[17 Novembre 2008]
Dall’assemblea plenaria conclusiva
Il movimento che tutti stiamo vivendo e che abbiamo contribuito a generare è un movimento straordinario. L’Onda ha fatto irruzione nel nostro presente e nel presente di questo paese, mutando una scena, quella del governo delle destre, che sembrava suggerire solo senso di sconfitta e desolazione. La rottura definita dall’Onda ha infranto equilibri tutt’altro che marginali. Nel giro di poche settimane la popolarità del governo è profondamente diminuita; il movimento, intanto, è riuscito a codificare, con un linguaggio comprensibile ai più, un rifiuto esplicito della crisi economica globale. L’unità concertativa dei sindacati confederali sembra per adesso un ricordo lontano, mentre il 12 dicembre la Cgil propone uno sciopero generale di tutte le categorie. Non è tutto merito del movimento, indubbiamente, è senz’altro vero, però, che senza questo movimento tutto ciò non sarebbe stato possibile.
Uno spazio enorme si è aperto, uno spazio conquistato dall’onda, dalla sua forza, uno spazio che ci consegna una grande sfida politica. Ci siamo detti in più occasioni, infatti, che questo movimento non vuole perdere: un movimento nuovo, una grande marea generazionale, che vuole riconquistare il futuro di cui è stata derubata. “Ci bloccano il futuro e noi blocchiamo la città”: non solo uno slogan, un modo nuovo per l’università, di praticare il conflitto.
Un conflitto che parla non tanto e non solo del rifiuto dei tagli previsti dalla legge 133; piuttosto un conflitto in grado di contrapporre forza all’arroganza di chi vuole imporre la crisi socializzando le perdite di banche e imprese. Dopo anni di politiche neo-liberiste d’improvviso si riscopre il debito pubblico, un debito pubblico che viene utilizzato per sostenere i privati e che penalizza ancora i giovani, i precari, la società tutta. Si taglia il welfare, dopo che già tanto si era e si è fatto in questi anni nel senso della privatizzazione dei servizi. La sfida politica che questo movimento ha posto è come sottrarre l’università pubblica all’attacco finale che la finanziaria Tremonti e il governo Berlusconi in generale hanno disposto. Un attacco ben preciso che parla di una forma altrettanto definita di sviluppo, che individua come priorità la salvaguardia di un modello economico fallimentare invece di investire sulla formazione, sull’innovazione, sulla ricerca, in una parola sul nostro futuro. Una politica economica ben definita dalle legge 133 che prevede una serie di provvedimenti “volti a razionalizzare la spesa e il debito pubblico” tagliando indiscriminatamente scuola, servizi e università. E ancora, insieme alla drastica riduzione del personale, si prevede la possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazione di diritto privato, cancellando così il carattere pubblico dell’istruzione, ovvero la sua qualità essenziale e un nostro diritto fondamentale. Un movimento che non accetta rappresentanza, ci siamo detti a più riprese. Un movimento che guarda al cambiamento e che sa che il cambiamento non è delegabile, va agito da subito, nel pieno delle forme di auto-organizzazione e nel conflitto. Un movimento che ha saputo esprimere in modo chiaro e inequivocabile il suo antifascismo e di concerto la sua capacità di parlare alla società tutta, partendo dalla sua specificità ma con la tensione ad allargare quanto più possibile i temi della mobilitazione. Non solo: questo è un movimento che sta sperimentando nuove forme di organizzazione, superando anche qualsiasi forma di rappresentanza interna al movimento stesso.
Partiamo da quello che il movimento è già riuscito a determinare. La controffensiva del Governo infatti non è altro che il tentativo, mal riuscito, di far fronte all’evidente crisi (anche di consenso) prodotta dalla forza delle mobilitazioni. Il progetto di riforma presentata dal ministro Gelmini, pur attestandosi su una frettolosa e confusa retromarcia, cerca tuttavia di riproporre i punti centrali del complessivo progetto di dismissione dell’università: il taglio dei finanziamenti viene ora giustificato dalle retoriche della differenziazione, dell’efficienza e della meritocrazia, che altro non sono se non i processi di dequalificazione dei saperi, di gerarchizzazione e declassamento contro cui il movimento sta lottando. Pur predicando il cambiamento il progetto di riforma del Governo rafforza i privilegi della casta baronale e la difesa dello status quo, scaricando su studenti e precari la doppia crisi, quella dell’università e quella economica. Ciò è dimostrato dalla proposta, proveniente da più parti, di innalzamento delle tasse universitarie, che possono essere pagate solamente attraverso l’introduzione massiccia dei cosiddetti prestiti d’onore. In realtà si tratta del ricorso a quel sistema del debito pienamente sviluppato nel mondo anglosassone che è alla radice dell’attuale crisi globale.
