da Il Manifesto del 4/11/2008
La festa dei 40 anni
di Massimo Carlotto
Vicenza e il Salto di Quirra in Sardegna sono territori sacrificati alle peggiori logiche belliche. Luoghi espropriati dei propri diritti e destinati a subire danni irreversibili. Una città antica e civile verrà stravolta dal punto di vista urbanistico e sociale modificando sensibilmente la qualità di vita di un'intera popolazione e delle generazioni a venire sia a livello collettivo che individuale. Il poligono interforze di Salto di Quirra è destinato a diventare l'unico dove eserciti area Nato e ditte private (affittandolo a ore) potranno sperimentare armi, esplosivi, propellenti e droni trasformandolo in una sterminata discarica di rifiuti militari. Il futuro è la desertificazione umana perché quel tipo di scorie non è bonificabile e il presente è già malattia, morte e deformità per gli esseri umani e gli animali. Vicenza e il Salto di Quirra sono poi vere e proprie emergenze democratiche. Il parere dei loro abitanti è inascoltato e quei cittadini che si sono attivati e organizzati per opporsi alla devastazione delle terre e della città sono costantemente spiati, oggetto di indagine e hanno subito e subiscono violenze e intimidazioni da parte delle forze dell'ordine. L'ingiustizia è oggettiva e mostruosa perché il rischio che saranno i manganelli e le ruspe a imporre l'attuazione dei progetti bellici è così reale da sembrare inevitabile. E se si pensa a quanto sta accadendo a Chiaiano e a Marano e in Val di Susa e in moltissimi altri luoghi dove il conflitto ha le sue articolazioni organizzative si comprende quanto siano limitate oggi le possibilità di vittoria. Non è più sufficiente avere dalla propria diritto, ragione e maggioranza. Che sarebbe finita così qualcuno l'aveva scritto e detto subito dopo i fatti di Genova ma siamo stati i primi (noi popolo della sinistra) a rimuovere il significato profondo del nuovo corso poliziesco in questo paese (diventi sovversivo e trattato come tale solo per il fatto che osi rivendicare i tuoi diritti in modo pacifico e pubblico).Ma al di là della specificità di questa analisi rimane il fatto che i territori senza diritti sono un fenomeno preciso ed è altrettanto reale l'urgenza politica di dare senso regionale e nazionale a queste realtà. Se non vogliamo prendere atto nell'immediato futuro di una lista infinita di cocenti sconfitte è necessario creare collegamenti e alleanze in grado di arrivare alla stesura di una carta dei diritti del territorio che possa finalmente sviluppare un percorso di riunificazione intorno a determinati obiettivi. Ma per ricevere consenso e usarlo nei rapporti di forza tutto questo non basta. È necessario anche raccogliere e organizzare tutte quelle realtà, anche micro, che si occupano di tutto ciò che è etico, giusto, solidale, sano, pulito praticando logiche «altre» al neoliberismo. E con il preciso obiettivo della creazione di un blocco sociale che abbia interessi, consumi e stili di vita condivisi da difendere e per questo deciso a contare. Anche in termini elettorali. È fuori discussione che un processo del genere richieda una forte autonomia dai partiti, ma non solo perché sarebbero oggettivamente ostili e d'impaccio ma soprattutto perché c'è la necessità vitale di liberare la sinistra di questo paese da pratiche e linguaggi così interni da risultare incomprensibili e inutili. Migliaia di elettori di sinistra (tra cui il sottoscritto) non sono andati alle urne perché non si sentivano più rappresentati da politici di professione imposti dalla segreterie e dai rapporti di forza tra le correnti. Sembra che nessuno della sinistra radicale se ne sia ancora accorto, magari perché troppo occupati a scannarsi o a rimettere onestamente insieme i pezzi, ma in giro si sente dire con chiarezza che in futuro quegli elettori se voteranno, sceglieranno solo candidati che arrivano dritti dritti dalle lotte, dai comitati, dalle associazioni, espressione precisa di realtà territoriali. Ovviamente nessuno si vuole accanire sui compagni che hanno investito anni o vite intere