da Micromega
Le impronte di oggi, la società di domani
di Ulderico Daniele
Non uno schedario metallico, né un armadio polveroso, ma un moderno database conterrà le informazioni sull’identità, i fotorilievi e le impronte digitali, raccolti durante le operazioni di censimento dei rom che risiedono a Roma, Milano e Napoli. Ma, nonostante la modernità informatica, queste informazioni rimarranno comunque a disposizione delle Prefetture, del Ministero dell’Interno e degli organi di polizia, a prescindere dal fatto che le persone censite, cittadini italiani, comunitari o extracomunitari, abbiano commesso un qualche reato o si trovino in una situazione di irregolarità amministrativa.
Si realizza così un tragico deja vù della storia europea: si costruisce una anagrafe parallela, indipendente dalla cittadinanza e dalle legislazioni su migranti comunitari ed extracomunitari, e basata soltanto su un confuso, ma costante, richiamo alla identità etnica, razziale e culturale degli “zingari”. All’interno di questo nuovo confine che attraversa e scompone la società, finiscono ovviamente anche i bambini, che, nel più classico dei rovesciamenti di ruolo, vengono definiti dal Ministro dell’Interno vittime dello sfruttamento dei genitori e diventano l’obiettivo primario di censimenti e rilevazioni antropometriche. Alle spalle di tutto questo le “disposizioni d’emergenza” emanate nel maggio scorso dal presidente del consiglio che danno corso nella legislazione e negli interventi di polizia a quella ossessione per la sicurezza che domina ormai da anni il dibattito pubblico in Italia.
Per capire bene fin dove questa ossessione stia conducendo istituzioni e società italiana, conviene accostare questa ultima iniziativa alla recente sentenza del Tribunale di Cassazione di Verona con la quale vengono di fatto depenalizzati le espressioni e le iniziative politiche basate sull’attribuzione ad un gruppo “etnico” di caratteristiche negative e stigmatizzanti, come le dichiarazioni del sindaco di Verona Tosi sul presunto legame inscindibile fra rom e criminalità.
Si compone così un quadro chiaro nella fenomenologia del razzismo, in cui il senso comune su un gruppo “razziale” o “etnico” naturalmente dotato di caratteristiche pericolose per l’intera società viene esplicitamente tollerato fino ad essere acquisito dalle istituzioni, fino a motivare la creazione di un registro anagrafico ad hoc. E davvero a questo punto non fa differenza che l’etichetta in questione sia quella di “asociali”, “nomadi” o “soggetti pericolosi”: il confine risulta tracciato in maniera evidente e univoca, e su questo confine poggia una stigmatizzazione chiara, l’indicazione del “nemico della sicurezza”.
Eppure, assumendo una prospettiva di ricerca sui fenomeni sociali, risulterebbe chiaro a chiunque che censimenti e rilievi biometrici non sono né necessari né utili a costruire un quadro chiaro delle presenze dei rom in Italia. Secondo le ultime stime dello stesso Ministero dell’Interno almeno la metà di questi sono cittadini italiani, quindi regolarmente iscritti nelle anagrafi municipali. Un’altra fetta rilevante dei rom, quelli arrivati negli anni ’70, ’80 e ’90 dalla ex-Yugoslavia, risiedono invece nei campi sosta autorizzati e gestiti dalle amministrazioni comunali delle maggiori città italiane, le quali dovrebbero aver garantito legalità e certezze amministrative in questi spazi. Infine, i più recenti flussi di rom dalla Romania, quelli che a forza di baracche e di elemosina hanno se possibile moltiplicato l’ossessione per la sicurezza urbana, hanno subito a Roma e in tutta Italia una serie impressionante di interventi da parte degli organi di polizia, tanto da essere perfettamente noti alle autorità e, soprattutto, costretti ad un nomadismo forzato che rende oggi vano qualsiasi tentativo di fissarne il numero e la localizzazione con un censimento. Infine appare quantomeno ambiguo, soprattutto nel caso dei minori, il legame fra i censimenti e l’obiettivo dichiarato di difendere diritti e promuovere integrazione.
A cosa serve, allora, e cosa produce questa ossessione per il controllo dei rom in Italia ?
In prima battuta verrebbe da dire che serve soprattutto a costruire un legame forte fra quei segmenti della società italiana, protagonisti dei raid di Ponticelli e di Opera, delle molotov di Roma e di Livorno, e il governo appena insediato; la saldatura fra la xenofobia diffusa nella società italiana e il razzismo istituzionale sembra infatti il frutto di un progetto politico mirato a incrementare il consenso con la costruzione sempre più precisa dell’ “altro” come nemico.