Ancora una volta il Governo e il suo think tank, non fanno altro che proporre l’importazione di ricette e modelli già falliti altrove.
Dunque, gli unici alleati del Governo all’interno del mondo della formazione, sono in realtà quei baroni che a parole dice di voler combattere. In questo contesto l’unica forza di trasformazione è il movimento, che non solo si oppone ai tagli della legge 133, ma sta già costruendo le basi per un’altra università. Laddove Stato e Mercato lavorano congiuntamente alla dismissione dell’università, l’Onda Anomala lancia immediatamente la sfida dell’autoriforma.
Chiariamo: per autoriforma non intendiamo la definizione di un insieme di proposte tecniche da consegnare al legislatore di turno o a qualche attore specializzato nella mediazione politica o sindacale.
Per autoriforma intendiamo al contrario un processo costituente aperto, modificabile e implementabile che organizza quella potenza di conflitto e autorganizzazione nella produzione dei saperi già presente in queste straordinarie settimane di mobilitazione, blocchi e occupazioni. La sfida, in altri termini, non si esaurisce nell’opposizione alla legge 133 e al futuro disegno di riforma, ma aggredisce immediatamente l’università esistente. Il fallimento del modello del 3+2 e dei tentativi di misurazione del sapere attraverso il sistema dei crediti, è stato determinato dalla diffusa indisponibilità degli studenti ad accettare i meccanismi disciplinari e la continua dequalificazione della formazione contenuti nella riforma Berlinguer-Zecchino.
L’autoriforma quindi non è una semplice carta di intenti, né tantomeno un tentativo di burocratizzare l’irrappresentabilità del movimento. L’autoriforma è invece l’apertura di un processo che già vive nelle pratiche del movimento, è un passaggio di consolidamento delle forme di autorganizzazione e un rilancio degli elementi del conflitto. L’unica verifica per questo processo, è la capacità di tradurre da subito l’autoriforma in concreti elementi di programma e di agenda politica.
Il movimento di queste settimane, che ha coinvolto tutto il settore della formazione e dell’istruzione, nasce da una parzialità per parlare il linguaggio della generalizzazione.
“Noi la crisi non la paghiamo” condensa istanze e rivendicazioni che vanno oltre i confini classici di scuola e università, per porre immediatamente le questioni del lavoro, del welfare, della precarietà e della libertà.
È su questo piano di generalizzazione che il movimento lancia la sua sfida anche verso il prossimo sciopero generale.
Primo workshop: la didattica
La complessità emersa nell’ambito di una discussione sull’autoriforma della didattica, ha messo in luce la molteplicità di articolazioni possibili tramite le quali immaginare una ristrutturazione dei processi didattici, cosi da poterli ripensare come non piu asserviti alla logica di disciplinamento introdotta dall’università del 3+2. Al tempo stesso queste differenze e pluralitá attestano tanto l’inevitabilità di contestualizzare queste riarticolazioni a contesti specifici, quanto la necessità diffusa di ripensare una trasformazione radicale dei processi formativi.
Infatti, pur nelle differenze é emersa una chiara e totale opposizione al modello definito in Italia dal 3+2. Dall’assemblea si é prodotto quindi un dibattito complesso, espressione dell’esigenza dei differenti nodi di affrontare una discussione progettuale sull’autoriforma della didattica che dovesse tenere conto dell’articolazione di un confronto assembleare dal quale potessero risaltare la volontà di avviare un processo costituente e non di arrivare ad una definizione finale ed univoca delle pratiche che nell’attraversamento quotidiano delle facoltá e degli atenei giá aprono spazi di riappropriazione e decisione.
Da questo punto di vista sono emersi punti di convergenza vertenziali tra le differenti realtá.
