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2 novembre 2009

Dal '68 alla crisi della sinistra

Giugno 2008

Dal ’68 alla crisi della sinistra. Intervista ad Étienne Balibar


di Anna Curcio e Gigi Roggero

Ci sono eventi capaci di periodizzare, di distinguere tra un prima e un dopo. Eventi che cambiano il corso della storia e come tali vengono ricordati. Il ’68, oggi celebrato nel suo quarantennale, è tra questi. Va ricordato tuttavia non con nostalgia, ma con lo sguardo critico di chi legge il presente dentro le contraddizioni aperte nel passato. Questo è l’orientamento di Étienne Balibar che, da protagonista del ’68 e al contempo allievo di Althusser, noto critico di quel movimento, ne legge le ambivalenze tra spinta antiautoritaria e disciplina dell’organizzazione, tra rottura rivoluzionaria e pratiche riformiste. Il ’68 come prisma attraverso cui leggere il presente: la crisi della sinistra, la svolta populista dell’Europa contemporanea, il riemergere del fantasma dello Stato. Di questo abbiamo discusso con Balibar in occasione di un seminario su i quaranta anni dal ’68, al Birkbeck College di Londra.

Il ’68 è un punto di svolta sul piano globale. È possibile oggi partendo da quegli avvenimenti leggere la crisi delle sinistre in Europa come esito della sfida aperta dai movimenti a partire dal ’68?

Il ’68 è l’evento per eccellenza. Alcuni, come il mio amico Immanuel Wallerstein, parlano di rivoluzione: un’esplosione contro i poteri, in uno spazio di tre o quattro anni, irriducibile all’Europa occidentale o all’America del nord o del sud, né ai paesi socialisti. È una straordinaria concentrazione di avvenimenti che suggerisce l’idea di un prima e un dopo, e rivela che la politica, la società, la cultura sono diventate qualcosa di molto diverso da come erano concepite ufficialmente; le sinistre si trovano costrette ad inventare qualcosa di nuovo, che forse ancora non hanno trovato. E questo che rende il ’68 un evento. È la condensazione in pochi giorni diceva Marx – ma anche mesi – di cambiamenti e conflitti che normalmente si sviluppano negli anni. Dunque non si capisce il ’68 se non si guarda oltre il maggio francese, se non lo si legge come straordinaria traduzione di lotte, linguaggi, pratiche. Per me è la seconda esperienza politica importate: c’era stata la guerra coloniale, nel nostro caso l’Algeria, per altri il Vietnam … da francese che aveva 26 anni nel ‘68 sono dunque un po’ inquieto per questo mito del maggio francese.

Così capiamo il ’68 solo se estendiamo lo sguardo lungo le coordinate spazio-temporali globali, anche se rimane una specificità dell’esperienza francese...

È una specificità che deriva dalla forma del potere politico: la figura stranamente monarchica di de Gaulle che fa da catalizzatore nella convergenza tra movimenti studenteschi, scioperi operai e appoggio della popolazione, cristallizzatasi nei giorni di maggio. De Gaulle è espressione di un’anomala combinazione di modernismo tecnocratico ed economico e di arcaismo politico, con un potere radicato nel malessere dei francesi sconfitti durante la guerra ma miracolosamente trasformati in vincitori. Però de Gaulle è un monarca invecchiato, non capisce cosa succede, come il re nel 1789 che chiede al suo ministro “cos’è questa rivolta?”, ed il ministro: “non è una rivolta, è una rivoluzione”. Non si accorge che si è riattivata una memoria rimossa: gli operai ricominciano come nel ’36 ad occupare le fabbriche, gli studenti e gli scrittori l’attività intellettuale. Come dice Marx: la commedia si ripete. E ricomincia la Prise de la Bastille, che si è trasformata in Sorbonne o in teatro dell’Odeon. Ricomincia la politica permanente nelle strade.

Qual è allora il filo conduttore che ci consente di capire le risonanze del ’68?

È lo spirito antiautoritario. Le lotte operaie del ’68 sono state potentissime. I risultati, visti dalla Francia sono enormi. Non è un caso che Sarkozy e i neoliberali imputino il ritardo francese nella competizione internazionale proprio al ’68. C’è stata una grossa capacità di negoziazione. È chiaro che questi sono risultati riformisti, il capolavoro di quel movimento operaio e sindacale. Ma da dove veniva questa capacità che sul momento è stata decisiva e nel lungo termine si è progressivamente dissolta? Dalla forza dell’organizzazione, dal livello di una certa coscienza di classe nel senso più tradizionale, ma anche probabilmente dal timore per il socialismo. Nel ‘68 questo non esiste più. Il ‘68, includendo la Cina, è la vera fine del socialismo reale in quanto forza storica, benché ci vorranno ancora vent’anni per la sua dissoluzione determinata dai movimenti. Il tragico effetto del ’68 cecoslovacco ne è prova. Quindi il terrore fantasmatico sul quale si fondava una parte della potenza del movimento operaio non esisteva più. Ma il movimento studentesco e culturale, quello che Althusser chiamava “la rivolta ideologica di massa della gioventù studentesca”, riesce a sorprendere la borghesia francese così come i sindacati.

