Traduzioni

27 novembre 2009

Nomadi urbani contro il liberismo

INTERVISTA di Roberto Ciccarelli
ILmnaofesto 26/11/2009

NOMADI URBANI CONTRO IL LIBERISMO
GUY STANDING
Un'intervista con lo studioso inglese in Italia per l'uscita del volume collettivo «Reddito per tutti», una proposta per consentire ai precari di sfuggire al ricatto di lavori dequalificati, sottopagati e a tempo determinato. Ma anche premessa di una politica che riesca a coniugare libertà e eguaglianza dopo che negli anni Ottanta la sinistra aveva abbandonato entrambi gli obiettivi
Renato Brunetta lo ha conosciuto in un convegno a Venezia nel 1988, poco dopo che un piccolo gruppo di economisti, filosofi, sociologi e giuristi aveva fondato il Basic Income European Network (Bien), l'associazione non governativa che promuove a livello mondiale il reddito di base. Guy Standing, docente di sicurezza economica all'università di Bath e co-presidente del Bien, ne ha un ricordo netto. Era l'epoca in cui l'attuale ministro della pubblica amministrazione insegnava all'università e faceva il consigliere di Bettino Craxi. «Ho sempre pensato - scrive Standing nel saggio contenuto in Reddito per tutti: un'utopia concreta (pp. 264, euro 25), il volume pubblicato da Manifestolibri e curato dal Basic Income Network (Bin), nodo italiano della rete mondiale del Bien - che sarebbe stato facile per lui spostarsi dal laburismo cinico alla destra politica», dato l'eloquio dei «ceti rampanti» che il futuro ministro aveva fatto in quell'occasione.
Di quell'incontro Standing ricorda una «lite furiosa» con chi sosteneva una terapia choc nelle politiche sociali. Idealmente quella «lite» continua ancora oggi quando un altro degli ex socialisti al governo, il ministro del Welfare Maurizio Sacconi, ribadisce che la prossima riforma dello stato sociale in Italia escluderà ogni ricorso al «reddito di cittadinanza». L'intervista con Guy Standing è avvenuta alla vigilia della sua partecipazione al convegno napoletano del 27 e 28 novembre al Maschio Angioino «Verso il 2010, anno europeo per la lotta alla povertà e all'esclusione sociale» e per l'uscita del volume della manifestolibri. La conversazione prende avvio dai movimenti degli studenti che dalla California all'Austria, dall'Inghilterra alla Germania fino all'Italia si oppongono alle riforme e ai tagli al sistema della formazione pubblica e a quello della ricerca.
Per Standing, queste mobilitazioni sono «uno degli effetti della crisi globale. Nelle università di questi paesi si denuncia che la promessa di una formazione accessibile a tutti è in pericolo. E con essa le garanzie che lo stato sociale ha assicurato alla soddisfazione della domanda di alfabetizzazione, protezione sanitaria e pensione per i lavoratori nel corso di buona parte dell'epoca industriale. Non è un'esagerazione dire che la formazione è stata mercificata. È deplorevole che i cosiddetti accademici e gli intellettuali abbiano accettato il materialismo volgare dell'attuale sistema educativo. Viviamo in un oscurantismo che ha rimosso lo spirito illuminista della nostra cultura. La formazione dovrebbe infatti insegnare l'arte della critica mentre si accumulano conoscenze su come le idee e le civiltà si sviluppano nel tempo.

Come spiega la centralità della formazione nei processi di produzione?
Parlare oggi di formazione significa parlare di conservazione, riproduzione e rigenerazione dell'essere umano e non più semplicemente di uso efficiente delle risorse e del loro sfruttamento per la produzione. Attraverso la formazione possiamo recuperare il significato del controllo sul tempo. È il suo aspetto «ecologico». Il suo scopo principale dovrebbe essere sottratto ai progetti dei manager, degli amministratori e dai potenti interessi commerciali che tengono in ostaggio gli intellettuali e gli studenti.

Come si dovrebbe riformare il sistema educativo?
In due modi. Primo, dobbiamo rivendicare che le istituzioni della formazione siano governate e modellate su chi ha dimostrato competenza ed impegno nell'educazione, nella scienza e nelle arti. Gli amministratori e i finanzieri sono importanti, ma devono essere i servitori del processo formativo, non i loro padroni. Secondo, ciò che ho chiamato tempo terziario nel mio libro Work after Globalisation: Building Occupational Citizenship (Elgar). Il tempo terziario fa parte di una nozione più ampia di formazione. Nella società agraria, il tempo fluiva nelle stagioni, con il ritmo della produzione naturale e della saggezza degli antichi artigiani. Nel capitalismo industriale, il tempo è stato generalmente suddiviso in blocchi netti: scuola, lavoro, pensione, timbro d'entrata e timbro d'uscita. Per la maggioranza, esso corrispondeva ad una subordinazione ordinata, in particolare nel campo del lavoro salariato, fino a quando un incidente o una morte prematura metteva fine a questa esistenza. Di questa organizzazione i socialdemocratici del XX secolo ne hanno fatto un feticcio, pretendendo che il maggior numero delle persone vivesse con un lavoro salariato subordinato. È il limite delle ambizioni di questi moderni utilitaristi. Oggi, nell'epoca della mercificazione, la democrazia è stata profondamente corrotta. Il tempo terziario mira a riattivare ciò che gli antichi greci chiamavano scholé, cioè la partecipazione pubblica nell'arena politica della polis.

