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18 aprile 2008

Riprendimi*, con cura



di Giovanni Laino*


Due sceneggiatrici, Anna Negri che è anche la regista e Giovanna Mori, in modo autoironico e sapienziale si immedesimano in due documentaristi – i più precari di tutto il racconto – che investono le poche risorse che hanno, per fare un film sul precariato, riprendendo la vita quotidiana di una coppia di cineasti che da poco hanno avuto un bambino.

Nel film Riprendimi il due, il duale, è uno schema molto utilizzato nei diversi modi di costruire e realizzare il testo. Della coppia che si separa, Lucia fa la montatrice: è brava nei tagli e nelle ricomposizioni delle scene di vita degli altri ma prova un lancinante dolore dovendo trattare quelli che riguardano la sua esistenza; fa fatica, ma ne esce, cercando con fiducia una qualche disciplina della vita, trovando l’uomo che con più cura la riprende. Giovanni fa l’attore e, un po’ per opportunismo, un po’ perché realmente attraversato dalla crisi, da irrequietezze interiori, si sente vagabondo. Non è privo di ambiguità e non a caso interpreta Pietro, quello che tradisce ma anch’egli prende coscienza: “non è colpa di nessuno” e, attraversando le onde fra anelito alla libertà e bisogno di sicurezza, continua a procreare. I due conservano tratti adolescenziali nel misurarsi con la crescita di un bambino e, anche a causa della precarietà, mostrano lacune nella maturazione affettiva.

Per seguirli in presa diretta quando si dividono, anche il cameraman e il fonico devono separarsi. Si ritrovano solo per consumare un panino o un trancio di pizza in auto e fare il punto di un progetto che va spesso in crisi. La dualità attiene anche alle due principali figure maschili: Giovanni uomo viziato dalle cattive abitudini e dall’egoismo che lo spinge ad anteporre la sua felicità ad ogni cosa e Eros, il cameraman, tenero e rispettoso.

Come in un libro di Franco La Cecla, il film parla dell’inevitabile conflitto nei congedi, anche quando uno dei due, con forza, implora:lasciami ! In realtà il film tratta della separAzione che, esito sempre più frequente della debolezza dei rapporti, è una condizione trasversale della vita contemporanea. I due filmaker cercano di documentare come l’instabilità lavorativa influenzi la storia affettiva sino a determinare precarietà dei legami. Pur prendendo coscienza di quanto scombussolamento può comportare la frammentazione e la rarefazione della società liquida, qualcuno fa notare che dall’epoca dei nonni, “le corna sono le corna” e implicano sempre una rottura di un patto di lealtà oggi sempre meno sostenuto da vincoli e conformismo sociale.

Uno dei meriti del film è la presentazione molto realistica, ironica e tenera dei personaggi, di atmosfere, anche paradossali. La scena del set della fiction con i frati intorno al povero Cristo, rappresenta forse una generazione di maschi che non sanno che fare, disorientati fra vecchi modi di fare sessisti, cornici di senso non più idonee e limitata capacità di amare. Come pure le diverse scene che riportano il peso delle routine quotidiane in cui coloro che si ritengono creativi e talentuosi, si sentono spesso imprigionati.

Il film mantiene una cifra di commedia italiana che, pur emozionando, non intende intristire, senza nascondere l’esperienza della morte: in questa mutazione delle condizioni di vita, forse anche più di prima, nel disorientamento e con il mal di cuore, c’è chi resta solo e chi non c’è la fa.

Evitando facili semplificazioni, le autrici suggeriscono che è nell’amore che occorre aver fiducia, considerando la cura, l’accuratezza nel fare con tenacia un lavoro, nel preparare del cibo, come nel rispetto dell’altro, un criterio di discernimento nell’incertezza che non può scomparire. Senza credere ai quadretti felici della pubblicità ingannevole, è necessario imparare a fare i conti con il mal di cuore e con la durezza di alcuni traumi che possono portare vicino o oltre la soglia di povertà. Affiora però anche una diversa prospettiva, meno sostenibile: nell’esperienza del senso di inadeguatezza dei personaggi più che il mal d’amore emerge un nuovo disagio della civiltà, che come “il coltello della dispersione” scompone la struttura profonda del modo di sentire e cercare se stessi e il legame con l’altro, i modi possibili della convivenza. Certo ha senso costruire forme solidali recuperando le tracce di comunità che pure ci sono ma occorre prendere atto che la stabilità, la continuità così come vissute nel Novecento non sono più possibili, nel lavoro come nell’abitare, forse anche nell’amare.

*Riprendimi, Film di Anna Negri, con Alba Rohrwacher, Marco Foschi


** Su La Repubblica Napoli del 13 aprile 2007


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