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Approvata la delibera regionale che trasforma il Progetto Chance in una risorsa ordinaria per 12 scuole
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Monday, November 23, 2009 at 5:26pm
Venerdì 20 novembre 2009
io non so se questa delibera sia veramente passata, può darsi che a causa di qualche correzione debba ritornare all'approvazione, ma ho preferito comportarmi come se fosse stata già approvata. In quello stesso giorno c'era il convegno Civitas Educationis-Interrogazioni e sfide pedagogiche, promossa dalla decana della pedagogia generale Elisa Frauenfelder, presenti i cattedratici di una decina delle principali università italiane. Si parlava in qualche modo di ruolo civile dell'educazione e mi è sembrata una occasione troppo ghiotta per non parlare di Chance. Nottetempo quindi ho scritto quanto segue e al mattino di sabato, mentre Pirozzi elaborava la sua nota, ho diffuso - volantinando come ai bei tempi - questo manifesto in 50 copie. Io credo che qui sia contenuta una risposta implicita alle molte questioni poste da Pirozzi, ma soprattutto credo che nella maniera più diretta, più semplice e lineare sia esposto quale è il problema attuale, che non riguarda Chance, ma - insisto - le basi su cui è fondata la nostra convivenza civile. Vorrei che ci attenessimo a questo punto elementare: tutto il resto sono accidenti, vicoli laterali in cui non intendo perdere nè me stesso nè quelli che sono capaci di intendere di cosa stiamo parlando.
Comunicazione per i partecipanti a Civitas Educationis
Il Progetto Chance ha rappresentato per undici anni un progetto di nuova cittadinanza fondato su giovani altrimenti esclusi.
La portata generale del progetto deriva dal suo collocarsi in un punto strategico dello sviluppo di una società, quello in cui i giovani cittadini fanno il loro ingresso nell’ordine sociale esistente. In questo punto che appartiene insieme all’ordine dello spazio sociale e all’ordine dello spazio mentale di una civiltà, si realizza un incontro tra una configurazione sociale esistente e una nuova forma da realizzare insieme ai nuovi venuti. In questo punto si decide se una società è capace di crescere o semplicemente di includere, assimilare, digerire il nuovo, ingrassando senza crescere.
Le periferie sociali, le periferie geografiche, le periferie dell’animo hanno un tratto comune: la capacità di mettere in discussione il patto sociale preesistente, la certezza dei fondamenti, la sicurezza dei ruoli sociali.
C’è un modo di trattare coloro che premono sui confini della società che è epistemologicamente escludente: quelli di fuori sono ‘barbari’ non parlano la nostra lingua, non condividono il nostro episteme, la nostra weltenshaung possono diventare dei ‘nostri’ a patto che imparino prima la nostra lingua. L’educazione, e prima di questa la scuola che insegna a scrivere leggere e far di conto, rappresenta da questo punto di vista una porta di ingresso nel sociale, l’occasione in cui i sogni privati di milioni di famiglie possono diventare un progetto di trasformazione e crescita sociale.
Oppure no, la scuola può avere il ruolo delle forche caudine, una porta al cui passaggio è necessario abbassare il capo, essere umanamente umiliati per essere portati in società come prede piuttosto che come cittadini sovrani. Le pratiche educative che non siano anche pratiche di libertà, di cittadinanza immediata (non rimandata sine die) , di creatività – libera invenzione di sé – non sono pratiche che allargano i confini della società, ma pratiche che pretendono di far passare il canapo nella cruna dell’ago.
Milioni di giovani vivono la scuola in questo modo. I primi sono proprio quelli per i quali la scuola può vantare il ‘successo formativo’, il successo di una operazione di assimilazione che assume troppo spesso i contorni del conformismo, della sudditanza, della omologazione che generano sofferenza e disagio a cui i giovani stessi non possono che dare risposte stereotipe, conformi a un modello sociale che li ha privati della capacità di reinventarsi. Gli ultimi che vivono male la scuola sono quelli presso cui la scuola non può vantare alcun successo, quelli che sono restati fuori, i drop out, gli emarginati.
Secondo il punto di vista che stiamo proponendo questi ultimi potrebbero addirittura vantare la ‘purezza’, una sorta di selvaggia estraneità al conformismo sociale che ne farebbe addirittura dei soggetti umani privilegiati. Non sono mancati e non mancano i tentativi di privilegiare romanticamente gli ultimi come potenziali liberatori del mondo, quelli in grado di capovolgere il mondo ed aprirlo a una radiosa alba di fratellanza universale. Non mancano mai quelli che si fanno sedurre dal primitivismo, che sono ammaliati dagli ultimi e soffrono di un male nostalgico del primitivo molto simile al “mal d’Africa”.
