Isaia Sales, il Corriere del Mezzogiorno, 25-11-2008
«Si tratta di una delle più antiche città d'Europa... I tracciati delle sue strade, la ricchezza dei suoi edifici caratterizzanti epoche diverse conferiscono al sito un valore universale senza uguali, che ha esercitato una profonda influenza su gran parte dell'Europa e al di là dei confini di questa».
Sono queste le motivazioni con le quali l'Unesco ha inserito nel 1996 il centro storico di Napoli nella lista del patrimonio mondiale dell'umanità. Il suo recupero, se ben progettato, organizzato, guidato, eseguito, potrebbe divenire un avvenimento nella storia della città, un evento per l'urbanistica mondiale, un caso di successo (o di insuccesso) di cui parlerebbe il mondo intero, come è avvenuto per il recupero a Barcellona del Barrio gotico, a New York per Harlem, o a Berlino. C'è questa consapevolezza nella classe dirigente napoletana, nel mondo della cultura, delle professioni, delle imprese, e nell'opinione pubblica più vasta?
Diversamente da ciò che è avvenuto nelle altre tre città, la discussione è ristretta agli addetti ai lavori, e non è diventata ancora passione e confronto collettivo neanche sui giornali, se si esclude qualche tradizionale punzecchiatura tra urbanisti. Eppure i tempi stringono e le decisioni da prendere non vanno al di là della fine di quest'anno. Com'è noto sono stati riservati 200 milioni di fondi europei a tale scopo (a cui si aggiungono 20 di cofinanziamento da parte del Comune di Napoli) e la proposta concreta per il loro utilizzo doveva essere già presentata entro il 30 settembre.
Con questo articolo provo a dire la mia, visto che quando ero in Regione a seguire il nuovo programma di utilizzo dei fondi europei ho voluto uno stanziamento ad hoc per il centro storico, augurandomi che su questo argomento sia la stessa amministrazione della città a promuovere un confronto di massa prima di assumere le proprie determinazioni.
Il sito Unesco interessa il centro storico per 700 ettari, il 16% dell'intero territorio della città, con una popolazione di quasi 300 mila abitanti. So che il Comune di Napoli vorrebbe sì proporre un intervento in un'area più ristretta, 16 kmq, ma che spazierebbe comunque tra ben 10 quartieri e 4 municipalità, da Castel dell'Ovo all'Albergo dei Poveri, da Monte Echia a porta Capuana, da via Marina a Caponapoli. Io penso che ci si possa limitare ai due decumani e alle zone interconnesse, cioè alla zona greco-romana e medievale, ridando alla stazione centrale il ruolo di porta della città, attraverso un percorso totalmente pedonalizzato che immetta direttamente nel cuore antico di Napoli. Meglio, dunque, un intervento limitato, ristretto, ben organizzato, che a sua volta funga da modello organizzativo e realizzativo per gli altri da fare. Se l'area è troppo ampia, non solo le risorse sono insufficienti, ma si rischia di preferire un'opera di «decoro» a un'azione di radicale ed esemplare trasformazione urbana.
È chiaro che qualsiasi scelta di riqualificazione deve essere inserita in una proposta di più ampio respiro. Non esiste nessun progetto urbanistico valido se non ha «un'anima», cioè se non si chiarisce bene quale assetto sociale si intende favorire. È certo che l'attuale stato dei luoghi e l'attuale configurazione della popolazione prevalente nel centro antico non permettono un suo stabile utilizzo a fini culturali, turistici, o quant'altro. Oggi, in quei luoghi, la classe egemone è quella caratterizzata da redditi bassi e da attività illegali, rispetto al blocco sociale del recente passato dove predominava l'artigianato e il lavoro sommerso.
