Undici tesi dopo lo tsunami
Ultima modifica: martedì 1 luglio 2008
Centro per la Riforma dello Stato
1. Aprile 2008: va rilevato il tratto di discontinuità, forse di salto. Non si può riprendere il discorso dall’heri dicebamus. Occorre un cambio di passo, nella ricerca e nell’iniziativa. Non stava scritto che la transizione si chiudesse a destra. Ma così è avvenuto. E tuttavia non è la sorpresa il sentimento dominante: i segni c’erano, nel paese, e anche a Roma. Perché non siano stati letti, è il problema. D’altra parte, non è la paura il sentimento che ci deve dominare. Non c’è Annibale alle porte, non ci sarà un passaggio di regime. C’ è una nuova destra, di governo, e di amministrazione, da sottoporre ad analisi e da contrastare nella decisione, con uno scatto di pensiero/azione.
2. Si conferma il dato, che viene da lontano, di una maggioranza di centro-destra nel paese reale. Negli ultimi quindici anni, l’opinione di centro si è avvicinata all’opinione di destra. Se la Dc era un centro che guardava a sinistra, Forza Italia è un centro che guarda a destra. Questo ha dato l’illusione che ci fosse un residuo di centro da conquistare a sinistra. C’era, ma meno consistente di quanto si pensasse. I mutamenti, non colti, di società, a livello di territorio, sono stati più forti dell’iniziativa politica. Sono state due le risposte a questi smottamenti di opinione: una a vocazione maggioritaria, una a vocazione minoritaria. La prima, una risposta, diciamo così, espansiva: competere al centro, per togliere al centro-destra un pezzo di consenso. Così, i Progressisti, poi l’Ulivo, poi l’Unione, poi il Partito democratico. Che quest’ultimo potesse assolvere a questa funzione da solo come un tutto, si è dimostrato un progetto, a dir poco, non realistico. La seconda, una risposta, diciamo così, difensiva: marcare una posizione alternativa, con una grande ambizione e una piccola forza. Non si può essere, troppo a lungo, anticapitalisti e deboli, antagonisti in pochi. Aprile, il più crudele dei mesi: due fallimenti, del centro-sinistra e della sinistra, del grande partito di centro-sinistra e della piccola aggregazione di sinistra.
3. Qui, un punto teorico-politico, che va affrontato. Si potrebbe chiamare l’equivoco della rappresentanza. Anzi, il rapporto tra l’equivoco della rappresentanza e quella che si dice la crisi della politica. Che cosa viene prima, una crisi di rappresentanza sociale o una crisi di proposta politica? Che cosa fa più difetto, la rappresentanza o la rappresentazione? Proviamo a rovesciare il senso comune. E diciamo così: la crisi della politica comincia non quando la politica non sa più ascoltare, ma quando la politica non sa più parlare. Certo che bisogna ascoltare, la rappresentanza è essenziale, capire la società, conoscerla, ma non è tanto la mancanza di questo che sta al fondo della crisi della politica. Il fondo della crisi della politica è nel crollo di soggettività politica, nella caduta, relativamente recente, della proposta soggettiva. La politica non sa più parlare proprio perché non sa più leggere, non sa più interpretare. E quindi non sa orientare, non sa dirigere. L’equivoco della rappresentanza è il fatto di assumere il dato così com’è, anche il dato della società, anche il dato della maggioranza di centrodestra nel paese. Se tu lo assumi così com’è, e cerchi di correggere questo, e non ti fai carico invece di una proposta politica forte, lì inneschi appunto un processo che va a finire nella crisi della politica. Prima produci l’antipolitica e poi ti fai carico di rappresentarla.
4. Quando la politica non sa più parlare, allora viene fuori un ceto politico, e un ceto amministrativo, autoreferenziale, che parla a se stesso e di se stesso, perchè non sa più parlare al paese, alla società. Questo ceto politico, impegnato a occuparsi di se stesso, entra nella logica di qualsiasi altro ceto, di qualsiasi altro corpo della società. Per garantirsi il consenso insegue le pulsioni di massa. Più le rappresenta, più vince. La politica non è scollata dalla società civile, è incollata ad essa. Se società civile è il campo degli interessi particolari e degli egoismi corporati, allora la politica di oggi non la rappresenta poco, piuttosto le assomiglia troppo. Questa politica è un pezzo di questa società, subalterna alle leggi di movimento, nazionali e sovranazionali, attraverso cui essa si autogoverna. Di qui, la crisi di senso dell’agire politico, vero e proprio fatto d’epoca del nostro tempo. Perché, compito principale della politica non è dare risposte, è fare domande. E’ la politica che deve interrogare la società, e il dato che c’è, deve appunto saperlo leggere, decifrare, tradurre, e solo dopo che lo ha interpretato, può rappresentarlo, ma mai rappresentarlo come riflesso passivo, mai specchiarlo così come si presenta oggettivamente, nel suo gioco incontrollato di forze.
