La Stampa, 7 luglio 2008
Tav più veloce se si decide
con i cittadini
FRANCESCO RAMELLA
L’accordo maturato in questi giorni sulla Tav ha riportato sotto i riflettori le modalità decisionali utilizzate per le grandi opere pubbliche. Infrastrutture che producono non solo benefici diffusi ma anche costi localizzati nelle aree in cui vengono costruite. Questi fenomeni favoriscono la sindrome NIMBY (Not In My Back Yard: «non nel mio cortile»). L’esplosione cioè di movimenti e comitati che si oppongono, con tutti i mezzi, alla realizzazione di queste opere. Di fronte al moltiplicarsi di simili eventi c’è chi auspica uno «stile decisionistico» di governo, per cui prima si prendono le decisioni e poi, caso mai, si difendono. Ma soprattutto si applicano. Costi quel che costi.
Dietro questa impostazione si intravede una domanda di autonomia delle istituzioni e la ricerca di leader forti, capaci di rompere lo stallo paralizzante delle mediazioni sociali. L’idea è che per fare innovazione, in Italia, ci sia bisogno di prendere le distanze da una società sempre più corporativa e particolaristica, permeata da potenti lobbies (di vario genere) che bloccano le decisioni di utilità collettiva. Naturalmente questa linea coglie aspetti di un problema realmente esistente. E tuttavia vicende come quella della Tav mostrano che la scorciatoia decisionista non sempre rappresenta la via più efficace. Rischia, al contrario, di incanalare il processo decisionale nel vicolo cieco del muro contro muro. Da qui deriva la posizione di chi sostiene invece l’esigenza di una riscoperta del momento partecipativo, «a monte» delle decisioni, in modo da prevenire o mediare il conflitto sociale e facilitare la loro esecuzione «a valle». Questa prospettiva sposta l’attenzione sul proliferare - specialmente a livello locale - di efficaci esperimenti basati su processi deliberativi di tipo inclusivo, aperti cioè al contributo della società civile.
Oggi infatti la disaffezione istituzionale e la sfiducia nelle élite, che pervade tutte le democrazie mature, non porta necessariamente al riflusso nel privato, bensì stimola forme di partecipazione che aumentano la frammentazione sociale e riducono la capacità di governo delle istituzioni. Per parafrasare Tocqueville il rischio è che, parallelamente all’auto-referenzialità del ceto politico, si affermi una sorta di «individualismo delle piccole patrie». Da un lato i cittadini si isolano in sfere di vita sempre più ristrette e dall’altro si mobilitano solo per obiettivi particolari (quelli che li toccano direttamente), perdendo di riferimento l’identità collettiva e i beni pubblici.
Il vero problema, perciò, è quello di creare nuove forme di rappresentanza collettiva. Si tratta, in altri termini, di gettare ponti tra la società e le istituzioni, ricostruendo i nessi intermedi tra politici e cittadini. Che si sono drammaticamente allentati con la crisi dei partiti di massa. A tal fine è anche necessario immaginare processi decisionali in grado di contemperare il dialogo sociale con la certezza dei tempi delle decisioni. Ciò richiede, da parte di chi governa, oltre alla disponibilità all’ascolto anche una certa autorevolezza nella leadership. Studi condotti di recente mostrano che il successo delle politiche inclusive, si fonda non soltanto su una buona concertazione sociale ma anche su una forte leadership di processo. Basata sulla qualità dei contenuti e sulla capacità di stimolare la partecipazione costruttiva degli attori coinvolti. In breve, queste politiche richiedono qualcuno che «governi la barca» tenendo unito l’equipaggio, assumendo una funzione di coordinamento e in parte di guida riconosciuta da tutti i partecipanti.
Sotto questo profilo la vicenda Tav rappresenta una suggestiva metafora del bivio di fronte al quale si trova il nostro Paese. Da un lato il clima di antipolitica che vi si respira offre l’occasione per un rinnovamento delle forme della cittadinanza democratica. Un esempio interessante in questa direzione è rappresentato da una legge recentemente approvata dalla Regione Toscana - la prima di questo genere in Italia - che promuove la partecipazione dei cittadini all’elaborazione delle politiche regionali e locali. Dall’altro, invece, c’è il rischio che il confidence gap tra i cittadini e le istituzioni venga elaborato in maniera regressiva, provocando un ulteriore depauperamento della cultura civica e una deriva plebiscitaria della nostra democrazia.
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