Sassolini nelle scarpe
di Rossana Rossanda
Scusate, ma mi devo togliere qualche sassolino dalla scarpa. Se no svengo.
1. Non ne posso più di inciampare ogni momento nella «contraddizione principale». Quale è, dove è, non è più quella di una volta. Sembra che non si possa aprir bocca, specie a sinistra, senza negarne una o indicarne un'altra. Cominciamo con l'intenderci.
Contraddizione non mi piace. E' contraddizione quando una parte nega l'altra. «Lei mi sembra matto, lei mi sembra sanissimo di mente» «Il sole gira intorno alla terra, è la terra che gira intorno al sole» sono contraddizioni. Ma nella discussione corrente, si accusa la sinistra di derivazione operaia di aver definito « contraddizione principale» quella fra capitale e lavoro. Temo che sia stato proprio così. Ma non vuol dire che fosse vero. Vero nel senso proprio di contraddizione: che si dà o l'uno o l'altro. E non è un esecizio di vocabolario. E' il capitale a produrre il salariato, il quale prima non esisteva. C'era il singolo che faceva la tal cosa per un altro e ne era retribuito, ma non era un salariato. Il vecchio Marx arriva a scrivere con provocatorio buon senso che un operaio solo non esiste, esiste assieme alla manodopera a lui simile messa all'opera per produrre, e produce non per l'uso suo né per quello del padrone, ma per l'accumulazione del capitale. Prima neanche il capitalista esisteva, padrone e proprietrio sì ma capitalista no. Adesso il capitalista non esclude gli operai, anzi. Non sono una contraddizione, ma un rapporto («un rapporto fra uomini, mediato da cose»).
Ma, mi si obietta, con «contraddizione» si voleva dire un rapporto irrimediabilmente conflittuale, il più importante. Ora non è più così. Nel senso che fra capitale e lavoro non c'è più rapporto? Veramente non ce n'è mai stato tanto. Mai stati al mondo tanti capitali e tanti salariati. La globalizzazione è globalizzazione dei capitali che svolazzano da tutte le parti, si posano o si formano anche dove non erano mai stati, comunicano in tempo reale in mercati, anch'essi comunicanti anche se accortamente divisi, e là dove si posano chiamano a diventare salariati, cioè operai, indigeni e immigranti. Mi pare innegabile.
E va bene, sarà così. Però se il rapporto fra capitale e lavoro c'è ancora, anzi più di prima, non è più conflittuale. Ah sì? Se il capitale si arricchisce sempre di più e gli operai sempre di meno, lo chiameremmo un rapporto «armonioso»? Sta scritto in tutte le tabelle ufficiali che della ricchezza prodotta la parte che va al capitale è sempre maggiore, mentre quella che va «al lavoro» cala. Non solo; essendo il costo del lavoro nella produzione non fisso ma contrattabile tra le due parti, il capitale cerca di comprimerlo al massimo. In passato gli operai avevano guadagnato unendosi, reclamando, protestando, scioperando per salari maggiori, accantonamenti per pensioni e sanità, per difendersi dal licenziamento; ma dagli anni '70 in poi il capitalista non cessa di rimettere in questione gli uni e gli altri, aiutato dagli stati, che al posto dell'antico «libertà, eguaglianza, fraternità» oggi si prefiggono «competitività»
E va bene. Sarà conflittivo ma non è più sentito come tale dai lavoratori. Dov'è l'operaio in lotta? Sarà, se pur c'è (Fiom a parte) una minoranza. Non c'è più la fabbrica all'angolo, neanche lo vedo. E se gli operai non si battono che conflitto è? Diciamo la verità, forse non c'è mai stato. C'era un datore di lavoro (termine più simpatico che capitalista) e uomini che liberamente contrattavano con lui il costo della loro prestazione. Non li definivano Free agent gli inglesi nel secolo XIX? Uno stato davvero liberale non si impegnava a non metter becco nella loro libertà di contrattare? Certo non si permetteva di fissare tempo e condizioni di lavoro, minimi salariali. Invece dal Fronte popolare in poi lo ha infaustamente fatto. Pochi anni fa in Francia ha obbligato i salariati a lavorare solo 35 ore, protesta Sarkozy: suvvia, aboliamo questa iniqua ingerenza. Ma sì, annuisce la settimana scorsa l'Unione Europea; noi dicevamo al massimo 48 ore, facciamo invece d'ora in poi 60, anzi 65! Più di dieci al giorno. Viva la libertà di lavoro! Sì sì, torniamo anzi al contratto ad azienda, anzi ad personam, applaude Emma Mercegaglia.
