Traduzioni

19 febbraio 2008

Una testimonianza dal Cantiere “Arcipelago Napoli

di Enzo Venditto


Come è già stato riportato da altri al Cantiere napoletano c’erano operatori sociali, rappresentanti di associazioni, movimenti, semplici cittadini, in pratica persone attive nella società civile e nella cultura della città

Naturalmente non è facile dire quale sia oggi il sentire dei “cantieristi” napoletani nei confronti della crisi politica che sta attraversando il paese ed in particolare la “sinistra”. Eppure alcuni umori al Cantiere sono emersi in maniera così evidente che per riassumerli non bisogna certo fare opera di equilibrismo “politico”.

Alla maggioranza dei presenti la “politica” così com’è non piace, non ne sopportano più i linguaggi, e le sue contingenti finalità. Negli interventi, nei dibattiti o nelle chiacchiere nei momenti di pausa pranzo, i sentimenti più diffusi nei confronti dei partiti politici e del sistema politico in generale, sono analoghi a quelli che si sentono in giro fra la gente e sul web: c’è molta disillusione, anche noia e a volte vera e propria rabbia. Insomma i cantieristi, come molti nella società civile oggi, vivono pienamente la crisi del sistema dei partiti e delle forme della democrazia partecipata. E’ forte la sensazione che ci sia una reale carenza di democrazia, al punto che è abbastanza diffusa la sensazione di essere come cittadini “invisibili” al cospetto dei partiti, anche quelli della variegata e frantumata sinistra. Tutti esprimono un urgente bisogno di recuperare spazi politici.


Apparentemente al Cantiere è emerso un approccio “strategico” comune, basato sulla necessità di sviluppare nuove forme di democrazia partecipata attraverso la creazione di reti che mettano insieme associazioni, movimenti, comunità ma anche semplici cittadini. Attraverso le reti i “cantieristi” credono sia possibile ritrovare interessi convergenti a patto però di partire dagli ambiti territoriali. Infatti molti hanno evidenziato che è proprio dall’abitare un territorio che oggi provengono i diritti più diffusamente espressi dai cittadini. Naturalmente è anche stato sottolineato come sia possibile cercare convergenze tematiche a partire da obiettivi limitati, anche perchè tutti riconoscono l’importanza di fare massa critica (stare da soli è perdente).


Gli aspetti più controversi del dibattito nel cantiere napoletano sono invece, a mio avviso, quelli che hanno riguardato la questione di quale “tattica” che sia utile adottare per aprire nuovi spazi di democrazia.

Qui i cantieristi mi sono sembrati divisi un due gruppi (che definisco gruppi 1 e 2):

Per quelli del gruppo 1, le reti devono tendere a diventare veri e propri “soggetti politici” che quindi siano portatori di un compiuto “progetto politico”. Per questi cantieristi la rete potrebbe avere lo scopo di mettere a punto “buone pratiche” da sperimentare nei territori, non sostituendosi allo stato ma indicando risposte ai problemi nell’attesa di un feed-back da parte della politica, dei partiti, dello stato, a cui in ogni caso va demandato il vero cambiamento, nell’auspicio che questo passi attraverso la concretizzazione delle sperimentazioni messe in atto dalle reti.


Per quelli del gruppo 2, le reti invece sono uno strumento per conoscersi, capirsi, sentirsi parte di una nascente comunità (democratica). In pratica la rete è sentita come uno strumento che tessendo nuovi legami di interdipendenza permetta di fare comunità. Questo gruppo, sente come prioritario resistere agli assalti della globalizzazione neoliberista per fortificarsi e, nel contempo sperimentare “buone pratiche” da far diventare patrimonio di tutta la società civile in modo che queste rappresentino prime forme condivise di democrazia partecipata. Questi cantieristi vedono nella rete la possibilità per produrre nuove culture che superino l’esistente, un luogo, cioè, dove riflettere sulle conseguenze negative dello sviluppo (così evidenti nella Napoli invasa dai rifiuti) e dei luoghi comuni della “crescita”. Per questo gruppo la rete deve nascere a partire dallo sviluppo di nuove “prassi“, nuovi metodi che mettano al centro la valorizzazione delle “cose fatte dagli altri” e che diano pari dignità ai soggetti, anche a costo di mettere in sordina qualche pezzo della propria identità.

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