La cura come luogo del mutamento
Giovanni Laino
Pubblicato sul N.113 de Lo Straniero
La parola cura ha diversi significati: ciò che scalda il cuore perché lo stimola, un lavoro fatto con perizia e impegno, implicando non di rado, affanno e preoccupazione; sollecitudine grande e assidua diligenza. Il termine richiama accuratezza, attenzione, esattezza, diligenza, zelo, vigilanza premurosa e precisione. Nietzsche ha scritto che la cura è quel valore aggiunto all’azione che fa tremare e luccicare l’anima, rendendo l’agire buono e di qualità (1).
La cura è un atteggiamento, una tensione interiore che in qualche modo modifica la qualità e aggiunge valore all’attività che svolgiamo, attività alla quale rimane comunque strettamente legata. Curarsi di qualcosa significa starci attenti, preoccuparsene, ma nello stesso tempo essere pronti a fare, passare all’azione (Marinelli A. ,2002). La cura è quel nodo che lega la cognizione e la passione alle azioni (Fabbri P. 1995).
E’ noto il risvolto di potere, soprattutto nell’educazione e nel sostegno per la salute: se l’agito di chi cura con tanta premura non è realmente rivolto all’attivazione del soggetto e non costruisce, o almeno propone, una qualche reciprocità, è abbastanza possibile che si tratti anche di una forma di sorveglianza e controllo inibente. Non sfugge poi la prossimità con la manialicalità espressa nei casi in cui la pretesa del controllo di quello che si fa deborda in pretese squilibrate. Per converso, la trascuratezza è la qualità e/o il comportamento, l’atteggiamento di chi è trascurato ossia chi agisce con poca cura, premura, sollecitudine. Trascurare richiama il tralasciare, trattare con negligenza, non curare sufficientemente, omettere, non tenere in conto, non calcolare.
Paolo Fabbri evidenzia una stretta relazione tra il rischio e l’impegnarsi nella cura. Egli mette in luce una comune radice semantica fra cura e curiosità. La radice cura è anche nella parola sicurezza. Chi è (troppo) sicuro non se ne cura, e quindi ecco l’uso dei termini incuria, non curanza.
Vivere ponendo una particolare attenzione alla cura implica una più frequente e problematica lavorazione di e con categorie tipo flessibilità, complessità, gestione del disordine e dell’imprevisto, relazione, empatia, ambiguità, valore della differenza. Può significare progettare indagando l’inaudito, acquisire capacità di rivelazione delle zone d’ombra. Secondo tale impostazione lavorare con cura può essere ben diverso dall’operare con pavida prudenza, entro un incrementalismo stanco che non getta lo sguardo oltre la siepe.
L’agire intelligente significa imparare a convivere con l’incertezza, ad abitare l’impasse nel disagio che si prova di fronte al vuoto o al dilemma grave; assumere il rischio per interrogare l’altrove, l’inaudito oltre le routine del consueto, del realisticamente prevedibile. Tenere la consapevolezza della propria parzialità e contingenza storica (Zamboni C.,1990).
Da tempo ravviso una rilevanza dell’aver cura, a partire dalla convinzione che, sempre più spesso, il disagio è codeterminato da una straordinaria e pervasiva carenza di accuratezza nel fare le cose: innanzitutto nel trattamento del legame ma anche nella riproduzione quotidiana come nei diversi spazi pubblici.
Penso, ad esempio, a questioni che attengono le forme di produzione del lavoro intellettuale, il come si fa ricerca, informazione, insegnamento, educazione. Penso a come si organizzano e si realizzano i servizi pubblici, come si immaginano, si disegnano e si realizzano le politiche. Per non dire a come si è curati in tanti reparti degli ospedali del sud.
Inconcludenza quotidiana
Un versante della riflessione è sul lavorio quotidiano (Balbo, 2008). Siamo artefici dell’attivismo che, come un rumore di fondo, colonizza le nostre giornate. Per alleviare il senso della fatica, scegliamo routine, avviamo congegni, agiamo modi di fare che ci evitano concentrazione. In realtà queste azioni richiedono un qualche lavoro, consumano attenzione e tempo: evadere la posta elettronica, fare zapping in rete, fra i blog o dinnanzi alla televisione ma anche a tessere e orientare reti, organizzare e partecipare a riunioni in cui si ripetono cose senza produrre avanzamenti per l’incapacità di approfondire l’analisi e la propositività. Impieghiamo l’attenzione e il tempo, magari facciamo cose necessarie e utili ma, molto spesso, riproduciamo trappole di intrattenimento.
