Il Testo unico della normativa della Regione Campania in materia di lavoro e formazione professionale e per la promozione della qualità del lavoro, approvato dal Consiglio regionale nel mese di ottobre, coglie aspetti centrali del mercato del lavoro regionale, quali la diffusione di massa della sottoccupazione e della cattiva occupazione e i fenomeni di emarginazione e di esclusione dal lavoro e dai diritti al lavoro e del lavoro di una ampia parte della popolazione, in particolare delle donne, della popolazione meno qualificata e scolarizzata, della popolazione giovane anche qualificata e scolarizzata.
L’analisi su cui gli indirizzi politici della legge si basano è corretta, così come quella che definisce il quadro delle tipologie di interventi che l’ente regionale è chiamato a realizzare, ferme restando le prerogative esclusive della legislazione nazionale in materia di lavoro che riguardano in particolare le materie diritto del lavoro, previdenza sociale obbligatoria, ammortizzatori sociali, contratto collettivo di lavoro. Il valore sostanziale, e anche simbolico, assegnato negli indirizzi politici della legge alla qualità del lavoro è anch’esso corretto e importante. Essa andrebbe presentata e promossa per quello che è il suo obiettivo principale: come una legge sul “buon lavoro”.
La praticabilità delle politiche e dei funzionamenti che l’attuazione delle disposizioni contenute nel testo unico richiede appare invece incerta e discutibile, il che non significa che sia debole in sé, piuttosto che sia condizionata dal mantenere fermo e visibile il valore dell’indirizzo politico che si è inteso seguire. Il fatto che ci siano voluti ben 3 anni per approvare il testo, malgrado la completa convergenza che su esso hanno a suo tempo unitariamente espresso le parti sociali, è un segnale già preoccupante delle difficoltà di “mantenere il punto”. Anche il sorprendente silenzio, la scarsa informazione di stampa e l’assenza di dibattito seguiti all’approvazione della legge fanno temere che non sia considerato in pieno il patrimonio e il potenziale di risorse e di strumenti che la legge mette a disposizione del lavoro nella nostra regione.
L’obiettivo della legge è di lievitare la qualità del lavoro, creando un sistema promozionale nel quale la qualità del lavoro sia discriminante, premiante, accessibile e dunque desiderabile per la maggior parte degli operatori economici e per la maggior parte della popolazione. Chi cura e persegue il lavoro, la sue funzioni produttive di beni e servizi di mercato e quelle fondamentali legate alla inclusione e alla promozione sociale, la sua sicurezza e i suoi profili di qualità, produttività e legalità, è punto di riferimento per le azioni di incentivazione, formazione, impiego formativo, autoimpiego.
L’interlocutore privilegiato è così identificato con assoluta e semplice precisione nell’impresa virtuosa rispetto al lavoro, in una visione della sussidiarietà meno vaga e intangibile di quella che siamo soliti evocare, innovativa e sensibile alle caratteristiche del contesto economico sociale e culturale, rivolta a un presente e ad un futuro che non siano compromessi dalla doppia emergenza lavoro-povertà.
L’emergenza lavoro-povertà esiste tangibilmente ed appare realisticamente destinata a pesare anche sui nuovi strumenti che la legge introduce, così come è avvenuto per l’impianto di programmazione e di utilizzo dei fondi europei destinati alla formazione e alle politiche attive del lavoro. La legge regionale sul lavoro non è strumento che da solo può affrontare i fenomeni di povertà e di disagio sociale, fenomeni che soffrono di una forte debolezza di iniziativa pubblica (un’iniziativa che per risorse e ruoli istituzionali può essere affrontata solo dal governo centrale) e che mostrano chiare tendenze di diffusione e di cronicizzazione. Se, come è necessario e come univocamente è riconosciuto da tutte le parti politiche sociali e culturali del Paese, la povertà va affrontata con strumenti di contrasto appropriato e va rotto il circolo vizioso che porta la formazione ad essere un sostituto di reddito minimo e l’impiego pubblico ad essere la one best way per uscire dall’indigenza, questa necessità non si risolve con le buone volontà e le ferme rettitudini degli amministratori regionali e locali, né con la repressione dei movimenti di lotta per il lavoro, ma con un intervento deciso di contrasto alla povertà, una misura universalistica di reddito minimo che sia ben inquadrata nella cornice di riforme già fatte, come quella del titolo V della costituzione, delle politiche sociali, del sistema previdenziale, del federalismo fiscale, e nella prospettive delle riforme da fare, come quella degli ammortizzatori sociali.
L’intervento sul reddito minimo è un altro perno intorno al quale l’intervento pubblico sull’occupazione deve essere impostato, rispetto al quale l’intervento sul mercato del lavoro deve potersi posizionare e integrare a partire dalla chiarezza e certezza che il suo compito è: a) contrastare gli squilibri e affrontare le criticità interne al mercato del lavoro; b) agire sulle esternalità del mercato del lavoro rispetto ad alcuni fattori strutturali che più incidono sulla domanda e l’offerta di lavoro (ad esempio le localizzazioni e i finanziamenti diretti degli investimenti, le politiche rivolte alle famiglie, la qualità dei sistemi sistemi educativi secondari e universitari); c) assecondare e facilitare le altre politiche chiamate ad agire sulla struttura economica e sociale della regione, sui ritardi e le arretratezze dello sviluppo e sulle difficili condizioni economiche e sociali della popolazione.
