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23 aprile 2008

I contenuti e le forme


Una delle migliori analisi sulla recente sconfitta elettorale l’ho ascoltata in televisione, non in una delle ormai ripetitive trasmissioni di approfondimento, ma in una un po’ frettolosa inchiesta del Tg3 sulle ragioni del voto alla Lega. Una donna di Brescia (ricca città lombarda, fiore all’occhiello del centro sinistra che per un decennio, forse più, l’ha amministrata avremmo detto bene fino a questo 14 aprile che l’ha riconsegnata al centrodestra), figlia di un operaio che aveva fatto scioperi e lotte per conquistare condizioni di lavoro in fabbrica umane e il diritto alla pausa per mangiare, raccontava che lei, invece, per poter lavorare aveva dovuto accettare 6 euro l’ora di salario per otto ore al giorno, tutte continuate senza fermarsi mai neanche, appunto, per mangiare. Certo, diceva, è colpa dei padroni che te lo impongono, ma è anche colpa degli immigrati che accettano condizioni di lavoro per noi, fino a poco tempo fa, inimmaginabili. Oggi se io voglio lavorare, concludeva, devo accettare poca paga e nessuna pausa. Allora, probabilmente, è anche per questo che abbiamo perso. Non abbiamo capito quella globalizzazione di cui, in fondo anche noi abbiamo per un tempo cantato le lodi per l’illusione di sviluppo e di benessere che artificiosamente si portava dietro promettendolo anche nelle parti di mondo dove la miseria e la povertà sembravano infinite, erano invece un abbaglio. Ho ancora nelle orecchie le parole più volte e in più occasioni ripetute da D’Alema quando affermava convinto che proprio grazie ad essa milioni di uomini e donne dei vari Sud del mondo avevano potuto sconfiggere la fame e immaginare un futuro immediato di sviluppo. Si certo in parte questo è accaduto ma è stato possibile perché – come ci ha spiegato Gallino in un suo recente libro, 500 milioni di lavoratori e lavoratrici dei paesi sviluppati sono stati messi in competizione con un miliardo e mezzo di lavoratori dei paesi non sviluppati. E in questa competizione hanno perso tutti, quelli del nord e quelli del sud perché ovunque il lavoro è stato ridotto come forse mai prima, a merce. Merce che sul mercato planetario ha davvero poco valore perché sovrabbondate. Merce che in Italia ha davvero poco valore e che ancor meno ne avrà dal 13 e 14 aprile del 2008. Ecco io penso che noi, la sinistra, non abbiamo saputo cogliere questo passaggio epocale di cultura politica, di senso, e poi anche di politica economica. Abbiamo proposto provvedimenti e leggi che cercano di mitigare gli effetti di questa che abbiamo interpretato (quando siamo stati bravi) come una riduzione di diritti e mai come svalorizzazione, abbiamo cercato di ridurre la precarietà senza capirne né le cause vere né gli effetti reali sulla vita di donne e uomini senza più futuro e dall’identità incerta. Siamo arrivati al punto che registriamo i numeri dei morti quotidiani in fabbrica, in cantiere, o sulle impalcature senza che questo conteggio muti di una virgola il nostro agire quotidiano, la nostra capacità di intervento. E siamo arrivati al punto che in Egitto e in chissà quale altro paese africano assaltino i forni come nell’Italia descritta da Manzoni e non ne parliamo, forse neanche ci fermiamo sui pochi trafiletti di giornale che ne danno scarse notizie. Ma i morti italiani e gli assalti ai forni egiziani, questi sì, sono legati tra loro, sono effetto dello stesso capitalismo iperliberista della finanza e delle rendite che sta precipitando il pianeta una crisi dagli effetti imprevedibili, e che sta distruggendo se stesso. Ma noi, la sinistra, dove eravamo mentre tutto questo succedeva? E dove siamo oggi quando Montezzemolo lancia il guanto di sfida finale al sindacato (che per altro anch’esso è col fiato corto) ? Certo dobbiamo elaborare il lutto di una sconfitta che non avevamo previsto ne preventivato. Ma se continueremo a dilaniarci cercando responsabilità e colpe che non sono di singoli ma certamente collettive e non riguardano solo la tattica delle ultime settimane, ma l’insufficiente comprensione e la inadeguata strategia degli ultimi vent’anni, staremo fabbricando la corda con la quale impiccarci. Le discussioni sulle forme organizzate, sui percorsi, sui contenitori sono importanti ma – credo – vengono dopo. O comunque vengono insieme ad un ragionamento su quale modello economico, sul valore del lavoro, su chi vogliamo rappresentare e perché. Le forme sono importanti ma senza tutto questo e l’umiltà della ricerca e dell’ascolto, rimangono vuote.

Roberta Lisi

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