1) Abolizione del sistema del 3+2 così come del sistema del credito. Da questo punto di vista si è prodotto un dibattito non sintetizzabile sulle modalità attraverso cui raggiungere l’obiettivo.
2) Critica alla parcellizzazione degli esami e proposte di riaccorpamento per favorire un sapere critico e complessivo
3) Rivendicazione di un’equa retribuzione del lavoro svolto in stages e tirocini: in ogni caso va garantito il carattere facoltativo degli stessi.
4) Critica della meritocrazia e sua applicazione in Italia. Non devono esistere poli di eccellenza contrapposti al resto delle universitá, a maggior ragione se autoproclamati come nel caso dell’AQUIS. In secondo luogo si è svolta una critica ai parametri di valutazione schiacciati sulla produttivitá, e nello stesso tempo si sono proposte nuove forme che privilegiassero la valutazione dal basso e la qualitá.
5) Abolizione dei blocchi all’accesso e lungo il percorso di formazione superiore. I blocchi devono essere eliminati sia come sistema di esclusione dal diritto allo studio, sia come filtri progressivi di stratificazione sociale.
6) Abolizione della frequenza obbligatoria come strumento di controllo sui tempi di vita e di studio.
7) Revisione dei piani di studio nella direzione di una conquista di una maggiore libertà dei propri percorsi formativi.
8) Le università del sud Italia hanno posto ulteriori motivazioni alla necessità della natura pubblica dell’università. La specificità dei loro territori pone l’accento su una massiccia corruzione.
Il dibattito del workshop è stato attraversato da un’analisi comune: quello di concepire il processo di autoriforma non come un disegno organico o un intervento legislativo, ma come il recupero di spazi di decisione diretta da parte degli studenti. Questo ha significato critica alla rappresentanza studentesca, ai processi di gerarchizzazione dell’amministrazione universitaria, e necessità dell’organizzazione autonoma del conflitto: riappropriazione di spazi (biblioteche, laboratori, aule autogestite, etc.) e di tempo, diffusione critica e autonoma del sapere.
Accanto a questo si è sviluppato un dibattito articolato e aperto sulla proposta dell’autoformazione: questa è una tra le varie pratiche sperimentate per l’inflazionamento e il sabotaggio del sistema del credito. La discussione su modalità autogestite di didattica ha dato spunto per proporre e approfondire la didattica partecipata, e che, in ogni caso, destrutturasse un rapporto gerarchico e verticale nella trasmissione del sapere: così come ha posto molta attenzione alla formazione non come accumulo indistinto di nozioni, ma come produzione di sapere critico.
Concludiamo ricordando l’indicazione di metodo rispetto al proseguimento delle lotte indicate durante questi due giorni: la cooperazione nasce dal dibattito propositivo e non ideologico tra le varie realtá che sperimentano in maniera autonoma conflitto dentro l’università.
Secondo workshop: welfare e diritto allo studio
Il workshop di ieri è stato partecipato da circa un migliaio di persone, al pari degli altri due. Si tratta, evidentemente, di un dato eccezionale dal punto di vista della quantità, in piena continuità con l’assemblea nazionale nel suo complesso e con queste straordinarie settimane di mobilitazione che stiamo vivendo. Ma c’è di più. Il dato della discussione di ieri è eccezionale anche dal punto di vista qualitativo. I quasi cento interventi da tutte le città che si sono susseguiti per più di sette ore di intensa discussione segnano un deciso e importante passaggio in avanti nell’elaborazione collettiva e nella costruzione di agenda politica su temi assolutamente decisivi per il movimento.
Lo slogan che attraversa e che maggiormente caratterizza le mobilitazioni universitarie, “Noi la crisi non la paghiamo”, definisce già con chiarezza la centralità delle questioni del Welfare e del lavoro dentro la riflessione politica e i processi di conflitto che si sono dati nelle mobilitazioni di queste settimane.
Sulla crisi finanziaria globale si registrano varie interpretazioni, talora contrastanti anche negli stessi ambiti del pensiero critico e radicale. In questo workshop, com’è stato più volte ribadito, il nostro obiettivo non era la definizione in termini di analisi di genealogia e tendenze dell’attuale crisi: essendo questo un tema di straordinaria importanza e attualità, preferiamo a tal fine proporre fin da subito la costruzione di uno o più momenti seminariali. Il nostro punto di partenza è stato invece la definizione del carattere politico e il terreno di lotta che attorno al tema della crisi si apre, più precisamente sul problema della decisione della distribuzione della ricchezza sociale in un contesto che dalla crisi è profondamente segnato.