In sostanza una legge regionale sul lavoro deve occuparsi anche delle fasce più svantaggiate e più povere di popolazione (e il testo unico di fatto se ne occupa); ma deve poterlo fare convergendo in ogni caso su obiettivi di equilibrio e funzionamento del mercato del lavoro, pena la perdita di controllo e di senso, nell’indirizzo politico e nella gestione, su strumenti come la formazione, gli stage, i lavori socialmente utili che nascono con questa precisa finalità); allo stesso modo le politiche sociali e gli strumenti di reddito minimo non escludono l’offerta di opportunità legate all’impego e all’occupabilità che possano convergere su obiettivi di uscita dalla povertà; ma dovrebbero poter presentare e offrire una gamma di opportunità e di obbiettivi realistici, adeguati e mirati. In ogni caso diversi dal posto nell’amministrazione pubblica, nella società mista, nella concessionaria pubblica, diversi dalla carriera dentro i percorsi della formazione professionale sussidiata, del precariato socialmente utile sussidiato, diversi in ogni caso da obiettivi dettati da motivi di ordine pubblico, opportunità clientelare, pressione corporativa che mettono sul banco in primo piano il “bene lavoro”.
Un intervento sul reddito minimo dovrebbe costituzionalmente essere un compito dello Stato, ma si può attivare anche a livello regionale. La Regione Campania in questo senso è maestra e depositaria di un significativo bagaglio di esperienza dal quale si può partire. La sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento introdotto subito dopo la legge 328 di riforma del “welfare sociale” e la legge regionale n.2 del 2004 che introduce, sempre a livello sperimentale, in Campania il reddito minimo di cittadinanza hanno tracciato un percorso sulla pratica del reddito minimo nella realtà territoriale che a livello nazionale è senz’altro una tra le più significative, se non la più significativa per povertà e disagio sociale. L’esperienza mostra ombre, soprattutto nell’intervento regionale: nell’impianto di impostazione (la parzialità dell’intervento e la discutibile equità dei criteri e dei meccanismi di accesso); nelle cadute verticali sulla gestione coordinata e sulla integrazione di misure di accompagnamento legate alla formazione e al lavoro; nella difficoltà di gestione dei comuni con forti ritardi di attuazione; ma mostra anche luci come l’avvenuto ricambio all’interno della popolazione beneficiaria, l’avvenuta integrazione con le attività ordinarie delle politiche di assistenza curate dai comuni e dai piani di zona, la visibile percezione, emersa anche nelle indagini scientifiche che la facoltà di sociologia della Federico II ha condotto sia sul reddito di inserimento che sul dispositivo regionale, che un aiuto anche minimo incide significativamente nel migliorare le condizioni di vita delle persone e delle famiglie e nel modificare le prospettive di uscita dalla povertà.
Le pratiche sperimentate in Campania sembrano indicare che sussistono tutte le condizioni per mettere a punto un intervento con maggiori efficienze, con una spesa complessiva non insostenibile (che in molti casi può generare risparmio su altre voci di bilancio come la sanità, la giustizia, la previdenza, la sicurezza), con concrete possibilità di raggiungere obiettivi tangibili ed estesi di aiuto a chi è indigente ed economicamente e socialmente in difficoltà e con risultati di complessivo contrasto della povertà e della esclusione sociale.
Non è forse un caso se il quotidiano Il Mattino ha presentato il testo unico all’indomani della sua approvazione come la legge che istituisce l’agenzia sociale del lavoro voluta dalle liste di lotta per assorbire i precari del progetto Isola, i corsisti parasanitari, i lavoratori socialmente utili residuali ecc. E nessuno ha smentito. Non è forse un caso se gli unici emendamenti al testo accolti in sede di approvazione trattino la materia della stabilizzazione dei precari, non si sa quali, né come. Questi fatti prestano oggettivamente il fianco alle insinuazioni sulla deriva verso l’agenzia sociale e sulla approvazione della legge solo allo scopo di collocare stabilmente quanti più soggetti hanno accompagnato il lavoro dell’ultima amministrazione regionale. Ma al di là di queste dietrologie, appare evidente che senza una posizione politica chiara sulla questione della doppia emergenza lavoro-povertà e senza le necessarie azioni politiche di “protezione della natura dell’intervento sul lavoro” e di sollecitazione forte di un decisivo intervento di contrasto alla povertà, le incertezze sulla praticabilità della legge appena approvata dal consiglio regionale sono destinate a una clamorosa, rapida e sostanziale conferma. Può accadere tutto. E’ bene però che si sappia cosa si fa e cosa si perde, così facendo.
Chi ha avuto pazienza e attenzione nel leggere il testo unico e il regolamento di attuazione, ha capito quanto sia impegnativo e ambizioso il profilo del sistema di politica del lavoro che la legge definisce. E' impegnativa anche la presentazione dell'articolato, specie se si considera che per conoscere in pieno i suoi contenuti bisogna fare riferimento anche al regolamento di attuazione, allegato al testo legislativo e costituito da 46 articoli che si aggiungono ai 57 del Testo Unico. La presentazione del testo e del regolamento mi è parsa necessaria visto che nessun altro sembra interessato a parlarne e a diffonderne la conoscenza. Si tratta di una presentazione-lettura che privilegia alcuni punti e ne riassume sbrigativamente altri, parziale nel metodo e nel merito, di cui mi assumo la responsabilità, sperando solo che serva a sviluppare l'interesse e il dibattito che la legge senz’altro merita. La presentazione è qui.
9 novembre 2009
Susi Veneziano
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10 novembre 2009
Una legge del buon lavoro tra sottoccupazione e povertà
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