Quando mi ritrovo a fare così mi sento inconcludente, incapace di portare avanti idee, progetti che pure ho e mi interessano. Non si tratta della criticabile fiducia nell’attivismo associata alla preoccupante incapacità di perdere tempo che pure ci connota: in modo concitato vado lento senza aver imparato a rallentare. Destreggiandomi fra i vari intrattenimenti, dalla compilazione di una tabella, al richiamo di necessari contatti telefonici, libero da ogni auto disciplina, ma in realtà sottomesso a quella di altre fonti di controllo, opero con una sorta di pilota automatico per i doveri da sbrigare per spuntarli poi dal foglietto che mi scrivo ogni mattina sul tavolo. Quando mi riesce di sbrigare gran parte delle pratiche che avevo segnato con una parola nell’elenco mattutino, sono soddisfatto. Tante volte però, alla fine del giorno, sento di aver avuto poca cura dei progetti cui tengo di più e di aver sprecato il tempo.
La riflessione di molte donne è stata anticipatrice: ci ritroviamo a sviluppare la competenza di essere giocolieri, acrobati che devono mettere insieme commissioni, impegni e lavori diversi: certo il mio amico che lavora in fabbrica fa turni molto più faticosi di sette ore e cinquanta ma anche per me, spesso, ci vuole un fisico bestiale. Mi riconosco in quella sequenza del film il Circo (1928) in cui Chaplin fa il funambolo mentre tre scimmiette giocano sulla sua testa e sul bastone con cui cerca l’equilibrio: anche quello un passaggio d’epoca, dai trucchi degli acrobati circensi a quelli della macchina da presa.
A dire il vero partecipo a costruire qualcosa di sensato ma la poca accuratezza - che riproduco ma che sento anche di respirare nell’aria - tipica di questi modi di fare, implica, codetermina, un forte senso di inconcludenza che, soprattutto in alcuni settori, distrugge la fiducia, riduce e deteriora costantemente l’efficacia.
Certo vi sono i noti limiti per la scarsità delle risorse, la contraddittorietà e il conflitto, ma è evidente il basso livello di accuratezza che sempre più pervade i modi di fare. Anche negli impegni professionali per lavori che sempre più richiedono l’aggregazione di più competenze da parte di imprese di forte affidabilità gestionale e finanziaria, si diffonde la sensazione di non riuscire a dare un contributo accurato: si finisce spesso per fare “paccotti”, senza rispondere alle reali necessità dei committenti.
Per tale questione credo che vada superata un’interpretazione tanto diffusa quanto superficiale. Oltre alla ricorrente ipocrisia secondo cui sono sempre gli altri a fare le cose con poca cura, non credo si tratti solo o soprattutto della poca buona volontà degli individui, anche se la dimensione dell’etica della responsabilità non è estranea a questo andamento delle cose. Si tratta di una deriva che, respirata nell’aria, sollecitata da molti fattori di convivenza sociale, è divenuta un habitus, un modo di fare prevalente. In contesti come quello napoletano, poi, è evidente che si abitano situazioni in cui la buona cura è intrecciata a pratiche degradate e inefficaci di incuria e quindi sono ricorrenti situazioni ambigue ove convivono qualità diverse.
Fateci lavorare
Nel confronto fra amici impegnati nello spazio pubblico emerge poi un altro aspetto. Non senza presunzione pensiamo di essere capaci di disegnare e attuare progetti di buona qualità. Sapendo che non si possono scrivere manuali, abbiamo imparato, almeno un po’, ad assumere una logica contingente, contestualizzata e territorializzata. Abbiamo già realizzato qualche esempio di costrutti non solo flessibili ma capaci di adattamenti determinati dagli attori che li attuano. Nel concreto, dopo aver dato prova di buone realizzazioni, certo in congiunture più felici delle politiche pubbliche, ci troviamo a dover combattere contro tante fonti di inerzia, illogiche, opportunistiche, sprecando buona parte delle nostre risorse per questioni burocratiche, senza poterle applicare ai costrutti per cui siamo incaricati.
L’educatore, il lavoratore sociale come il social planner e/o il ricercatore – soprattutto in Campania - devono impegnare sempre più energie e tempo a tutelare le condizioni di agibilità e replicabilità del loro lavoro più che ad approfondire, anche criticamente, il senso, l’utilità e sostenibilità sociale dei dispositivi per cui cooperano. Affiora la sensazione di perdere tempo e forze nel dover difendere la sopravvivenza di opportunità più che per il loro sviluppo. Soprattutto con i responsabili politici sembra sempre difficile confrontarsi sugli aspetti sostantivi delle azioni essendo schiacciati su altri versanti, attinenti la riproduzione del consenso, il rispetto di logiche burocratiche o la dimensione simbolica delle azioni, per la rilevanza mediatica che possono avere. Mi riferisco, ad esempio, ai tentativi di consolidamento e sviluppo di varie esperienze di cura (il progetto Chance, i Nidi di Mamme), realizzate ormai da diversi anni, che sembrano dimostrare come delle buone pratiche sociali possano diventare esperienze deviate, spazi di disagio. Partecipando dall’interno a queste realizzazioni è impressionante constatare il senso di approssimazione, trascuratezza, incapacità positiva (2) che molti addetti, che ricoprono ruoli apicali, esprimono nel trattamento delle politiche pubbliche. Anche qui però non è sufficiente il richiamo, pur necessario, all’etica della responsabilità. Mi sembra inidonea l’ottica che propone di considerare buona parte degli interlocutori miopi, irrazionali, famelici attivisti della distruzione. Credo sia utile provare a comprendere a fondo le logiche che mobilitano tante persone a non perseguire gli obiettivi che sembrano più legittimi e logici, senza sottovalutare d’altra parte le forme di riproduzione del potere che sempre incidono sull’orizzonte di precomprensione, sulle ringhiere di senso da cui partiamo nell’immaginare il mondo.