Ma le cose dell’animo e della società non seguono mai i canali di una meccanica sociale lineare quanto una meccanica celeste pre-relativistica. Gli ultimi in una società della comunicazione, non sono affatto puri, non sono affatto liberi e assorbono l’episteme semplificata dell’avere che chiude alla complessità dell’essere. E l’insuccesso scolastico e formativo non apre a un mondo libero dalla schiavitù dei bisogni indotti, ma suggella col marchio dell’esclusione l’impossibilità di essere cittadino attivo insieme alla possibilità di essere un consumatore compulsivo di quanto il mercato offre e di quanto l’individuo può possedere con mezzi leciti o illeciti.
C’è un altro modo di trattare coloro che sono ai confini che è intrinsecamente accogliente: dovete entrare perché insieme dobbiamo riscrivere le regole, dobbiamo costruire insieme un cerchio più largo, non dobbiamo fare spazio a nuovi cittadini ma costruire insieme nuova cittadinanza.
Dunque il Progetto Chance occupandosi degli ultimi e degli esclusi non si è occupato di riammettere al banchetto dei consumi indotti quelli che non avevano i mezzi per farlo, ma si è occupato di restituire a giovani invasi insieme dal dolore e dalla coazione a ripetere il potere della parola e del pensiero.
Dunque da questo punto di osservazione ha potuto avere un punto di vista privilegiato su quel crogiuolo dove al calor bianco si rifonda una società, osservare da vicino i processi psichici, i modi di socializzazione che consentono a ciascuno di riprendere in mano il proprio destino, di passare dalla condizione di etero direzione a quella di autonomia, da quella di anomia sociale a quella di sociatività, centri attivi di promozione di legami e di convivenza.
Per realizzare questo obiettivo il Progetto Chance non ha usato una logica rivoluzionaria o una pedagogia alternativa. Non ha cercato di “capovolgere” le regole, né ha cercato un altrove pedagogico dove sperimentare nuove alchimie. Ha scelto di operare nei luoghi stessi dell’emarginazione, ha scelto di abitare i ghetti della città e dell’animo, di condividere l’esperienza degli ultimi per rielaborarla insieme a loro, per essere guide sicure ad uscire dai ghetti sociali e dalle prigioni dell’animo. Riuscire a utilizzare il pensiero e la parola in situazioni estreme, riuscire a mantenere il senso dell’impresa educativa quando il mondo intero ti crolla intorno, quando la violenza delle armi e la violenza dei consumi indotti svalutano continuamente la persona e la parola è la lezione di vita che noi abbiamo cercato di offrire ai nostri allievi, quella che ci rende stimabili ai loro occhi e legittimati a parlare. Maestri di strada quindi, maestri che insegnano la strada, guide per uscire fuori, per educarsi.
Maestri che parlano nell’agorà, al mercato, come faceva Socrate che in piazza rispondeva a questioni di vita e di morte, rifletteva in pubblico sulla legittimità della vendetta di sangue e sulla necessità della legge. E per queste sue risposte, date fuori dal chiuso dell’accademia, fu condannato a morte.
Oggi alle persone non viene offerta la cicuta ma esistono infiniti modi per intossicarsi, per uccidersi in senso professionale e pedagogico. A volte basta solo respirare a lungo una atmosfera satura di veleni per restarci secchi. Dunque la nostra esistenza come educatori è ogni giorno a rischio e senza questo quotidiano rischio non saremmo veri educatori. Dunque dobbiamo essere felici di vivere nel rischio ma al tempo stesso sappiamo che è nostro dovere sopravvivere, dimostrare che sfidando il rischio è possibile crescere.
In questi undici anni l’esistenza Chance è stata sistematicamente esposta a letture svalutanti ed avvelenate: è un progetto di recupero sociale, si occupa di disgraziati senza speranza, meno male che ci sono, che sono così masochisticamente eroici, chissà quale colpa stanno espiando ( Rulli e Petraglia sceneggiatori de O’Professore – sceneggiato Mediaset che oscenamente pretende di rappresentare i maestri di strada - hanno dato corpo a questo fantasma: o’Professore è un sessantottino assassino che espia la sua colpa dedicandosi – in modo paternalista e collusivo – ai figli di quelli che erano i suoi nemici di un tempo). Anzi i ‘maestri di strada’ rispondono a un bisogno sociale di riparazione, una seconda occasione che non è data ai ragazzi ma ad una formazione sociale per riparare ferite che ha in precedenza inferto. E visti in questo modo siamo anche i testimoni di un delitto che i più vorrebbero occultare. Sulla base di questa emozione siamo stati tenuti ai margini, forse anche protetti, ma allo stesso modo in cui ci sono programmi di protezione per i testimoni scomodi: comunque vivi una vita nascosta.