Non esiste al mondo nessun sito turistico al cui interno dominano attività criminali. È questa una delle principali questioni storiche da affrontare. Napoli è l'eccezione tra le città occidentali: il suo centro storico non ha funzioni direzionali, né finanziarie, né commerciali di lusso, né vi abitano i ceti più benestanti. È come se si fosse formata una periferia nel suo cuore antico, caratterizzata da un fortissimo sovraffollamento di famiglie a bassissimo reddito. Questa peculiarità è stata per anni motivo di forti contrasti tra due schieramenti: tra chi riteneva ciò una ricchezza rispetto a tutte le grandi metropoli del mondo, e a chi invece si augurava che il mercato immobiliare, finalmente libero da vincoli, potesse riportare Napoli nella normalità, relegando in periferia i ceti sociali non in grado di reggere ai vertiginosi cambi di valore degli immobili. Queste due posizioni si sono così irrigidite da dare vita a una vera e propria contrapposizione ideologica. Ne hanno fatto le spese tutti i programmi di riqualificazione proposti negli ultimi anni, compresi alcuni che potevano essere corretti e non totalmente respinti. Naturalmente un po' di diffidenza era giustificata dopo i disastri del laurismo e delle prime giunte a guida Dc. Ma il totale immobilismo in quella parte della città ha condizionato tutte le altre scelte, come ad esempio costruire un Centro direzionale quasi in periferia, spostare le Università altrove con gravi problemi per gli studenti (Monte Sant'Angelo), non avere nessun grande albergo o una ospitalità turistica diffusa come avviene invece in tutti i centri antichi delle città d'arte.
Come conciliare l'integrità fisica e la identità sociale del cuore della città senza che ciò porti all'inazione; come difendere questa particolare composizione della popolazione senza che essa blocchi le potenzialità turistiche; come lasciare la peculiarità di zona fittamente abitata e al tempo stesso chiuderla al traffico veicolare recuperando spazi per bisogni elementari (parcheggi, verde attrezzato, parchi-giochi): sono queste alcune delle difficili decisioni da prendere. E, dunque, se non si vuole «deportare» la popolazione meno abbiente, bisogna però avanzare una proposta che rompa con l'attuale dominio di comportamenti illegali e spesso criminali. Fare del centro storico di Napoli un campus universitario urbano mi sembra una proposta di grande interesse. Si può rafforzare così un polo sociale altrettanto forte con funzioni di contrappeso rispetto a quello preesistente. Insomma un blocco sociale, con possibilità di divenire maggioritario nel tempo, cementato dagli studi, dalla cultura, dalla formazione, dalla produzione culturale, dall'accoglienza dei turisti e che, al tempo stesso, non perda il carattere di luogo vissuto e ampiamente abitato. Che siano, cioè, le Università con tutte le loro esigenze a plasmare l'assetto futuro del centro storico, più di quanto abbiano fatto nel passato. Che siano gli studenti e i professori il motore della riqualificazione.
La sfida è di fare di una grande città, e del suo centro storico, ciò che sono città più piccole, che vivono sul binomio «studio e accoglienza», senza contrasto tra studenti e turisti, quali Siena, Urbino, Pavia, o Salamanca. Andando in controtendenza rispetto a Roma e Milano che stanno trasferendo fuori dal centro le attività universitarie. E poiché non ci sono grandi proprietà immobiliari private, ma sono gli enti pubblici ad avere più patrimonio nel centro storico (Lo Stato, la Regione, la Provincia, il Comune) assieme alla Chiesa, sono questi enti che debbono darsi da fare. Un'operazione di questo tipo ha bisogno, certo, anche di capitali privati. Si potrebbe dare vita ad una società pubblico-privato con il compito di andare a cercare sui mercati finanziari capitali per una delle più grandi operazioni di recupero urbano al mondo. Con la premessa che rivolgendosi a studenti che si vogliono portare a risiedere a Napoli (molto, molto più di ciò che avviene ora), il capitale privato dovrebbe scommettere su di un ritorno dell'investimento meno rapido di quello a cui si è abituati nell'edilizia residenziale. In questo senso si calmierebbe il mercato e si offrirebbero sistemazioni più civili delle attuali. Anche gli Iacp potrebbero far parte di questo progetto, concentrando i loro programmi sul recupero del già costruito, facendo vivere insieme negli stessi palazzi ristrutturati studenti e beneficiari dell'alloggio popolare. E naturalmente l'arcidiocesi di Napoli potrebbe mettere a disposizione i numerosi conventi per questa operazione, com'è avvenuto a Pavia. Il tutto dovrebbe partire, lo ripeto, da un primo intervento su un'area ristretta, capace d'innescare un effetto a catena del recupero, offrendo incentivi ai proprietari privati sulla base del progetto Sirena, che andrebbe concentrato solo nell'area oggetto dell'intervento. E offrendo anche contributi per insediamenti di imprese, riservandoli però solo a quelle di carattere culturale e turistico.
Il centro storico di Napoli ha una potenzialità enorme, secondo me più di Bagnoli, più dell'area orientale. Napoli sarà sempre una città malata se resterà malato il suo cuore antico.
