tornare ad alcuni del principi più solidi e autentici della religione e della virtù tradizionali: che l'avarizia è un vizio, l'esazione dell'usura una colpa, l'amore per il denaro spregevole, e che chi meno s'affanna per il domani cammina veramente sul sentiero della virtù e della profonda saggezza. Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all'utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l'ora e il giorno con virtù, alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle cose, i gigli del campo che non seminano e non filano.
Ma attenzione! Il momento non è ancora giunto. Per almeno altri cent'anni dovremo fingere con noi stessi e con tutti gli altri che il giusto è sbagliato e che lo sbagliato è giusto, perché quel che è sbagliato è utile e quel che è giusto no. Avarizia, usura, prudenza devono essere il nostro dio ancora per un poco, perché solo questi principi possono trarci dal cunicolo del bisogno economico alla luce del giorno. (…)
In questo frattempo non sarà male por mano a qualche modesto preparativo per quello che è il nostro destino, incoraggiando e sperimentando le arti della vita non meno delle attività che definiamo oggi "impegnate".
Ma, soprattutto, guardiamoci dal sopravvalutare l'importanza del problema economico o di sacrificare alle sue attuali necessità altre questioni di maggiore e più duratura importanza.


Il testo è tratto dal sito www.nextonline.it, Orario e salario
Testi di Giovanni Agnelli, John M.Keynes, Frederick W.Taylor (con un commento di Aris Accornero)

L'immagine dal sitowww.terrediconfine.eu, è del film The Time Machine, G.Pal 1960.

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