E le ex sinistre politiche tacciono. Se aprono la bocca è per dire «che volete, è la modernità». E aggiungono che comunque i salariati e i loro sindacati, peggio i loro partiti, a forza di insistere sul conflitto fra capitale e lavoro - che chiamavano «principale» mentre si trattava soltanto di vita o morte per fame o disoccupazione o malattia dei suddetti Free agent - dava poca o nessuna attenzione agli altri conflitti. Gli operai si mettevano assieme per garantirsi certi salari, certe pensioni e qualche difesa dal licenziamento, e si definivano «classe generale». E l'ambiente? E le donne? E le etnie? Chi li rappresentava? Nessuno. Brutti economicisti che erano. Brutta economicista anche tu che continui a cantare quella canzone! Buttatelo via questo conflitto, non interessa qui più nessuno. Ma andiamo.
2. Economicismo. Ecco un altro sassolino nella scarpa. Vorrebbe dire che il movimento operaio ed eredi s'è battuto fino a ieri per volgari soldi, più precisamente per assicurarli al solo maschio bianco, adulto e garantito. Invece non esiste lui solo, né si vive di solo pane! La vostra contraddizione o conflitto principale ignorava la politica, non aveva un'idea di società, s'è battuta solo con il fascismo ma è cosa d'altri tempi, non aveva idea di libertà, eguaglianza, fraternità. Anzi no, era fissato con l'uguaglianza, voleva tutti identici, tutti poveri, manco vedeva i diversi, manco vedeva le donne, odiava le differenze! Economicista universalista maschilista sviluppista!
Questo è il leitmotiv. Ambientalisti, femministe, immigranti, religioni, etnie, tutti me lo rimproverano: non li avevamo neanche visti, sempre per via di quella contraddizione principale. Qualche amico marxista si copre: è quel conflitto principale che oggi li mette in luce.
Bah. Che quel conflitto detto «principale» non avesse un'idea di società è una balla assoluta. E' il solo ad averne avuta una diversa da quella del capitale e del mercato. Ha proposto una società di uguali non perché ci voleva identici, ma uguali in diritti e uguali nel patteggiarli. E' stato il solo a disvelare la falsa libertà di rapporto fra soggetti asimmetrici, quindi la falsa eguaglianza del contratto sociale, la disinvoltura con la quale si garantisce la sola proprietà, inclusa quella dei mezzi di produzione. E' stato il solo a gridare: è inaccettabile che uomini, donne e natura diventino cose, siano trattati come merci. Il suo è stato un assalto al cielo difficilissimo. Non ce l'ha fatta. Ma economicista sarai tu, modernizzatore dei miei stivali!
3. Vediamo un poco le «altre» contraddizioni. Ce ne sarebbero di principali, oppure di uguale rilevanza. Nelle varie critiche o mozioni delle sinistre da far rinascere ne vengono agitate soprattutto due, per le quali si chiede pari dignità, o primazia, a scelta. Ambiente e donne. Io penso che non siano né uguali né simili, affatto. Che non sono né prime né seconde. Sono altro. La società umana non è una piramide, è un frattale. E' diversa da quella dei gatti e altri animali superiori perché la coscienza la fa complessa, non verticale, non orizzontale, non riducibile ad unum, né nelle forme, né nei rapporti nel tempo e nello spazio. Non è monoteista.
Prendiamo i due sessi; nella specie umana sono in conflitto. Non c'è civiltà che ne sia esente, e, se mai è esistito il matriarcato, il conflitto esisteva in direzione simmetrica e opposta. Perché? Si va a supposizione. Tenderei a credere che per il maschio la proprietà della femmina era il solo modo di avere la proprietà dei figli, e con essi della tana e delle derrate che aveva raccolto. Non dovette essere un trauma da poco per i primi maschi coscienti rendersi conto che solo le donne erano in grado di riprodurre la specie, e anche quando capirono che però erano loro a fecondarle, non dovette essere facilissimo impadronirsi del frutto di quel fugace congiungimento. Mi persuade Luce Irigaray: hanno dovuto tagliare il cordone ombelicale e imporre a quel cosino urlante il proprio nome, sei «mio» figlio. La «mia» roba sarà tua. La condizione è che sia «mia» anche la donna che ti ha fatto, se no può generare con altri e magari tenere i figli per sé con proprietà annessa. Per cui la metto nella «mia» grotta e guai se ne esce e guai a chi la tocca. Di qui scriveva il povero Engels con il povero Marx - come altro definirli oggi? - l'origine della famiglia, della proprietà, dello stato. Di qui, quelle che alcune mie amiche femministe chiamano il «patto sessuale»; che non è fra uguali in diritto, ma neanche quello fra schiavo e padrone - c'è ben altro di mezzo. Per farla breve, che c'entra questa antichissima storia - prima del Genesi, prima di Esiodo - con il modo capitalistico di produzione e relativa critica? Questo l'ha ereditata assieme alla primazia del maschio. Conflitto fra i sessi sicuro, contraddizione no, nessuno dei due sessi auspicando la fine dell'altro. Conflitto primordiale, dopo la lotta con il dinosauro e forse anche prima. Così antico da essersi declinato nelle varie civiltà e divisione di genere, e da essere introiettato anche da chi lo subiva. Conflitto su tutt'altro piano di quello fra capitale e lavoro.