in progetti politici e organizzativi travolti dal tracollo elettorale ma il problema è un altro ed è molto semplice. Nessuno può permettersi di aspettare che la sinistra radicale esca dalla crisi e muti un agire che obiettivamente l'ha allontanata dal proprio elettorato ed è culturalmente lontano da quel «nuovo» che l'urgenza di salvaguardare i diritti dei territori impone. Già, il nuovo. Alleare e collegare in nome dei diritti dei territori significa mettere in contatto donne e uomini di ogni età che oltre all'agire politico debbano riconoscersi in nuove forme di relazioni umane ben diverse da quelle che questa società impone. Recentemente, in una riunione, qualcuno ha usato il termine «affetto». Non so se sia il più giusto ma credo dia il senso di questo bisogno. Io l'ho vissuto in termini precisi alla festa del No Dal Molin a Vicenza. La maturità di una lotta, di percorsi collettivi che si appropriano e praticano la consapevolezza della necessità di dare qualità umana alle mobilitazioni sociali. Insomma non si può pensare al nuovo trascinandoci dietro quel ciarpame di tristezza e di assurde rigidità di cui dovevamo liberarci un bel po' di tempo fa e che ci ha resi indigesti e lontani.Vicenza si trova nel Nordest dove la Lega rischia seriamente di sfondare il 70% alle prossime elezioni. Porsi seriamente il problema e attivarsi per arginare questa nuova ondata di destra xenofoba e pericolosa non è solo un «compito» della sinistra, quantomeno locale, ma soprattutto un'irrinunciabile necessità di sopravvivenza politica. E per sopravvivere dobbiamo avere il coraggio di cambiare completamente il nostro modo di comunicare. Ma non per scimmiottare quello facile e ignorante della Lega ma perché è assolutamente evidente che non riusciamo a farci capire. Siamo percepiti come marziani o peggio come verbosi, noiosi e inconcludenti. «Fighetti di sinistra» come recita lo straordinario personaggio leghista che Bebo Storti porta in teatro. E affrontare il tema significa porsi il problema degli strumenti. Uno degli errori strategici che, a mio avviso, hanno portato a uno scollamento tra sinistra radicale e il proprio elettorato è stato quello di privilegiare la televisione come strumento di propaganda. Abbiamo visto comunisti e verdi in ogni trasmissione possibile, addirittura avventurandosi in duetti canori con Ignazio La Russa e in altri picchi di cattivo gusto. Abbiamo soprattutto assistito a un balbettamento generale, politicamente nocivo, all'interno di un mezzo che non ci appartiene nel vero senso del termine e in cui l'unico ruolo che ci veniva affidato era di dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio l'inattualità della proposta politica. E il risultato è stato raggiunto con straordinaria efficienza. Il linguaggio e i tempi della televisione ma soprattutto l'uso sociale a cui è preposta in questa società e cioè la reificazione delle ansie di massa sono quanto di più lontano ci sia dalla nostra concezione del mondo. Il che non significa fingere che non esista ma magari non scambiarla per il salotto di casa come è accaduto negli ultimi anni.I blog, la cara vecchia stampa, la narrativa, il teatro, la musica, il documentario, il cinema e tutto quello che può suggerire la creatività sono strumenti straordinari che abbiamo a disposizione per «agitare» la realtà che ci circonda. Dobbiamo portare la gente fuori dalle case per impedire che si rincoglionisca davanti al televisore e dobbiamo convincerla che abbiamo ragione e che è «bello», giusto, lungimirante e socialmente conveniente schierarsi con noi. Ed è per questo e molto altro che dobbiamo assolutamente salvare Carta e il manifesto. Senza sarebbe tutto più difficile. E poi è una vittoria che possiamo ottenere. E festeggiare. Una volta tanto...Pensate che bello il 28 aprile 2011 un lungo e allegro corteo che festeggia i 40 anni del manifesto. Tre anni. Tre anni importanti per il futuro di tutti noi.
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11 novembre 2008
La festa dei 40 anni
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