Ma l’effetto più preoccupante di queste misure consiste nell’utilizzo della paura come strumento di governo indiretto dell’intera società italiana. Da un lato la legittimazione di pregiudizi stigmatizzanti e la costruzione di registri anagrafici separati non fa che confermare la sensazione di estraneità e di pericolo degli italiani “brava gente” verso i rom e gli stranieri in generale. D’altra parte queste misure spingono i migranti tutti, regolari e non, ad avere timore di qualsiasi occasione di rapporto con la società italiana, anche quando si tratta dei servizi socio-sanitari e di situazioni di grave emergenza. Inutili dal punto di vista pratico, queste misure non fanno altro che aumentare le distanze fra migranti e società italiana, costringendo i primi in una situazione di maggiore invisibilità, e quindi di irregolarità amministrativa che, nel lavoro in nero, negli affitti non dichiarati, appare sempre a tutto vantaggio dei secondi.
Questo esito appare davvero drammatico se si considera che, scomponendo l’universo rom ci si ritrova di fronte ad una frazione rilevante di cittadini italiani, ad una porzione di cittadini extracomunitari ormai arrivata alla terza generazione e ad un numero consistente di cittadini comunitari; tutti segmenti che dovrebbe costituire la parte più visibile e meno problematica dell’immigrazione in Italia.
Il fallimento storico delle politiche migratorie del nostro paese e la saldatura ormai esplicita fra razzismo popolare e istituzionale stanno quindi a segnalare che sui censimenti dei rom si gioca una partita che va ben al di là la singola “etnia”: in questione è la stessa idea di una convivenza non discriminatoria, di uno spazio pubblico di cittadinanza in cui diritti e doveri siano garantiti in egual forma e misura a tutti e tutte.
Conviene per questo riprendere con forza l’invito già formulato da intellettuali e associazioni, rom e gagè: se si comprendono le possibile conseguenze di queste “disposizioni d’emergenza” e di questi “semplici atti amministrativi”, conviene allora che la schedatura riguardi tutti, italiani e stranieri, adulti e minori, vittime e carnefici di una società che rischia di risolvere i suoi momenti di crisi e di insicurezza costruendo confini e barriere sempre più violenti per i nemici di oggi e per quelli di domani.
(2 luglio 2008)
Non uno schedario metallico, né un armadio polveroso, ma un moderno database conterrà le informazioni sull’identità, i fotorilievi e le impronte digitali, raccolti durante le operazioni di censimento dei rom che risiedono a Roma, Milano e Napoli. Ma, nonostante la modernità informatica, queste informazioni rimarranno comunque a disposizione delle Prefetture, del Ministero dell’Interno e degli organi di polizia, a prescindere dal fatto che le persone censite, cittadini italiani, comunitari o extracomunitari, abbiano commesso un qualche reato o si trovino in una situazione di irregolarità amministrativa.
Si realizza così un tragico deja vù della storia europea: si costruisce una anagrafe parallela, indipendente dalla cittadinanza e dalle legislazioni su migranti comunitari ed extracomunitari, e basata soltanto su un confuso, ma costante, richiamo alla identità etnica, razziale e culturale degli “zingari”. All’interno di questo nuovo confine che attraversa e scompone la società, finiscono ovviamente anche i bambini, che, nel più classico dei rovesciamenti di ruolo, vengono definiti dal Ministro dell’Interno vittime dello sfruttamento dei genitori e diventano l’obiettivo primario di censimenti e rilevazioni antropometriche. Alle spalle di tutto questo le “disposizioni d’emergenza” emanate nel maggio scorso dal presidente del consiglio che danno corso nella legislazione e negli interventi di polizia a quella ossessione per la sicurezza che domina ormai da anni il dibattito pubblico in Italia.
Per capire bene fin dove questa ossessione stia conducendo istituzioni e società italiana, conviene accostare questa ultima iniziativa alla recente sentenza del Tribunale di Cassazione di Verona con la quale vengono di fatto depenalizzati le espressioni e le iniziative politiche basate sull’attribuzione ad un gruppo “etnico” di caratteristiche negative e stigmatizzanti, come le dichiarazioni del sindaco di Verona Tosi sul presunto legame inscindibile fra rom e criminalità.