Oppure siamo stati vissuti come i responsabili di una falla del sistema di pensiero in tutto analoga all’assioma di incompletezza, della esistenza dei numeri primi: la matematica - la più perfetta delle scienze - ha alla base una aporìa: esistono affermazioni vere non derivabili dagli assiomi; come dire che gli assiomi sono sempre incompleti, che esistono dei numeri primi che sfuggono alla regolarità delle serie. Un pensiero del genere leva il sonno a tutti i sistemisti (volevo dire proprio così), a quelli che hanno bisogno di un sistema che come pietra filosofale trasforma ogni problema in una eventualità prevedibile sulla base degli assiomi condivisi. Il fango trasmutato in oro.
“Perdete tempo, il vero problema è la prevenzione, è fare le cose rispettando gli assiomi pedagogici giusti e tutto andrà a posto in automatico” (e questo è il motivo ideologico per cui ministri e sottosegretari di sinistra sono stati incapaci di dare un assetto istituzionale al progetto).
Dunque il progetto Chance ha costituito una irregolarità epistemica disturbante e come tale rigettata in periferia, stigmatizzata non per motivi socio-politici, ma per incompatibilità filosofica.
Qualsiasi sia il punto di vista siamo stati periferici, marginali, esclusi dalle pratiche ordinariamente praticabili.
Sennonché siccome sappiamo parlare e scrivere, siccome abbiamo fatto della professionalità riflessiva una bandiera del progetto, in questi anni ci siamo procurati molti amici, molti dei quali presenti in questa sala che, forse per sano istinto da educatori, forse per simpatia umana, ci hanno ascoltato e seguito e spesso ci hanno aiutato a inquadrare le nostre pratiche in modelli teorici e tendenze riconoscibili dalla comunità scientifica. Se il progetto ha resistito per undici anni molto è dovuto al modo in cui l’accademia in vari modi ci ha sostenuto.
Ieri, venerdì 20 novembre 2009, mentre si svolgeva la prima giornata di questo convegno è stato approvato il primo atto ufficiale che rende il Progetto Chance una risorsa in qualche modo ordinaria incorporandola in dodici scuole di Napoli e della Provincia situate in zone strategiche dell’esclusione. Si tratta di una felice coincidenza. Ma il fatto che si tratti di una coincidenza e non di un appuntamento segnala un problema.
Nel momento in cui il progetto grazie alla Regione Campania (ma orfano dei precedenti apporti del Comune di Napoli, del MIUR e di altre istituzioni che facevano parte dell’accordo di programma del 1998) diventa ‘normale’ può diventare oggetto di una normalizzazione (ricordate la normalizzazione dei carri armati a Praga?) – involontaria o vendicativa – che ne distrugge la carica trasformativa, le potenzialità di crescita per l’intera scuola. Noi siamo convinti che il Progetto Chance possa aiutare una riflessione generale sulle pratiche educative per la cittadinanza che deve coinvolgere la scuola e non solo la scuola, e chiediamo a quelli di voi che potranno farlo una aiuto a mantenere questo senso al progetto. Un aiuto che per tutto quello che si è detto deve essere soprattutto un aiuto di pensiero, un contributo a convalidare un modello di lavoro sulla base di osservazioni, riflessioni, prove. E’ giunto il momento di trasformare la solidarietà umana in prese di posizione basate sui principi pedagogici (che sono quelli che stanno circolando in questa sala) che devono governare la trasformazione istituzionale di questo progetto.
Chance, come si ripete, non ha da rivendicare alcuna originalità, primogenitura pedagogica, o didattica ma ha da rivendicare con orgoglio la determinazione e la coerenza con cui ha valorizzato le pratiche umili, i dettagli per altri insignificanti, un impianto organizzativo, una capacità di gestione della complessità, di valorizzazione e buona conservazione delle risorse umane e professionali che resta la principale forza del progetto e la sua possibilità di influire sulla trasformazione di tutte le pratiche educative. Quello che chiediamo è un sostegno a valorizzare questo patrimonio che rischia –principalmente per le debolezze umane da cui tutti siamo affetti – di naufragare in una navigazione non più protetta.
Nelle prossime settimane, via mail diffondiamo un documento di sintesi riguardante le pratiche educative di cittadinanza ispirate al progetto Chance, e speriamo di poter sottoscrivere, con un gruppo di studiosi di varia provenienza disciplinare, un atto di indirizzo riguardante i punti fondanti di queste e su questa base costituire una sorta di osservatorio scientifico permanente che contribuisca alla tenuta pedagogica di questa nuova sfida.
Cesare Moreno
Presidente Associazione Maestri di Strada – ONLUS
Mail: maestridistrada@gmail.com
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