Il presente movimento si muove all’interno di una doppia crisi: quella finanziaria e quella dell’università. Quest’ultima in Italia assume caratteristiche peculiari, determinate dallo storico disinvestimento nel sistema dell’istruzione e della ricerca, e dalle strategie di smantellamento operate dai governi di centro-destra così come da quelli di centro-sinistra.
In questo quadro, come emerso dalla discussione, i processi di aziendalizzazione dell’università e i tagli dei finanziamenti alla ricerca e alla formazione si accompagnano all’aumento delle spese di guerra, ai fondi statali regalati alle imprese private, al piano salva-banche. La retorica degli sprechi e del contenimento del debito pubblico, abbondantemente utilizzata dal Governo nel tentativo di giustificare i tagli mortali contenuti nella legge 133, rivela qui infatti la sua natura puramente ideologica.
Tutto ciò, soprattutto, permette di individuare nell’università un terreno di lotta di particolare importanza, a partire da cui produrre dei processi di generalizzazione del conflitto. La parola d’ordine “noi la crisi non la paghiamo” indica quindi non una semplice istanza espressa da un particolare soggetto sociale, ma la sua capacità di parlare il linguaggio dell’intera composizione del lavoro e del precariato contemporaneo, proprio in virtù della centralità di studenti e saperi nelle forme attuali della produzione. Quello della generalizzazione è uno dei punti particolarmente sottolineati nel corso della discussione, come posta in palio delle possibilità di sviluppo dello straordinario movimento che sta stravolgendo le compatibilità che si credevano imposte dal governo Berlusconi. Non a caso, la Cgil è stata costretta a indire lo sciopero generale sotto la spinta e la forza dell’onda.
Nel workshop si è prodotta una ricca discussione che ha permesso di fare un importante passo in avanti, di analisi e di merito politico, nella riconfigurazione del diritto allo studio e nelle battaglie attorno ad esso. L’attacco al diritto allo studio non assume più solo i tratti classici dell’esclusione, ma dei nuovi processi di selezione e inclusione differenziale direttamente interni al sistema universitario.
Laddove i diritti sociali non sono più garantiti dal welfare pubblico, l’indebitamento rappresenta una costrizione per continuare a soddisfare bisogni collettivi, quali ad esempio la formazione e l’accesso ai saperi. Nonostante l’irrisorio e propagandistico stanziamento di fondi per le borse di studio, strettamente regolato dal sistema meritocratico, il progetto complessivo di trasformazione dell’università va nella direzione di un aumento delle tasse d’iscrizione. In questo contesto, se il diritto allo studio è certamente garantito dalla Costituzione, esso è di fatto non solo disatteso nella pratica, bensì nel nuovo contesto produttivo assume nuove caratteristiche. Infatti, un numero crescente di persone entra nel sistema dell’istruzione superiore nella misura in cui sono costrette a indebitarsi e si dequalificano i saperi a cui hanno accesso. I processi di lotta si spostano quindi sul piano del mercato del lavoro (sempre più regolato e intrecciato alla produzione di saperi e formazione), dei processi di gerarchizzazione e del welfare.
Di pari passo, il diritto allo studio si riconfigura come battaglia sulla qualità dei servizi e riqualificazione e autogestione dei saperi. Allora, prendendo anche atto del fallimento delle agenzie per il diritto allo studio, la lotta contro l’aumento delle tasse e la liberalizzazione dell’accesso, si deve accompagnare a una battaglia sulla qualità dei servizi, contro i numeri chiusi, per il non ripagamento dei prestiti d’onore (ovvero il sistema italiano del debito, ancora non pienamente affermato ma in via di tendenziale espansione).
Una battaglia, quindi, contro qualsiasi tentativo di scaricare su studenti e precari i costi della crisi finanziaria e dell’università. La crisi la paghino invece le banche e le imprese, i governi e i baroni, oggi tutti alleati ben al di là delle retoriche su sprechi e corruzione.
