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5 maggio 2008

Ambiguità

Giovanni Laino


Ambiguo è qualcosa che può prendersi in due o più sensi. Qualcuno o qualcosa di poco chiaro, che lascia dubbi. Aggiunto ad una persona suggerisce sospetto, segni di contraddizione fra la superficie e il contenuto.

Ma l’ambiguità è anche pluralità di sensi, che, generando fraintendimenti e malintesi, consente e sollecita il confronto sociale con buone dosi di dialogo e di conflitto. Alcuni hanno messo in rilievo l’arte di scrivere testi ambigui, capaci di raccogliere l’adesione di persone con posizioni distinte e separate.

Abbiamo molte occasioni per riflettere sulla rilevanza di questa categoria nelle nostre esistenze. Il libro “L’ambiguità” di Simona Argentieri, edito da Einaudi, ne mette in luce diverse.

Partendo da un forte ancoraggio disciplinare – di pratica e ricerca psicoanalitica – l’autrice che da anni si occupa del tema, testimonia di aver trovato la questione dell’ambiguità intesa come malafede in diversi ambiti: dall’educazione degli adolescenti, alle pratiche professionali, al senso civico con ampie zone di contraddizioni di tanti che criticano quello che fanno gli altri, realizzando poi pratiche non sempre ortodosse e coerenti. L’autrice osserva un particolare atteggiamento mentale subdolo e sfuggente, difficile da definire, che si può riconoscere come una tendenza a vasto raggio in crescita nelle nostre società. Un fenomeno psicologico al confine fra l’esperienza clinica e la vita, tra la patologia e l’etica che si può definire come “malafede.”

Un’assai diffusa micropatologia, una sorta di ambiguità del pensiero che consente a livello individuale e collettivo di eludere la fatica delle proprie responsabilità e delle proprie scelte, in una deriva silenziosa ma inarrestata, che può far scambiare la frequenza statistica con la legittima normalità. Una mancanza di sincerità, di credibilità, di autenticità ai vertici del potere, ma, anche a tutti i livelli della scala intellettuale e sociale. Nel testo è scritto che nella persona con forti tratti ambigui possono alternarsi sulla scena della coscienza aspetti di sé incompatibili, senza generare nel soggetto né conflitto, né confusione. Quante volte parlando di personaggi pubblici, impegnati in politica, nelle università o negli affari, si dice “si è venduto anche la madre”.

Anni fa, confrontandomi con amici ricercatori di altre città europee, parlando di alcuni profili di uomini politici, giocosamente ho proposto la categoria del “post cinico.” Intendevo mettere in luce che non si tratta più di persone che con doppiezza predicano bene e fanno male, ma di personalità che hanno assunto come lecito, suggerito e legittimato dalla sensatezza delle cose, la realizzazione di pratiche sostanzialmente disancorate da cornici di valore.

Ci si trova nel fluire di una realtà che si modifica vertiginosamente, ove è molto frequente fare l’esperienza del frammento, della scissione, dell’appartenenza ad arcipelaghi sociali, con ampie zone di precarizzazione crescente. Sono aumentati (non per tutti allo stesso modo), i gradi di libertà, con grande diminuzione dei limiti, ridefinizione di confini a geometrie variabili, quasi sempre discutibili. E’ stato messo giustamente e utilmente in crisi il principio di autorità, sono stati dimessi molti rituali di passaggio. Non è il caso di rimpiangere e cercare di proporsi opere di restauro di per se impossibili, ma certo ai vuoti va dato qualche senso e qualche contenuto. Anche perché, questo grande heppening, offre un terreno malauguratamente favorevole ai fenomeni spiccioli e fluttuanti della episodica regressione all’ambiguità e delle microscissioni della malafede. Argentieri mette in luce i non nobili tratti psicologici delle società del benessere: le piccole infelicità croniche, il risentimento, l’autarchia psicologica, l’avarizia affettiva che poi lamenta la solitudine, l’aggrapparsi alla corporeità e alle sensazioni per cercare le proprie emozioni; e soprattutto il grande equivoco della nostra epoca: che il sesso, inteso come concreta attività sessuale e non come mezzo per incontrarsi con l’altro, possa essere perno integratore dell’identità e lo strumento della felicità terrena.

L’autrice mette in luce un’ipocrisia di massa, si trovano sempre più spesso tanti giudici severi delle disdicevoli condotte sociali ma pochi sono poi i testimoni che si propongono l’onere della coerenza con quello che si fa. Il meccanismo della malafede può aiutarci a capire un paradosso che è tipico della società italiana: un altissimo grado di indignazione civile, espresso vivacemente in pubblico e in privato da tutti i ceti sociali, che si accompagna però a un bassissimo grado di impegno nel cambiamento. Forse la sterilità di tutta questa indignazione si basa su una radice infantile; sull’equivoco di sentirsi in diritto di rivendicare un credito inesauribile verso il mondo. Siamo in troppi a sentirci “bambini meravigliosi”, soggetti solo di diritti e privilegi.

Ma l’analisi è necessariamente da approfondire anche per evitare un generico lamento, esposto anche a pericolose derive, contro forme di relativismo culturale e etico. Citando un suo precedente lavoro l’autrice ripropone l’ipotesi di un “funzionamento polilogico” della mente; cioè di funzionamenti simultanei che mettono in scacco il funzionamento coeso e coerente della mente, non solo in situazioni patologiche estreme e non solo nei polilingui, ma anche nella quotidianità di tutti noi. Ciascuno è abitato da più “voci”, non sempre unificabili nel dialogo con noi stessi e/o con un confidente.

Il libro si apre con una deliziosa battuta di Altan: “Cosa dice la sua coscienza ?” Ne ho diverse: sono indeciso su quale mi conviene usare.

Certo non bisogna esagerare, le strade dell’esplorazione della confusione, dell’innovazione sono lastricate di opportunismi, ma sembra evidente che c’è un nuovo disagio della civiltà che va attraversato e le misure di sicurezza scarseggiano.


Simona Argentieri (2008)L’ambiguità, Einaudi, Torino, pp.123, 9 Euro

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