- | di Giorgio Galli
LE PRIMARIE
Ma a queste tre condizioni saranno utili per l'opposizione
«Se votano in molti, Marino va bene ma vince Bersani»
La consultazione di oggi ha lo stesso scopo delle due analoghe che l'hanno preceduta: quello di assicurare una leadership in grado di operare efficacemente, perché dotata di un consenso effettivo, misurabile e diffuso. Era accaduto con Prodi prima e con Veltroni poi: erano andati a votare tre-quattro milioni di elettori, il primo aveva ottenuto tre quarti dei consensi come leader della coalizione di centro-sinistra e candidato premier, il secondo altrettanti, come segretario del Pd. Non è servito a niente. Nonostante il consenso effettivo, misurato e diffuso, entrambe le leadership sono state minate dall'interno, indipendentemente dalle situazioni esterne: Prodi aveva vinto le elezioni, Veltroni le aveva perse, da quelle nazionali a quelle sarde. È vero che il primo aveva solo un paio di voti di maggioranza al senato. Ma se la leadership è forte e riconosciuta, si governa anche con un solo voto di maggioranza, come è accaduto in Inghilterra e in Germania. E Veltroni è apparso sconfitto soprattutto per aver fatto credere che poteva vincere, ma il 33% dei voti ottenuti era un risultato apprezzabile, dato che la vittoria di Berlusconi era sicura.
Dunque Prodi e Veltroni furono abbattuti dalla conflittualità interna, nonostante il consenso ottenuto. L'elettorato di centro-sinistra lo sa benissimo e per questo dove era prevalente la fiducia, oggi prevale lo scetticismo, come mi pare sia emerso in questa settimane. E infatti i vertici del Pd prevedono un massimo di due milioni di votanti, contro i quattro per la candidatura di Prodi e i tre per quella di Veltroni, nonostante che quelle competizioni avessero un vincitore scontato, mentre questa non lo aveva nella fase congressuale e non lo ha per il 25 ottobre. Almeno nelle previsioni, l'incertezza del risultato non favorisce la partecipazione e comunque il vincitore non potrà contare su un consenso che arrivi ai tre quarti dei votanti.
Probabilmente i vertici del partito non desideravano questa situazione. Già nel 2007 avevano impedito a Bersani di presentarsi in competizione con Veltroni. Dopo le sue dimissioni,avevano imposto Franceschini, il suo vice col patto che non si sarebbe ricandidato per la segreteria forse permettendo a compensazione del 2007 la presentazione di Bersani come candidato sicuro vincente in conformità con le due consultazioni precedenti. La decisione di Franceschini di rimanere in corsa ha, invece, creato una situazione difficile, agevolato da norme del partito ora da più parti definite stravaganti: vi è infatti il rischio di una fonte di legittimità contrastante, se il vincitore del congresso del partito non venisse confermato, il 25 ottobre, dalla maggioranza dei votanti, mettendo in discussione quel consenso effettivo, misurato e diffuso, a sostegno della leadership, che, va ripetuto, è lo scopo della consultazione, parte della complessa procedura adottata. È per evitare questo rischio, che, dopo l'inattesa decisione di Franceschini gli stessi vertici del Pd hanno tentato di evitare una terza candidatura, quella di Ignazio Marino, che, a mio avviso, è molto positiva, perché presenta all'opinione pubblica una figura nuova, diversa, per formazione, da una nomenklatura partitica che estesi settori dell'elettorato ritengono più adatta al ruolo di padri nobili che all'esercizio di una leadership innovatrice.
In questa situazione difficile, per lo scetticismo diffuso e per una legittimità a rischio, mi pare che si possano indicare alcune condizioni affinché la consultazione del 25 ottobre possa avere un effetto positivo sulla delusa e disorientata opinione pubblica di sinistra, ulteriormente turbata, alla vigilia del voto, dalla osservazione di Franceschini che Bersani ha solo ottantamila voti più di lui, che parte di quei voti vengono da aree dove il tesseramento è contestabile, come la Campania, che in questa come in altre regioni, dalla Puglia al Lazio, inchieste giudiziarie e torbide vicende appannano l'immagine del partito.
La prima di queste condizioni è che il numero dei votanti superi i due milioni previsti: sarebbe un segnale della volontà dell'opinione pubblica di sinistra di investire ancora nella partecipazione, nonostante le delusioni. La seconda condizione è che il voto del 25 ottobre confermi quello congressuale:verrebbe meno ogni contestazione di legittimità sul valore del consenso. La terza condizione è un buon risultato di Marino, indice che che nel Pd ci sono spazi anche al di fuori della nomenklatura.
Preciso che si tratta di condizioni che ritengo valide per ragioni di natura politologica (motivate da indici di partecipazione, di legittimità, di apertura culturale), al di là delle preferenze personali. È su questa base che arrischio cifre della consultazione che sarebbero valide per tutto il Pd: almeno due milioni e mezzo di votanti, il 51 per cento per Bersani, la conferma del 36 per cento per Franceschini, il l3 per cento per Marino. Non è una previsione, ma la situazione che mi pare preferibile per l'intero Pd, che risulterebbe tanto più avvantaggiato quanto più i risultati reali si avvicinassero a quelli ipoteticamente preferibili.
Fin qui il ragionamento è tutto interno al Pd. Ma una volta legittimato da un consenso misurato e diffuso, in quale situazione si troverebbero e quali problemi si troveranno ad affrontare il leader del Pd e il gruppo di vertice che costruirà? Se Berlusconi insisterà nel suo progetto di alterare la costituzione, il partito dovrà prepararsi a un duro scontro parlamentare (per il quale sinora ha dimostrato di non essere attrezzato), in una situazione sociale caratterizzata da una crisi economica perdurante, tanto che si parla di alcuni anni per tornare ai livelli del 2007.
Quando, nelle scorse settimane, la destra parlava di mobilitare «il popolo» (contro le sentenze? Contro Napolitano che non mette in riga i magistrati?) ho sentito in televisione Bersani dire un paio di volte ai suoi interlocutori di destra «il popolo lo abbiamo anche noi». Si tratta, per il Pd, di attrezzarsi per dimostrarlo (non so se oggi sia all'altezza di farlo). I progetti berlusconiani, se davvero perseguiti, costringono il Pd a prepararsi per un duro scontro parlamentare che non esclude un confronto sulle piazze da mobilitare, legittimo in democrazia e che occorre non temere. Oggi i politologi parlano di uno stile di governo che definiscono «sarkoberlusconismo». Negli scorsi giorni Sarkozy voleva regalare una prestigiosa carica al figlio giovinetto. Un certo numero di francesi è sceso in piazza per contestarlo e il giovinetto vi ha rinunciato. Ho l'impressione che nel Pd vi sia chi avrebbe definito quei vittoriosi francesi estremisti pericolosi. È una impressione che la nuova leadership dovrebbe fugare, con comportamenti conseguenti. È possibile convergere con Casini in una decisa opposizione parlamentare senza trascurare che vi potrebbe essere la necessità di mobilitare quel «popolo» che la destra continuamente evoca, come se fosse di sua esclusiva appartenenza.