Se la sfida lanciata dal movimento ha nell’università un terreno privilegiato, deve al contempo riuscire a generalizzare le proprie istanze per poter aprire un terreno di più complessiva lotta sul welfare. Da questo punto di vista, è stato evidenziata l’inesistenza in Italia di ammortizzatori sociali e strumenti di sostegno al reddito per gli studenti e i precari. Occorre allora reclamare anche in Italia forme di erogazione, dirette e indirette, di reddito per gli studenti e i precari che vadano nella direzione dell’autonomia e dell’indipendenza e del rifiuto delle forme di precarizzazione.
La discussione ha elaborato delle proposte di agenda e campagna politica verso lo sciopero generale e generalizzato del 12 dicembre e oltre.
Terzo workshop: Ricerca, Formazione e lavoro
Ricerca, formazione, lavoro. Questi i temi di cui abbiamo discusso durante la giornata di ieri, dal nostro punto di vista, dal punto di vista dell’onda. Abbiamo chiamato il nostro percorso autoriforma, autoriforma dal basso dell’università. Autoriforma dal basso per noi e’ travolgere questa università, attraversarla con i nostri desideri e le nostre proposte, proposte che
vogliamo costruire a partire dalla comprensione della sua crisi e del suo rapporto con la società.
Una crisi esplosa da tempo e approfondita da un quindicennio di pessime “riforme” volte ad aziendalizzazione e privatizzazione dell’università, che i provvedimenti di questo governo trasformano in catastrofe. Pensiamo al taglio del FFO, al blocco del turnover , ma soprattutto alla trasformazione degli atenei in fondazioni di diritto privato, alle sue conseguenze in termini di discriminazione di censo nell’accesso a un’istruzione di qualità e di destrutturazione dell’intero Sistema universitario nazionale. Effetti che non potranno non aggravare le già critiche condizioni della scuola di ogni ordine e grado.
Non dimentichiamo però le responsabilità di chi l’università ha gestito con meccanismi corporativi e clientelari, di chi soffoca la ricerca per mezzo di un’opprimente gerarchizzazione, di chi ha costruito un sistema fondato sullo sfruttamento generalizzato del lavoro precario, di chi ha oramai accettato l’idea di un drastico restringimento dell’accesso a un’istruzione pubblica di qualità. Il nostro obiettivo è stanare e denunciare queste aberrazioni ovunque si manifestano, conoscerle per scardinarle. E’ superare il cosiddetto 3+2, contrastare i suoi effetti di frammentazione e scadimento della didattica funzionali allaproduzione di lavoratori precari e ricercatori al servizio del privato o dell’impresa di turno.
In due mesi di mobilitazioni abbiamo dimostrato di non avere alcuna intenzione di lasciarci incantare dalle false aperture del ministro Gelmini o chiuderci nel recinto di uno studentismo vuoto e arrogante. Abbiamo gridato dalle piazze di tutta Italia la nostra consapevolezza che solo l’unione e la generalizzazione di proteste particolari può rovesciare quei rapporti di forza che schiacciano il mondo dell’istruzione e della ricerca tanto quanto quello del lavoro. Solo il continuo coordinamento e allargamento della protesta potrà portare a un reale cambiamento nelle politiche del governo e per questa ragione aderiamo allo sciopero generale indetto per il 12 dicembre con la promessa di farlo vivere nelle nostre metropoli e in qualunque luogo
raggiunto dall’Onda. Il nostro sciopero sarà dunque all’insegna della generalizzazione delle mobilitazioni, della lotta contro la precarietà e per l’abolizione di tutte le forme di lavoro parasubordinato contenute nella legge 30, contro ogni discriminazione di genere, cultura e razza, contro la criminalità organizzata che strangola il nostro Sud e sempre più anche il nostro Nord.
Autoriforma è il percorso concreto di elaborazione, d’inchiesta e di conflittualità che mette in crisi il sistema attuale, che propone un modello diverso di università attraverso una critica radicale dell’esistente. Vogliamo costruire un’università pubblica, democratica ed accessibile a tutti. Per questo sentiamo l’urgenza, in questa fase di crisi profonda del modello sociale ed economico neoliberista, di un’università che sappia dare il suo contributo alla costruzione di un nuovo e più equo modello di sviluppo. Il nostro punto di partenza sarà l’analisi della ricerca concretamente prodotta dalle nostre università ed enti, delle sue ricadute sul territorio, la creazione di sapere critico e la moltiplicazione delle esperienze di autoformazione e didattica alternativa cui abbiamo dato vita nelle nostre mobilitazioni.