Dunque il ’68 come frattura tra movimento operaio e nuove forme della politica e del conflitto…

Con il ’68 i sindacati si trovano in una situazione non facile. L’obiettivo della Cgt era di approfittare della simpatia degli operai per gli studenti brutalizzati dalla polizia ed attaccare il potere su due fronti per avanzare. L’idea, che veniva dalla base, era di approfittare del disorientamento della borghesia. Tuttavia Cgt e Pcf erano apparati autoritari, criticati dagli studenti. Dovevano dunque evitare il contagio interno. E la convergenza è durata finché ha retto questo obiettivo limitato: un riformismo di classe che implicava disciplina e controllo della circolazione dei soggetti. Ed è stato facilitato dal fatto – lo dico da vecchio marxista – che esisteva una coscienza di classe e soprattutto la riluttanza di gran parte degli operai ad accettare un’egemonia di gruppi intellettuali studenteschi che pur usavano la retorica rivoluzionaria più estrema.

L’evento ’68 ci permette forse di ritematizzare il concetto di rivoluzione, uno dei grandi rimossi della contemporaneità, e farlo a partire da ciò che lei chiama le aporie della democrazia, tra ininterrotta necessità di alimentare il conflitto e continua esigenza di riportarlo all’interno dei suoi confini. Possiamo ripensare il discorso della rivoluzione a partire dall’eccedenza dei confini della democrazia?

Il mio sforzo è pensare la temporalità delle rotture politiche insieme all’articolazione degli aspetti politici, sociali e culturali, per rifuggire la terza via e superere le vecchie antitesi tra scelta riformista e rivoluzione. La rivoluzione mi sembra più attraente. Tutto si gioca abbandonando l’idea di un progresso lineare che va dal capitalismo al comunismo attraverso il socialismo. È interessante che Althusser, Negri e altri marxisti critici, a partire dal ’68, mettano in discussione questa linea di evoluzione, criticando apertamente il socialismo nella sua forma di stato autoritaria all’est, e nella sua veste socialdemocratica mescolata al liberalismo all’ovest, o l’equivalente idea di sviluppo per il terzo mondo. Tuttavia, mettendo da parte il socialismo non si supera l’idea dell’alternanza. Il comunismo, è un ideale che si può sognare o, come diceva Marx, è “quel movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”? Sceglierei la seconda possibilità, quindi non mi trovo d’accordo con l’idea del comunismo come alternativa globale al capitalismo. L’idea che il capitalismo di oggi sia una specie di comunismo rovesciato è bellissima, è la grande utopia dello sviluppo delle forze produttive al livello della totalità del Marx de L’ideologia tedesca, però ci riporta all’alternativa riforma o rivoluzione. Sul fronte politico si tratta piuttosto di capire fino a che punto una certa convergenza di pressioni democratiche riporta i conflitti all’interno dei confini del sistema politico sociale. E questo ha a che vedere con gli elementi di democratizzazione radicale che si ritrovano in ogni momento di conflitto con le istituzioni, quando si dà circolazione tra resistenza, rivolta singolare e speranza collettiva. La difficoltà sta nell’esseri sicuri che questo avviene sempre a sinistra. L’ultimo libro di Ernesto Laclau sul populismo è interessante perché affronta una questione di estrema attualità. Tuttavia, nel suo discorso ogni politica di massa è populista; è espressione di una combinazione eterogenea di domande che si trovano in una retorica comune di sinistra o di destra. Non condivido questo relativismo perché vedo sullo sfondo il nazionalismo. Perciò mi preme mantenere un primato della democrazia sul populismo. Anche se bisogna essere coscienti che non c’è nessuna base di classe che oggi spinge i lavoratori o gli studenti a sinistra piuttosto che a destra.

È un dato che le retoriche populiste riscuotono fortuna in Europa. Ma quanto le destre al governo e i discorsi sulla rigidità dei confini o la risposta protezionista alla crisi della globalizzazione possono bloccare i processi di inclusione differenziale dei migranti e le forme della governance contemporanea?

Non credo nella possibilità che le destre operino riforme profonde. Nel caso francese questo è evidente: Sarkozy ha immediatamente fatto i conti con la difficoltà di un discorso riformista che tiene insieme aspetti contradditori. È evidente soprattutto per quanto riguarda il welfare state: il processo di smantellamento è progressivo e apparentemente irreversibile, ma è anche lento e difficilissimo. Incontra ostacoli permanenti, e sono richieste continue forme di mediazione. L’elemento populista significa anche la necessità di presentarsi come garante dell’omogeneità interna e difensore dal nemico esterno. Tuttavia non si tratta di un governo forte, non è il reaganismo o il thatcherismo puro, e probabilmente non potrà mai esserlo.

Nello stesso tempo la sinistra, al culmine della sua crisi storica, ripropone il fantasma dello stato come elemento di resistenza. Possiamo in qualche modo leggervi una specularità rispetto alle retoriche populiste delle destre?

Questa discussione in Francia richiama la relazione tra Stato, forma-stato e iniziativa pubblica. Ritengo interessante la distinzione di Toni Negri tra comune e pubblico, ma c’è anche la distinzione tra pubblico e statale che gioca un ruolo importante nei conflitti politici. Il grande obiettivo del riformismo neoliberale è di limitare il più possibile il ricorso al servizio pubblico. Il caso francese è particolare perché, al contrario dell’Italia, c’è per tradizione giacobina o piuttosto bonapartista un modo molto centralizzato di concepire la potenza pubblica. La gran parte della sinistra tende a considerare i servizi pubblici come amministrazioni di stato, dunque diventa difficilissimo criticare l’uno senza abbandonare l’altro. Per difendere l’impegno democratico nelle nostre società non dobbiamo abbandonare la radicalità. Sarebbe una lotta perduta in anticipo.