Se il capitale vi ha mutato qualcosa è l'aver scoperto che per la sua accumulazione servivano anche le femmine, non solo come riproduttrici ma anche come salariate, tanto più che poteva pagarle di meno. Le ha dunque tirate fuori almeno parzialmente dalla grotta. E' nel capitalismo che hanno cominciato non più solo a patire o tentar di compensare la loro soggezione, ma a capirla, a interrogarsi non più solitariamente: che cosa diavolo sono? Che è una donna? Non mi potrei autodeterminare, vulgo liberare?
In quel groviglio, interno ed esterno, stanno, stiamo. Pensare che uscire dal capitalismo ci avrebbe reso più libere (una liberazione tira l'altra...) è stato un errore. L'ho pensato anch'io. Aspettare che gli uomini modifichino il rapporto fra i sessi anche: per loro si tratta di perdere un introiettatissimo status superiore, secolare, intricato a proprietà e potere e alla ancora più intricata sessualità. A una sinistra progressista possiamo chiedere che metta a tema la questione, che ne tolga di mezzo gli aspetti più criminali, che anche il maschio insomma cominci a chiedersi: che diavolo sono? che è la virilità? Smettiamola di rimproverare e pregare. Esigiamo. Non ci mancano diversi mezzi.
E deriviamo da una millenaria esperienza e dai suoi aggiornamenti le nostre considerazioni sulla attuale politica, sull'attuale sua crisi, sul perché, sul come uscirne. O non abbiamo niente da dire? Non ne siamo capaci? Non ci riguarda? O ci rassegnamo o ci affidiamo a questo o a quello? Curioso.
Del tutto diverso il caso dell'ambientalismo. Anch'esso furente di essere stato trascurato, anzi peggio, dallo sviluppismo del movimento operaio. Gran dio! Se la smettessimo ci considerare la natura da una parte come sacra dall'altra come mero deposito di risorse? Marx ce l'aveva con la prima ipotesi, dalla quale faceva derivare le religioni; non abbiamo identificato la natura, che ci assediava con vulcani e glaciazioni e terremoti, e con la fame la malattia la morte, tutti eventi sui quali nulla potevamo, con l'onnipotente Iddio? Con la seconda non ce la poteva avere, non perché fosse sviluppista oppure perche sì, lo era, da Adamo in poi avendo dovuto coglierne i frutti e coltivare la terra per nutrirci, catturare e conservare il fuoco per scaldarci, e finché eravamo sì e no un miliardo e mezzo non pensavamo che le risorse naturali potessero avere un limite rispetto ai nostri bisogni. Che con il capitalismo e i suoi sviluppi tecnici e scientifici potessimo quintuplicarci e diventare predatori e distruttori del pianeta è evento e constatazione recente. Tutto il contrario del conflitto fra i sessi. Impensabile l'accelerazione che ci siamo impressi e non possiamo più dominare. E' perciò meno vero il conflitto attuale e unidirezionale fra noi e la natura?
Siamo ancora a un'altra dimensione rispetto al conflitto di classe e a quello di sesso. I piani si intersecano, per il bene e per il male, in modo diverso. Che senso ha negarsi l'uno all'altro, o mettersi in gerarchia? E' una fissazione.
4 e fine. Se per politica si intende un'idea del mondo e un'azione per dargli un senso che riteniamo più giusto, più liberatorio, un soggetto politico deve pensare e pensarsi su diversi piani. Che non significano affatto pluralismo come sommatoria di oggetti e fini diversi, ma messa in connessione e discussione di un tutto assieme aperto, variante, obbligato. Significa far pensare a complessità, mettersi in causa, verificarsi, conoscere il passato, indagare il presente, esporsi a un futuro. Basta con le mezze verità.
E basta con il mio sfogo. Fine dei sassolini da togliermi. Per oggi.
da materialiresistenti
16/06/2008
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