1) L’indipendenza e l’autonomia della ricerca sono per noi principi fondativi. La ricerca non deve essere subordinata a logiche di mercato: le risorse e le strutture pubbliche dalle quali essa dipende non possono essere messe al servizio di interessi privati. Il sapere è un bene pubblico, una produzione collettiva e per questa ragione non appropriabile: i suoi risultati devono essere socializzati, ossia posti al servizio dell’intera società. Per questo riteniamo essenziale lo sviluppo di forme non commerciali della loro tutela (GPL/Creative commons) in contrapposizione al brevetto nonchè il sostegno all’editoria scientifica open source ed una stretta sinergia tra ricerca e didattica. Siamo però consapevoli che l’emergenza attuale ha tra le sue cause principali il cronico sottofinanziamento delle attività di ricerca, che deve essere portato almeno ai livelli indicati dal Trattato di Lisbona (3 per cento del Pil contro l’attuale 1 per cento). E poichè una ricerca libera non può esistere senza ricercatori autonomi e indipendenti da ogni condizionamento, la democratizzazione dell’accesso ai fondi e la sua apertura ai ricercatori non strutturati e ai dottorandi è per noi condizione irrinunciabile.
2) L’autonomia della ricerca e la qualità dell’università pubblica non possono essere disgiunte dalla realizzazione di un nuovo concetto di valutazione. Tale concetto, più complesso della combinazione di indici presuntamente quantitativi, non deve essere legato al contenimento del bilancio, alla produzione di brevetti o al semplice numero delle pubblicazioni. Pensiamo che la valutazione debba essere intesa anche come rendicontazione sociale delle attività degli atenei e del sistema nel suo complesso, che non possa prescindere dai contesti territoriali in cui le università sono inserite. Contemporaneamente, ribadiamo che anche docenti, ricercatori e dottorandi dovrebbero essere coinvolti nei processi di valutazione. Gli esiti della valutazione della didattica e della ricerca dovrebbero condizionare la distribuzione di parte dei finanziamenti per gli atenei sia nella distribuzione dei finanziamenti ai singoli.
3) Il problema del reddito è sicuramente trasversale a tutto il corpo vivo dell’università: studenti dottorandi e ricercatori precari. Al lavoro di ricerca, perchè di lavoro si tratta, devono corrispondere un salario adeguato e i diritti stabiliti dallo statuto dei lavoratori. La moltitudine di tirocini, stage e praticantati tutti rigorosamente non retribuiti non sono più tollerabili, cosi? come la dilagante attività didattica a titolo gratuito. Ogni prestazione deve essere contrattualizzata al più come forma di lavoro subordinato a tempo determinato e in tal caso deve essere garantita la continuità del reddito, diritto fondamentale di cui chiediamo l’estensione a tutti i lavoratori precari. Non solo, commossi dall’attenzione del ministro Gelmini alle condizioni degli edifici scolastici, rivendichiamo ambienti idonei di studio, lavoro e ricerca.
4) Il dottorato di ricerca è il più alto grado dell’istruzione italiana e contemporaneamente l’introduzione all’attività di ricerca. Vanno dunque garantiti adeguati percorsi didattici e il diritto all’autonomia economica. Questo significa in particolare l’immediata soppressione dei dottorati senza borsa e il pagamento di tasse di iscrizione. I dottorandi dovrebbero vedere riconosciuti i loro diritti per mezzo di uno statuto nazionale a loro dedicato. Per quanto riguarda le specializzazioni è emersa la necessità di nuove procedure concorsuali trasparenti. Le mansioni affidate agli specializzandi non devono mai oltrepassare le competenze previste dalla legge.
5) Per quanto riguarda la spinosa questione del reclutamento, ribadiamo la nostra ferma opposizione al blocco del turnover. Ma questo non ci basta, dopo anni di blocco dell’accesso ai giovani che ha esasperato la precarietà e incentivato la fuga dei cervelli. Chiediamo l’istituzione di un contratto unico di lavoro subordinato una volta terminato il dottorato, di durata non inferiore ai due anni: esso deve sostituire l’attuale jungla di “contratti” precari. Tali misure non avrebbero tuttavia alcun senso senza un consistente reclutamento straordinario via concorso, che deve essere seguito da un reclutamento ordinario via concorso costante nel tempo. Per quanto concerne l’inquadramento della docenza, chiediamo l’istituzione di un ruolo unico e l’incompatibilità della libera docenza con contratti di diritto privato.