«Si tratta di una delle più antiche città d'Europa... I tracciati delle sue strade, la ricchezza dei suoi edifici caratterizzanti epoche diverse conferiscono al sito un valore universale senza uguali, che ha esercitato una profonda influenza su gran parte dell'Europa e al di là dei confini di questa».
Sono queste le motivazioni con le quali l'Unesco ha inserito nel 1996 il centro storico di Napoli nella lista del patrimonio mondiale dell'umanità. Il suo recupero, se ben progettato, organizzato, guidato, eseguito, potrebbe divenire un avvenimento nella storia della città, un evento per l'urbanistica mondiale, un caso di successo (o di insuccesso) di cui parlerebbe il mondo intero, come è avvenuto per il recupero a Barcellona del Barrio gotico, a New York per Harlem, o a Berlino. C'è questa consapevolezza nella classe dirigente napoletana, nel mondo della cultura, delle professioni, delle imprese, e nell'opinione pubblica più vasta?
Diversamente da ciò che è avvenuto nelle altre tre città, la discussione è ristretta agli addetti ai lavori, e non è diventata ancora passione e confronto collettivo neanche sui giornali, se si esclude qualche tradizionale punzecchiatura tra urbanisti. Eppure i tempi stringono e le decisioni da prendere non vanno al di là della fine di quest'anno. Com'è noto sono stati riservati 200 milioni di fondi europei a tale scopo (a cui si aggiungono 20 di cofinanziamento da parte del Comune di Napoli) e la proposta concreta per il loro utilizzo doveva essere già presentata entro il 30 settembre.
Con questo articolo provo a dire la mia, visto che quando ero in Regione a seguire il nuovo programma di utilizzo dei fondi europei ho voluto uno stanziamento ad hoc per il centro storico, augurandomi che su questo argomento sia la stessa amministrazione della città a promuovere un confronto di massa prima di assumere le proprie determinazioni.
Il sito Unesco interessa il centro storico per 700 ettari, il 16% dell'intero territorio della città, con una popolazione di quasi 300 mila abitanti. So che il Comune di Napoli vorrebbe sì proporre un intervento in un'area più ristretta, 16 kmq, ma che spazierebbe comunque tra ben 10 quartieri e 4 municipalità, da Castel dell'Ovo all'Albergo dei Poveri, da Monte Echia a porta Capuana, da via Marina a Caponapoli. Io penso che ci si possa limitare ai due decumani e alle zone interconnesse, cioè alla zona greco-romana e medievale, ridando alla stazione centrale il ruolo di porta della città, attraverso un percorso totalmente pedonalizzato che immetta direttamente nel cuore antico di Napoli. Meglio, dunque, un intervento limitato, ristretto, ben organizzato, che a sua volta funga da modello organizzativo e realizzativo per gli altri da fare. Se l'area è troppo ampia, non solo le risorse sono insufficienti, ma si rischia di preferire un'opera di «decoro» a un'azione di radicale ed esemplare trasformazione urbana.
È chiaro che qualsiasi scelta di riqualificazione deve essere inserita in una proposta di più ampio respiro. Non esiste nessun progetto urbanistico valido se non ha «un'anima», cioè se non si chiarisce bene quale assetto sociale si intende favorire. È certo che l'attuale stato dei luoghi e l'attuale configurazione della popolazione prevalente nel centro antico non permettono un suo stabile utilizzo a fini culturali, turistici, o quant'altro. Oggi, in quei luoghi, la classe egemone è quella caratterizzata da redditi bassi e da attività illegali, rispetto al blocco sociale del recente passato dove predominava l'artigianato e il lavoro sommerso.