Ma qual è il soggetto di questa politica progressiva?
In primo luogo, è una politica che non può più essere fondata sulla resurrezione del proletariato, sebbene ciò sia desiderabile. Sarà la soluzione dei traumi del precariato ad ispirarla. Al precariato manca però quella che Hannah Arendt ha definito memoria sociale - una psyché che qualche decennio fa vincolava gli operai al valore dell'occupazione. Il precariato non ha un passato perché sente di non avere un futuro. Ciò crea una profonda insicurezza. Oscillare per tutta vita tra lavoretti a tempo determinato crea preoccupanti conseguenze sull'equilibrio mentale e fisico. Il precario non è dunque solo il risultato di un'organizzazione del lavoro, ma della perdita di controllo sul proprio tempo. La ragione fondamentale per sostenere il reddito di base è di evitare che questa oscillazione occupi tutta la vita di una persona. Solo così si può garantire un equilibrio mentale e procedere ad una vera riforma dell'educazione.
Rispetto alla maggior parte delle politiche del XX secolo ispirate dalla presenza politica della classe operaia industriale, la politica progressiva di questo secolo dovrà rispondere alle aspirazioni del precariato. Se ci pensa è proprio questa la rivendicazione più radicale che viene dai giovani di tutto il mondo che non vogliono finire i propri giorni nella disperazione di una vita precaria. La politica progressiva punta inoltre a coniugare uguaglianza e libertà, elemento, quest'ultimo, che la maggior parte della sinistra sia socialdemocratica che comunista ha da tempo abbandonato. Ciò ha avuto come conseguenza l'occupazione dello spazio della libertà da parte della destra, mentre la sinistra sembra attestarsi su un paternalismo di Stato e su un rigido laburismo per il quale libertà e uguaglianza vengono raggiunte occupando il maggior numero di persone in lavori non qualificati o temporanei.

Dunque non è possibile realizzare una società della piena occupazione?
Sarebbe una piena occupazione caratterizzata da lavori dequalificati e a tempo determinato. Il lavoro è uno strumento che tende ad uno scopo, non è un fine in sé. Dovremmo avversare culturalmente e politicamente gli utilitaristi che pensano che il lavoro precario faccia la felicità di una persona. Lo ha fatto la «terza via» di Tony Blair. Il suo workfare è stato il capitolo finale del laburismo in Inghilterra e il fallimento dell'esperimento neo-liberista.

Per alcuni studiosi, la precarietà è una condizione; per altri indica la formazione di una nuova classe sociale?
Al precariato manca un senso di appartenenza. Ciò non esclude però che venga trattato come una nuova «classe pericolosa». L'estraneo, il migrante, il non conformista, i giovani sono gli obiettivi dei Berlusconi, dei Sarkozy, del British National Party e di altre frange populiste che stanno crescendo in tutta Europa. Proprio perché è una «classe in sé» il precariato viene schierato facilmente contro alcune parti di se stesso. Si spiega così la sua attrazione per le sirene del populismo. L'esistenza di milioni di persone che vivono in questa condizione la potrei spiegare con un'immagine forse un po' abusata, ma che trovo adeguata per spiegare questi comportamenti. Il precariato è formato da «nomadi urbani» che vivono la propria identità dentro una contraddizione. La politica progressiva deve saperla affrontare. Deve proporre una nuova politica del paradiso.

Politica del paradiso....
La politica del paradiso è la proposta di una società egualitaria. Il fallimento dell'opposizione in Italia è dovuto al fatto che la critica al governo Berlusconi si limita ad un'arringa che non genererà mai un movimento progressivo. I progressisti lo hanno imparato durante la loro storia. Ci devono essere delle domande e una rabbia orientati verso una visione del paradiso. Le forze della sinistra, sia socialdemocratica che comunista, hanno perso di vista entrambi. Noi invece questo paradiso lo dobbiamo riportare in terra.

E il reddito di base contribuirà alla definizione di questa politica?
L'obiettivo è di muoverci verso una piena libertà che sfidi apertamente la società del controllo, demercifichi la vita di uomini e donne, conquisti un nuovo controllo sul tempo, garantisca un uguale accesso all'informazione e ai diritti sociali, alla redistribuzione dei profitti che oggi arricchiscono élite dinastiche. Abbiamo bisogno di nuove forme di regolazione dell'occupazione per la società in cui viviamo. Il reddito di base è una proposta complessiva che parla ad una libertà non dominata più dagli imperativi del mercato e contribuisce alla nuova marcia verso l'uguaglianza.

L'accuseranno di fare politica...
In una recente presentazione del mio libro, dal pubblico si è alzato un anziano professore di economia che mi ha detto. «Questa non è economia. È un progetto politico». L'ho guardato fisso per assicurarmi che dicesse sul serio e gli ho risposto più gentilmente che potevo: «Naturalmente. Non è quello che fa anche lei?».