6) I ricercatori precari, essenziali al funzionamento di tutte le università italiane, sono completamente assenti dagli organi decisionali delle stesse. E’ questo un elento chiave della gerarchizzazione del lavoro di ricerca e didattica. Come ogni altra categoria nell’università, i ricercatori precari e i dottorandi devono partecipare ai processi decisionali tramite i loro
rappresentanti eletti.
7) L’Onda ha già valicato i confini nazionali. In tutta Europa si sono svolte manifestazioni di solidarietà al movimento italiano. Questo fatto ci parla della dimensione transnazionale dei problemi che stiamo affrontando. Il lavoro di ricerca prevede la mobilità come elemento irrinunciabile ma continuamente ostacolato dalle differenze dei diversi sistemi nazionali.
Spesso le riforme, sgradite a chi l’università la vive, sono state giustificate in nome di una presunta volontà di integrazione a livello europeo. Vogliamo sottolineare che uno spazio europeo della ricerca ancora non esiste e che il movimento deve assumersi la responsabilità di cominciare a crearlo, non attraverso la normazione astratta ma attraverso la circolazione delle
idee e delle lotte.
8) L’osservazione dei diversi modelli di sistema universitario presenti al momento in Europa ci permette di rigettare immediatamente alcune ipotesi di sviluppo, come il modello anglosassone e il principio del debito di formazione, già ampiamente entrato in crisi in Inghilterra e negli Stati Uniti. In quest’ottica proponiamo la convocazione di una riunione europea che metta in circolo le diverse vertenze sviluppate dai movimenti di studenti e ricercatori precari.
9) Questione di genere nella ricerca. Nella ricerca rimane aperta la stessa questione di genere che troviamo ovunque nel mondo del lavoro: da una parte la progressione dei carriera delle donne è fortemente filtrata ai livelli più bassi, dall’altra le donne subiscono il perenne ricatto biologico, aggravato dalla precarietà, per cui la maternità diventa in realtà la via di espulsione dal mondo della ricerca.
10) Se infatti autoriforma è anche e soprattutto un percorso condiviso di lotte questo workshop ha espresso una molteplicità di strade che possono essere percorse a livello locale e nazionale:
- Se il precariato è il problema di questa generazione una grande inchiesta sul lavoro precario nell’università ci sembra fondamentale, che porti ad un censimento a livello nazionale che ci permetta di tradurre nella forza dei numeri l’enormità del fenomeno
- La congiunzione con la protesta della scuola
- Appello studenti, dottorandi e precari per lo sciopero generale/gli scioperi generali.
- Coordinamento con la scuola (insegnanti, genitori, precari, anti137, nogelmini, circoli genitori-insegnanti-universitari)
- Azioni locali contemporanee e condivise da tutto il movimento.
- Giornata nazionale della ricerca.
- Vertenze locali comuni studenti, ricercatori precari
- Sviluppare vertenze per l’Applicazione della Carta europea della ricerca.
- Iniziative di apertura verso l’esterno , nel territorio, di apertura dell’università alla
cittadinanza, ai bambini delle scuole, alle famiglie, ai lavoratori. Seminari in piazza ecc.
- Gruppo di studio sulla valutazione.
- Occorre sviluppare una critica di tutti gli strumenti di governance universitari a partire dalla fondazione di diritto privato CRUI e dell’autoproclamato circolo dei migliori atenei d’Italia, AQUIS
- Promuovere una assemblea Europea
Una molteplicità di strade ma molte di più, pensiamo, sono quelle che usciranno dalla fantasia di questo movimento, dalla forza della partecipazione che lo sta facendo vivere, dalla capacità di sperimentare percorsi nuovi che ha mostrato in questi giorni di mobilitazione.
Il movimento deve durare, sappiamo che la nostra lotta avrà tempi lunghi ma sappiamo anche che, almeno per questo paese, è una grande occasione e grande speranza.