Prima dell’odierna crisi economica, avevamo già molti motivi per sentirci in un passaggio d’epoca, non solo per i mutamenti nei modi di produzione e riproduzione sociale ma anche per mutamenti dei modi di sentire e lavorare intorno al legame sociale, nelle sfere più intime come in quelle pubbliche. La cura, intesa come lavoro di cura, ha diverse dimensioni: quella materiale dei corpi e dell’ambiente, quella emotiva, quella organizzativa delle risorse umane e delle procedure. La tarda modernità sembra imporre la logica del frammento e dell’istantaneo, del non accurato. Nei capitolati di gara, ad esempio, un tempo era scritto: ”fatto a regola d’arte”. Dopo i lutti e i danni, la cultura giornalistica subito si applica a cercare le responsabilità degli effetti terribili che la mancanza di accuratezza produce quando le costruzioni si realizzano senza i criteri della sicurezza e sostenibilità. E’ difficile però adottare collettivamente una logica preventivamente sostenibile.
Occuparsi di accuratezza quindi può aprire orizzonti critici. Senza sminuire la crisi e le difficoltà di chi già vive in modo precario, occorre rallentare (Fareri P. 2000), ascoltare, pensare e riflettere insieme su questioni che interrogano il nostro vivere e lavorare quotidiano.
Così il tema s’intreccia a molte questioni: il senso delle relazioni nel lavoro sociale, l’impegno quotidiano di ciascuno fra velocità e diligenza, l’accuratezza con cui si riescono a fare le cose che ci vengono assegnate, evitando di usare come alibi le gravi lacune dell’operato degli altri per velare nostre superficialità e ritardi. Per queste strade, il tema incrocia questioni più generali: il senso del buon lavorare che molti cercano e realizzano pur destreggiandosi fra molti vincoli, la ridefinizione della propria collocazione nei circuiti del consumo, cercando di posizionarsi dentro le filiere corte, informandosi su possibili cantieri di sperimentazione di pratiche di migliore sostenibilità.
E’ evidente quindi l’opportunità di una pratica autoriflessiva di cura, consapevoli delle nostre identità mutevoli, a più strati. Siamo partecipi di un’umanità più ampia che si sta rendendo conto che le categorie e gli strumenti, intellettuali e politici, utilizzati fino ad ora non funzionano più. Siamo convinti che è necessario sviluppare strumenti teorici adeguati a descrivere e analizzare la società nel suo complesso, mentre proviamo a trasformarla. Vecchie cornici non funzionano più ma non sono state sostituite da nuove narrazioni e quindi vaghiamo, come viandanti che non riescono più a riferirsi in modo soddisfacente alle loro enciclopedie, già solo per dare nomi non troppo provvisori alle cose.
Prendiamo atto che viviamo contemporaneamente più mondi vitali, come se la nostra esistenza fosse un pachwork; quando ci troviamo a convivere con l’ospite interno e ci troviamo a dover fare un lavoro interculturale in ogni piccolo ambiente, con i nostri parenti non meno che con la badante straniera, ci rendiamo conto che siamo tutti un po’ multi funzione. Nel privato come nel pubblico, siamo costretti ad essere danzatori che si destreggiano fra vincoli, passioni ed opportunità. Sono cambiate le architetture e le cornici della convivenza e siamo cambiati dentro. Abbiamo diversi segnali del fatto che la scheda madre non funziona più bene, il sistema operativo dà problemi e non solo per qualche virus. Certo i tentativi di spiegazioni politiche, critiche e magari anche autocritiche, sono indispensabili. Certo, occorre evitare uno sguardo schiacciato sull’agenda giornalistica. Si dovrebbero superare anche molti conformismi ed opportunismi. Ma c’è altro.
La questione della cura, del vivere, lavorare, relazionarsi con cura, mette in luce un nuovo disagio della civiltà, un disagio nella crisi del legame sociale che non può essere trattato solo con una pur necessaria rielaborazione dei principi etico morali del Novecento. Un disagio che, per essere trattato in modo adeguato, chiede capacità che non sono state ancora maturate.