Si compone così un quadro chiaro nella fenomenologia del razzismo, in cui il senso comune su un gruppo “razziale” o “etnico” naturalmente dotato di caratteristiche pericolose per l’intera società viene esplicitamente tollerato fino ad essere acquisito dalle istituzioni, fino a motivare la creazione di un registro anagrafico ad hoc. E davvero a questo punto non fa differenza che l’etichetta in questione sia quella di “asociali”, “nomadi” o “soggetti pericolosi”: il confine risulta tracciato in maniera evidente e univoca, e su questo confine poggia una stigmatizzazione chiara, l’indicazione del “nemico della sicurezza”.
Eppure, assumendo una prospettiva di ricerca sui fenomeni sociali, risulterebbe chiaro a chiunque che censimenti e rilievi biometrici non sono né necessari né utili a costruire un quadro chiaro delle presenze dei rom in Italia. Secondo le ultime stime dello stesso Ministero dell’Interno almeno la metà di questi sono cittadini italiani, quindi regolarmente iscritti nelle anagrafi municipali. Un’altra fetta rilevante dei rom, quelli arrivati negli anni ’70, ’80 e ’90 dalla ex-Yugoslavia, risiedono invece nei campi sosta autorizzati e gestiti dalle amministrazioni comunali delle maggiori città italiane, le quali dovrebbero aver garantito legalità e certezze amministrative in questi spazi. Infine, i più recenti flussi di rom dalla Romania, quelli che a forza di baracche e di elemosina hanno se possibile moltiplicato l’ossessione per la sicurezza urbana, hanno subito a Roma e in tutta Italia una serie impressionante di interventi da parte degli organi di polizia, tanto da essere perfettamente noti alle autorità e, soprattutto, costretti ad un nomadismo forzato che rende oggi vano qualsiasi tentativo di fissarne il numero e la localizzazione con un censimento. Infine appare quantomeno ambiguo, soprattutto nel caso dei minori, il legame fra i censimenti e l’obiettivo dichiarato di difendere diritti e promuovere integrazione.
A cosa serve, allora, e cosa produce questa ossessione per il controllo dei rom in Italia ?
In prima battuta verrebbe da dire che serve soprattutto a costruire un legame forte fra quei segmenti della società italiana, protagonisti dei raid di Ponticelli e di Opera, delle molotov di Roma e di Livorno, e il governo appena insediato; la saldatura fra la xenofobia diffusa nella società italiana e il razzismo istituzionale sembra infatti il frutto di un progetto politico mirato a incrementare il consenso con la costruzione sempre più precisa dell’ “altro” come nemico.
Ma l’effetto più preoccupante di queste misure consiste nell’utilizzo della paura come strumento di governo indiretto dell’intera società italiana. Da un lato la legittimazione di pregiudizi stigmatizzanti e la costruzione di registri anagrafici separati non fa che confermare la sensazione di estraneità e di pericolo degli italiani “brava gente” verso i rom e gli stranieri in generale. D’altra parte queste misure spingono i migranti tutti, regolari e non, ad avere timore di qualsiasi occasione di rapporto con la società italiana, anche quando si tratta dei servizi socio-sanitari e di situazioni di grave emergenza. Inutili dal punto di vista pratico, queste misure non fanno altro che aumentare le distanze fra migranti e società italiana, costringendo i primi in una situazione di maggiore invisibilità, e quindi di irregolarità amministrativa che, nel lavoro in nero, negli affitti non dichiarati, appare sempre a tutto vantaggio dei secondi.
Questo esito appare davvero drammatico se si considera che, scomponendo l’universo rom ci si ritrova di fronte ad una frazione rilevante di cittadini italiani, ad una porzione di cittadini extracomunitari ormai arrivata alla terza generazione e ad un numero consistente di cittadini comunitari; tutti segmenti che dovrebbe costituire la parte più visibile e meno problematica dell’immigrazione in Italia.
Il fallimento storico delle politiche migratorie del nostro paese e la saldatura ormai esplicita fra razzismo popolare e istituzionale stanno quindi a segnalare che sui censimenti dei rom si gioca una partita che va ben al di là la singola “etnia”: in questione è la stessa idea di una convivenza non discriminatoria, di uno spazio pubblico di cittadinanza in cui diritti e doveri siano garantiti in egual forma e misura a tutti e tutte.
Conviene per questo riprendere con forza l’invito già formulato da intellettuali e associazioni, rom e gagè: se si comprendono le possibile conseguenze di queste “disposizioni d’emergenza” e di questi “semplici atti amministrativi”, conviene allora che la schedatura riguardi tutti, italiani e stranieri, adulti e minori, vittime e carnefici di una società che rischia di risolvere i suoi momenti di crisi e di insicurezza costruendo confini e barriere sempre più violenti per i nemici di oggi e per quelli di domani.
(2 luglio 2008)