Non esiste al mondo nessun sito turistico al cui interno dominano attività criminali. È questa una delle principali questioni storiche da affrontare. Napoli è l'eccezione tra le città occidentali: il suo centro storico non ha funzioni direzionali, né finanziarie, né commerciali di lusso, né vi abitano i ceti più benestanti. È come se si fosse formata una periferia nel suo cuore antico, caratterizzata da un fortissimo sovraffollamento di famiglie a bassissimo reddito. Questa peculiarità è stata per anni motivo di forti contrasti tra due schieramenti: tra chi riteneva ciò una ricchezza rispetto a tutte le grandi metropoli del mondo, e a chi invece si augurava che il mercato immobiliare, finalmente libero da vincoli, potesse riportare Napoli nella normalità, relegando in periferia i ceti sociali non in grado di reggere ai vertiginosi cambi di valore degli immobili. Queste due posizioni si sono così irrigidite da dare vita a una vera e propria contrapposizione ideologica. Ne hanno fatto le spese tutti i programmi di riqualificazione proposti negli ultimi anni, compresi alcuni che potevano essere corretti e non totalmente respinti. Naturalmente un po' di diffidenza era giustificata dopo i disastri del laurismo e delle prime giunte a guida Dc. Ma il totale immobilismo in quella parte della città ha condizionato tutte le altre scelte, come ad esempio costruire un Centro direzionale quasi in periferia, spostare le Università altrove con gravi problemi per gli studenti (Monte Sant'Angelo), non avere nessun grande albergo o una ospitalità turistica diffusa come avviene invece in tutti i centri antichi delle città d'arte.
Come conciliare l'integrità fisica e la identità sociale del cuore della città senza che ciò porti all'inazione; come difendere questa particolare composizione della popolazione senza che essa blocchi le potenzialità turistiche; come lasciare la peculiarità di zona fittamente abitata e al tempo stesso chiuderla al traffico veicolare recuperando spazi per bisogni elementari (parcheggi, verde attrezzato, parchi-giochi): sono queste alcune delle difficili decisioni da prendere. E, dunque, se non si vuole «deportare» la popolazione meno abbiente, bisogna però avanzare una proposta che rompa con l'attuale dominio di comportamenti illegali e spesso criminali. Fare del centro storico di Napoli un campus universitario urbano mi sembra una proposta di grande interesse. Si può rafforzare così un polo sociale altrettanto forte con funzioni di contrappeso rispetto a quello preesistente. Insomma un blocco sociale, con possibilità di divenire maggioritario nel tempo, cementato dagli studi, dalla cultura, dalla formazione, dalla produzione culturale, dall'accoglienza dei turisti e che, al tempo stesso, non perda il carattere di luogo vissuto e ampiamente abitato. Che siano, cioè, le Università con tutte le loro esigenze a plasmare l'assetto futuro del centro storico, più di quanto abbiano fatto nel passato. Che siano gli studenti e i professori il motore della riqualificazione.
La sfida è di fare di una grande città, e del suo centro storico, ciò che sono città più piccole, che vivono sul binomio «studio e accoglienza», senza contrasto tra studenti e turisti, quali Siena, Urbino, Pavia, o Salamanca. Andando in controtendenza rispetto a Roma e Milano che stanno trasferendo fuori dal centro le attività universitarie. E poiché non ci sono grandi proprietà immobiliari private, ma sono gli enti pubblici ad avere più patrimonio nel centro storico (Lo Stato, la Regione, la Provincia, il Comune) assieme alla Chiesa, sono questi enti che debbono darsi da fare. Un'operazione di questo tipo ha bisogno, certo, anche di capitali privati. Si potrebbe dare vita ad una società pubblico-privato con il compito di andare a cercare sui mercati finanziari capitali per una delle più grandi operazioni di recupero urbano al mondo. Con la premessa che rivolgendosi a studenti che si vogliono portare a risiedere a Napoli (molto, molto più di ciò che avviene ora), il capitale privato dovrebbe scommettere su di un ritorno dell'investimento meno rapido di quello a cui si è abituati nell'edilizia residenziale. In questo senso si calmierebbe il mercato e si offrirebbero sistemazioni più civili delle attuali. Anche gli Iacp potrebbero far parte di questo progetto, concentrando i loro programmi sul recupero del già costruito, facendo vivere insieme negli stessi palazzi ristrutturati studenti e beneficiari dell'alloggio popolare. E naturalmente l'arcidiocesi di Napoli potrebbe mettere a disposizione i numerosi conventi per questa operazione, com'è avvenuto a Pavia. Il tutto dovrebbe partire, lo ripeto, da un primo intervento su un'area ristretta, capace d'innescare un effetto a catena del recupero, offrendo incentivi ai proprietari privati sulla base del progetto Sirena, che andrebbe concentrato solo nell'area oggetto dell'intervento. E offrendo anche contributi per insediamenti di imprese, riservandoli però solo a quelle di carattere culturale e turistico.
Il centro storico di Napoli ha una potenzialità enorme, secondo me più di Bagnoli, più dell'area orientale. Napoli sarà sempre una città malata se resterà malato il suo cuore antico.