5. Quale, su questo punto, la differenza tra l’adesso e ieri? In passato c’erano le grandi classi, che avevano una voce, che parlavano, esprimevano, sì, interessi, ma grandi interessi, di per sé riconoscibili. In quel caso la politica era più facilitata a rappresentare, a raccogliere, perché la voce veniva da potenti aggregati, già autonomamente, in qualche misura, organizzati. Era meno importante allora leggere e interpretare, era più possibile direttamente rappresentare. Ma quando le grandi classi si disgregano, e ti trovi di fronte a una società frammentata, pluralistica, corporativizzata, cetualizzata, anarchicamente individualizzata, quando non c’è più quindi voce sociale, aumenta l’obbligo della voce politica. Parlare a questa frammentazione, vuol dire elaborare una proposta riunificante. Il sociale ormai, nel capitalismo dopo la classe, va costruito, non va descritto. Produrre legame sociale, e produrlo attraverso il conflitto, o meglio, attraverso i conflitti, ecco il volto nuovo della Sinistra, dopo il Movimento operaio. La Destra, nemmeno la nuova destra, può e sa farlo. Il discrimine è qui. Fare società, ma con la politica: se deve esserci missione, per la Nuova Sinistra, questa è.
6. C’è un’ondata di destra, che arriva, con il solito ritardo in Europa, dall’America di Bush, proprio mentre lì va forse declinando. E’ una febbre da rivoluzione conservatrice in tono minore, che attacca i corpi malandati dei nostri sistemi politici. Lo schema è quello tradizionale: la paura come risposta al disagio. Perché la paura non è la causa scatenante, la causa scatenante è il disagio, di società, di umanità, e quindi di civiltà. La paura è un rimedio mobilitante per chi non ha difese, e dunque le cerca, per chi non ha sicurezza del futuro e dunque cerca sicurezza almeno nel presente. La destra corrisponde di più e meglio al lato oscuro dell’animo umano, e la sinistra ha i Lumi ma da tempo li tiene spenti. Una tesi politica, controcorrente, da sostenere a questo punto con buone ragioni potrebbe dire così: la destra vince perché non c’è la sinistra. E’ una tesi dimostrabile empiricamente, ultimi dati elettorali alla mano, nel paese Italia e, soprattutto, in quell’evento simbolico che è la caduta di Roma: non ha sfondato il centro-destra, è franato il centro-sinistra. La verità da cominciare a dire è che il centro-sinistra non ha futuro se non si riorganizza intorno a una Grande Sinistra.
7. C’è un retroterra di questo discorso, di cui bisogna essere consapevoli, un discorso di lungo respiro, che funge un po’ da convitato di pietra di tutti i nostri pensieri. Dice questo: la destra vince, perché il capitalismo è forte. Sta forse esaurendosi il ciclo neoliberista e sta forse riguadagnando spazio il ruolo delle politiche pubbliche, e c’è da capire dove cadrà l’accento, se sul passaggio di crisi o sul passaggio di ristrutturazione. La sfida è a livello globale, e sarebbe bene non lasciare alla destra tutta intera la denuncia degli effetti perversi della globalizzazione mercatista. Il capitalismo è forte perché riesce a tenere ancora insieme innovazione di sistema, democrazia politica ed egemonia culturale. Un blocco di potenza che ha permesso fin qui a proprio favore due, e due sole, soluzioni di governo: o un centro-destra forte o un centro-sinistra debole. La virtuosa alternanza nei sistemi bipolari o bipartitici, modello Westminster, si sappia, ha questo vizietto di fondo. In queste condizioni, non c’è spazio né per una politica di pura gestione né per una politica di mera contestazione. C’è posto solo per una guerra di posizione, di media durata. La difficile situazione economica impatterà con il governo politico della destra. E l’emergenza, che sembrava dover essere istituzionale, magari sarà di più sociale. La storia-mondo, poi, è un campo di imprevedibili eventi, se non la si guarda con la pappa del cuore, ma la si afferra con la lucida intelligenza di una politica-mondo. Qui c’è un terreno favorevole per la sinistra, se saprà essere meno Proteo e più Anteo, se saprà di meno apparire in tante forme e di più ritrovare la sola terra da cui ricava la propria forza.
