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27 maggio 2008

La città morta la città viva

Il Mattino 27/05/2008

La città morta la città viva
Aldo Masullo

In qualcuno dei pochi e brevi momenti di oziosa pausa dai consueti impegni mentali, mi sono sorpreso a divertirmi nel gioco solitario di cercar di capire chi sia Giuliano Ferrara: un estroso giornalista di ventura, un erudito uomo di lettere baroccheggiante, un teatrale narcisista, un collezionista di paradossi ideologici, un neodannunziano pitigrilleggiante, un raffinato reazionario alla Guareschi, un ateo devoto o un furbo burlone, un vecchio vinto da giovanile bulimia intellettuale o un giovane tanto intelligente da fingersi vecchio per prendere in giro se stesso? «Eureka», ho trovato! O credo di aver trovato di che finalmente soddisfare la mia peregrina curiosità. Ieri mi capitò di consultare «Il Foglio», lo spiritoso lenzuolo densamente stampato che Ferrara dirige e riempie in gran parte. Un breve ma non sobrio intervento, firmato con la rossa sagoma dell’elefantino (con proboscide rigorosamente alzata perché, si sa, abbassata porta male), autoironico simbolo del direttore, recava un titolo da seduta spiritica: «Napoli, fatti viva sennò sei molto morta». Incuriosito lessi e finalmente ora tutto mi sembra chiaro, come per una folgorante illuminazione. Ho finalmente capito che Ferrara non esiste. Nello spazio del mondo non c’è un vivente corpo che risponda a questo nome. Ferrara non è una persona, è un personaggio immaginario. È il tipo che egli ammira e di cui teme come sventura nazionale l’eventuale scomparsa: il «Gran Signore Napoletano charmant capace di spiegare l’inspiegabile», «liberale borghese e giacobino, ma anche aristocratico e schiettamente reazionario, ma sempre ben intagliato nel fiume della parola napoletana», colui insomma da cui tutti sono «sempre convinti, edotti, fatti furbi e anche fessi».
Ora, un tal «Signore Napoletano» non esiste, e non è mai esistito, è un mito autoconsolatorio, una leggenda metropolitana. Mi fa, se mai, ricordare con un grato sorriso un napoletano di nobile aspetto e di gran portamento, che negli anni cinquanta, in una Friburgo immiserita dalla guerra, di tanto in tanto rendeva possibile a un gruppetto di noi, giovani studiosi italiani, stremati per le zuppe e le patate tedesche, di rifarci bocca e stomaco, pilotandoci con aria di autorevole sicurezza, senza che il militare di guardia osasse chiedergli il lasciapassare, nella ricca mensa degli ufficiali di occupazione francesi. Allora quell’indimenticabile napoletano viveva facendo il «magliaro». Napoletani così sono elementi di «protezione civile» fai-da-te. Ma il «gran Signore Napoletano» è puramente immaginario. Altrettanto lo è Giuliano Ferrara che con gran passione ne fantastica il fascino ambiguo, anzi con lui s’identifica, fiero che i suoi lettori da lui «sian fatti furbi e anche fessi». Non un giornalista in carne e ossa ma soltanto un personaggio immaginario può essere tanto distratto da non essersi mai accorto che Napoli non è affatto morta. Essa vive, e strenuamente resiste come fortezza assediata dall’esterno e, ancor più pericolosamente, dall’interno. Se non fosse immaginario, un giornalista attento in tutti questi anni che precedono la catastrofe «immonda», non avrebbe potuto non accorgersi delle voci, poche quanto si vuole, che si levavano ammonitrici. Sono state voci della Napoli operosa e civile, indipendente da ogni potere e perciò ai poteri sostanzialmente invisa, e non hanno mai cessato di levarsi. Non posso qui fare che l’esempio più vicino a me. Che sa Ferrara di quel che avvenne, tanto per non andare troppo indietro nel tempo, il 19 novembre 2004, quando nell’Università Federico II, in una memorabile assemblea, ripresa anche da televisioni straniere, il Mattino e io lanciammo il manifesto «Salviamo Napoli», pubblicato e per molti mesi sostenuto su queste pagine in un aperto confronto con i cittadini, mentre le istituzioni e quella stessa parte di borghesia potente, che aveva sostenuto Bassolino nel non fare quel che avrebbe dovuto, ignorarono la civile provocazione e la lasciarono cadere in una minacciosa indifferenza, contro l’entusiasmo della borghesia senza potere? Non è mai capitato al direttore del «Foglio» di leggere, per dovere professionale, quel che io pubblicavo, sempre sul Mattino, il 30 ottobre 2006, ponendo la stessa domanda che lui solo adesso si ricorda di porre? Io a proposito dell’avanzante crisi delle «immondizie» scrivevo, e mai come oggi sento di doverlo riscrivere con amarissimo orgoglio: «Un disastro così lungo, da apparire irreparabile, non ha comunque padre! Se il disastro tutti ci colpisce come uomini, quel che ci oltraggia come cittadini di uno Stato civile e democratico è che nell’intero decennio non solo nessuno, titolare di competente potere, è stato capace di dare impulso alla soluzione del vitale problema, ma nessuna autorità istituzionalmente responsabile - né ministri, né governatori, né sindaci - ha sentito il dovere di spiegarci seriamente perchè soltanto a noi campani e soprattutto a noi napoletani tocchi il penoso privilegio di non poter contare, pur pagandolo a peso d’oro, su di un regolare ed efficiente servizio di smaltimento dei rifiuti. A chi giova questa torbida confusione? Chi sono i responsabili, e in qual misura ognuno di essi è corresponsabile: titolari di istituzioni di governo a tutti i livelli, eterogenea tecnocrazia, manovrate popolazioni? Al limite noi cittadini impotenti, all’indirizzo di un pubblico potere che non cessa di proclamarsi stupefatto e allibito saremo costretti a ripetere, anche se con ben diverso spirito - non di faziosa ostilità bensì di democratica polemica -, la celebre invettiva di Cicerone contro Catilina: fino a quando abuserai della nostra pazienza? Ferrara ora si domanda se mai c’è «un napoletano di grido, uno straccio di scrittore, di professionista, di magistrato, di accademico, un capopopolo, un filosofo...» che parli. Ebbene, parlo io per contestargli ch’egli è un giornalista distratto, dunque immaginario. Un filosofo in carne e ossa, per quanto piccolo, è testimone più attendibile di un grosso ma immaginario giornalista.

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