Forse non è casuale che in un tempo in cui si ravvisano molti segni di tendenziale smagnetizzazione della sensibilità curante verso l’altro, ci si concentra poi, con perizia quasi maniacale, nella raffinata preparazione del cibo, con particolare selezione degli ingredienti e della presentazione dei tanti prelibati bocconi delle pietanze. Mi torna in mente quando, in un momento di glaciale freddezza nei miei confronti, a tavola, Simona, da cui attendevo attenzione e cura, senza volgere lo sguardo verso me, discusse con gli altri commensali, per oltre trenta minuti, del modo di barricare il vino. Ricordo bene la sensazione di un paradosso fra la non cura del legame e il sovraccarico di impegno verso le cose. Lo stesso tipo di paradosso forse si riscontra fra le tante risorse investite per curare il corpo e l’inconcludenza, l’evitamento nella cura di altre dimensioni meno esteriori.
Non sminuendo mai la rilevanza delle diseguaglianze di opportunità della nostra società, dobbiamo disimparare qualcosa e lavorare ad un di più teorico pratico. I temi della presenza assenza di accuratezza su come ci educhiamo, come lavoriamo in pubblico, come viviamo il tempo, come ci riproduciamo, cosa e come consumiamo per non dire come moriamo, sono un luogo privilegiato per questa indagine tanto fertile quanto necessaria.
E’ comprensibile la domanda di sponde affidabili se non certezze che ci anima ma questa indagine per ora sembra che si debba realizzare con una cura della mente: agendo “un pensare che si fonda su un’epistemologia della contingenza e si nutre di un’etica della fragilità che consiste nell’imparare a rendere porosa ogni nostra convinzione, pronta a frantumarsi sotto l’urto di uno sguardo costitutivamente critico, perché impegnato a sospendere l’adesione irriflessiva ai codici dati. L’etica della fragilità è quella di un pensare che si lascia modificare dalle esperienze che attraversa, arrischiando una continua ridefinizione della rete di significati faticosamente costruiti” (Mortari L. 2002, p.67)
Note
1 Frammenti Postumi, Opere, volume settimo, parte seconda, pag 3, Adelphi 1986
2 Secondo G. F. Lanzara (1993) l’incapacità positiva è quel particolare tipo di incompetenza che si accompagna all’eccessiva competenza, mentre la capacità negativa è “la capacità di essere nell'incertezza, di farsi avvolgere dal mistero, di rendersi vulnerabili al dubbio, restando impassibili di fronte all'assenza o alla perdita di senso, senza volere a tutti i costi e rapidamente pervenire a fatti o a motivi certi, di accettare momenti di indeterminatezza e di assenza di direzione, e di cogliere le potenzialità di comprensione e d'azione che possono rivelarsi in tali momenti. Questo stato di sospensione dispone a lasciare che gli eventi seguano il loro corso, restando in vigile attesa, e a lasciarsi andare con essi senza pretendere di determinarne a priori e a tutti i costi la direzione, il ritmo, o il punto d'arrivo”. Lanzara riprende il termine da una lettera del 1817 di John Keats, in cui il poeta inglese ha chiamato capacità negativa il saper «stare nelle incertezze, nei misteri, nei dubbi, senza essere impaziente di pervenire a fatti e a ragioni». Lo stesso termine è stato utilizzato da (Unger R.M. 1987) per esporre alcune auspicabili caratteri dei contesti formativi che sollecitano l’apprendimento.
Riferimenti bibliografici:
Balbo L.(2008) Lavorare con cura. Imparare a cambiare, Einaudi, Torino
Colombo G, Cocever E., Bianchi L., (2004) Il lavoro di cura, Carocci Editore, Roma
Donghi P., Preta L. (a cura di, 1995) In principio era la cura, Bari, Laterza
Fabbri P. (1995) "Abbozzi per una finzione della cura", in Donghi P., Preta L. (a cura di, 1995)
Fareri P. (2009) Rallentare. Il disegno delle politiche urbane. F. Angeli, Milano
Fareri P. (2009) Rallentare. Il disegno delle politiche urbane. F. Angeli, Milano
Lanzara G.F. (1993) Capacità negativa. Competenza progettuale e modelli di intervento nelle organizzazioni, Il Mulino, Bologna
Marinelli A. (2002) Etica della cura e progetto, Liguori Editore, Napoli Mortari L.(2002) Aver cura della vita della mente, La nuova Italia, Milano
Unger R.M. (1987) False Necessity, Cambridge University Press, Cambridge
Zamboni C. (1990) L’inaudito, in Diotima, Mettere al mondo il mondo. Oggetto e oggettività alla luce della differenza sessuale, Milano, La Tartaruga