8. Bisogna dire: il popolo della sinistra ha il diritto di avere, per sé, una forza politica. E poi dire: l’Italia, per stare in Europa e nel mondo ha bisogno di una sinistra. Non di una piccola sinistra, residuale, testimoniale, arroccata nei passati simboli e nelle antiche identità, ma di una Grande Sinistra, moderna, critica, autonoma, autorevole, popolare. Non si può concedere che l’anomalia italiana si ripresenti oggi nella forma dell’eccezione di un paese senza una grande forza politica che rivendichi con orgoglio questa funzione, nel nome, nei fatti, nei valori. Il problema di oggi non è: che cosa è sinistra, ma chi è sinistra. Più che conoscere, si tratta di andare a ri-conoscere il popolo della sinistra. Ma, anche qui, riconoscere non vuol dire rappresentare, vuol dire costruire, o meglio, ricostruire un campo di forze, in grado di portare un progetto di trasformazione, strategicamente pensato e tatticamente agito. Fondare un popolo: questo il Beruf - vocazione/professione - della politica, quando non è chiacchiera ma discorso, non immagine ma idea, non affabulazione ma organizzazione.
9. La nuova e antica centralità: dare forma politica al pluriverso del lavoro. Ci vuole un’idea politica di lavoro, anzi, di lavoratore. Dopo l’esperienza storica del movimento operaio, in che modo la persona che lavora, uomo e donna in modo differente, può avere in quanto tale, non solo come cittadino, una funzione politica? Come i lavoratori associati possono contare politicamente? In che modo, per quali vie, con quali forme, possono esprimere un progetto di modello sociale, di sistema politico, di egemonia culturale? E, anche qui, chi sono oggi i lavoratori? C’è questo ceto medio acculturato di massa, che è diventato un po’ la caricatura del blocco storico per il centro-sinistra: perché è isolato e lontano dal resto della società reale. Ha una parte alta, che va verso le professioni, una parte bassa che va verso il precariato, a volte le due condizioni si congiungono. E’ prezioso lavoro della conoscenza, un decisivo pezzo di lavoro immateriale, con in mano il futuro di sviluppo del paese. Va ricongiunto al lavoro materiale, al lavoro manuale, che c’è anche quando manovra le macchine, al lavoro operaio, salariato. Il lavoro sans phrase, direbbe Marx. Ma qui ne va della dignità della sinistra il farsi carico e porre rimedio a questa disperata solitudine operaia, che si esprime, come abbiamo visto in tanti modi, a volte sconcertanti, che vanno riconosciuti, non giudicati. Solo assolvendo politicamente a questo compito si può riaprire il discorso sul nuovo “mondo del lavoro”. Lavoro e sapere, si dice oggi. Più la differenza del lavoro femminile. Il lavoro autonomo, di prima e seconda generazione, che va ricongiunto al lavoro dipendente, garantito o precarizzato. Così come il centro urbano va ricongiunto alle periferie metropolitane. Non è possibile accettare come un destino il rovesciamento di consenso che si è verificato tra questi spazi di territorio e in questi luoghi del sociale. Non è possibile. O altrimenti essere di sinistra non ha più senso politico. Ecco la vera missione di un forte partito della sinistra: recuperare il senso della propria funzione, nel “fare popolo” come “soggetto politico”. Ricongiungere, riannodare e stringere il nodo tra campo sociale e forza politica.
10. Diceva Brecht: sul muro sta scritto “viva la guerra”/ chi l’ha scritto, è già caduto. Adesso si dice: non si può tornare indietro. Chi lo ha detto, ha già messo un piede nel vuoto. Il nuovo a tutti i costi restaura il vecchio che avanza. Abbiamo avuto a nostre spese, qui e ora, una lezione da manuale. Calcoliamo bene le mosse, prendiamoci il tempo necessario. Ma non escludiamo a priori il fatto che a volte è necessario fare un passo indietro per saltare in avanti.
11. Intendiamoci su questo. Non si tratta di mettere insieme i pezzi della vecchia sinistra. Sarebbe un’operazione fuori tempo e senza spazio. Il vecchio bisogna sempre che sia quello dell’avversario, mai il nostro. Tutte e due le tradizioni, quella comunista e quella socialdemocratica, sono esaurite. Ma non si creda che sia allora viva, per i bisogni della sinistra, la tradizione liberaldemocratica. Il partito del popolo della sinistra è oltre tutta intera questa storia. Le componenti popolari si sono sfaldate, ma le loro culture in senso lato, cioè le tracce di civiltà, che esse hanno depositato nella storia del nostro paese, sono lì, in attesa di essere riconosciute,valorizzate, riorganizzate e riunificate con le nuove culture, con i nuovi grumi di civiltà: le esperienze di organizzazione con le esperienze di movimento, il socialismo con il femminismo, il cattolicesimo sociale con i diritti della persona, il lavoro salariato con l’ambientalismo politico, la cultura del conflitto con la cultura della pace. Tutto questo, insieme, è popolo della sinistra. E può diventare partito del popolo della sinistra. Non è un blocco, è un campo. Non si comporrà da solo. Bisogna comporlo. Ci vuole decisione politica e pensiero forte. Ma, ecco: non si deve scherzare con i propri riferimenti, pratici e teorici. Altrimenti si diventa un’altra cosa.