Laura Pennacchi
La matrice del futuro
«Immagina che il lavoro», un manifesto scritto da donne e rivolto a tutti per cambiare tempi, criteri, misure
Se la crisi economico-finanziaria globale non è un incidente di percorso ma la deflagrazione strutturale di un modello di sviluppo giunto al capolinea della propria fragilità e patologicità, diventa un imperativo rimettere in discussione il paradigma economico dominante - di matrice neoclassica e di stampo neoliberista - le cui ricette ne sono alla base. Una siffatta ampiezza di afflato critico è uno dei meriti maggiori del manifesto Immagina che il lavoro promosso dal Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano. Infatti, partire dalla duplice consapevolezza che «il discorso della parità fa acqua da tutte le parti e il femminismo non ci basta più», consente alle autrici del manifesto un'altrettanto duplice acquisizione.
La prima acquisizione concerne la volontà di non limitarsi a richiedere un accesso e un rapporto con il lavoro «pari» rispetto a quello già detenuto dagli uomini mantenendo inalterato il modello economico e lavorativo imperante, ma di rivendicare per tutti, donne e uomini, un rovesciamento radicale del modello stesso. Un rovesciamento tale da superare la semplice conciliazione tra «lavoro di cura» e «lavoro retribuito per il mercato» e da riconoscere la profonda autenticità del «doppio sì» - «sì alla maternità e alla paternità, sì al lavoro» - di tutte tutti, come valore sociale universale «con l'ambizione di ricongiungere produzione e riproduzione».
Portano a tale acquisizione alcune premesse sostanziali tra cui, importantissima, l'idea che il lavoro sia «molto di più» di ciò che si finisce con l'accettare troppo comunemente: che sia, cioè, non solo attività materiale e immateriale, ma anche costruzione simbolica, invaso di socialità, veicolo di autorealizzazione, fattore di creazione di autonomia, di responsabilità, di relazionarietà. A sua volta questa premessa si sostanzia nella scelta di non considerare le donne «categoria debole», perché - senza dimenticare che, per esempio, i tassi di occupazione femminile sono in Italia di dieci punti inferiori a quelli medi europei (di 20 punti al Sud) - c'è ancora da interiorizzare il significato («quali le conseguenze di questa rivoluzione, quali i problemi nuovi da affrontare») dell'entrata in massa, avvenuta negli ultimi anni, delle donne italiane nel lavoro pagato, per quanto spesso precarizzato (la femminilizzazione è un tratto della precarietà, sia a bassa che ad alta scolarità). Da una simile concezione del lavoro discende anche, a mio parere, una diffidenza verso tutte le forme di monetizzazione compensative della sua mancanza, e dunque la preferenza per una prospettiva di «lavoro di cittadinanza» piuttosto che di «reddito di cittadinanza», ma su questo sarà bene ritornare.
La seconda acquisizione rilevante del manifesto riguarda il fatto che intendere il lavoro «come unità di lavoro retribuito e di relazioni» porta inevitabilmente ad avanzare la pretesa «di ridefinire l'economia, la teoria sociale e politica». Pretesa troppo audace? Niente affatto, perché bisogna contrastare una economia che «analizza e ragiona con le categorie di sempre», annullando la soggettività «di chi vuole lavorare e passare molte ore con i figli o di chi sa che, se riparte la corsa indiscriminata ai consumi, l'economia gira ma il mondo esplode». E del resto, è interessante notare che a discutere le classiche categorie economiche - «bilanci, Pil, parametri europei, sviluppo/consumo» - sono anche autori eterodossi ma autorevolissimi, come Stiglitz, Sen e Fitoussi, i quali hanno coordinato i lavori della Commissione appositamente costituita da Sarkozy. Semmai si vorrebbe che la sinistra fosse meno timida, esitante, conformista.
La ridefinizione della teoria sociale e politica reca con sé anche l'esigenza di ridefinire l'egemone paradigma della razionalità strumentale - quello dell'homo oeconomicus per l'appunto, agente egoista, acquisitivo, autointeressato - e di fare spazio a una «razionalità in base al valore e ai sentimenti», fin qui weberianamente assai negletta. Dare valore a un senso molto ampio di «cura» (in senso aristotelico, à la Honneth) significa riconoscere che gli individui/e sono a) irrimediabilmente dipendenti e bisognosi/e degli altri, b) costitutivamente costruiti/e nell'intersoggettività e operanti razionalmente sulla base di motivazioni molto più complesse che non l'autointeresse. La prima volta del Nobel per l'economia a una donna, Elinor Ostrom, è anche la prima volta del Nobel ai temi di cui quella donna è portatrice: i «beni comuni», l'azione cooperativa, il disegno delle regole e delle istituzioni, il metodo interdisciplinare, il dialogo tra scienze sociali e non la matematizzazione isolante tipica della mainstream economics.
Sembrano ragionamenti astratti, ma sono i ragionamenti alla base del dilagare delle parole chiave riportate in auge da Obama: «strade», «ponti», «reti», «scuole», «ospedali», «innovazione sociale», «tecnologie verdi». Ciò vuol dire che le sinergie tra sfera economica e sfera sociale possono oggi manifestare tutte le loro potenzialità in direzione di un umanesimo radicale. La fase che stiamo vivendo è una seconda Great Transformation analoga a quella che studiò Karl Polanyi negli anni a cavallo fra le due guerre mondiali, tale da richiedere, quindi, un analogo sforzo di produzione di pensiero, di categorie, di idee, di modelli alternativi.
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19 novembre 2009
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