di Marco Rossi-Doria
Repubblica Napoli, 31 agosto 2008
È davvero difficile commentare le polemiche politiche napoletane di fine agosto: l´assessore Velardi che scopre e ci rivela che l´amministrazione Iervolino non va proprio bene e che, dunque, ne chiede le dimissioni e che propone pure una lista non di partito, da subito. Dall´altra parte, il sindaco che, come da consuetudine, risponde a brutto muso che lei è abituata al duro lavoro di sempre. Per me, poi, sarebbe francamente un esercizio inelegante: ho promosso insieme a molti una lista non di partito e mi sono presentato a sindaco con un programma che, a leggerlo oggi, appare di vero buonsenso, perdendo, però, e sonoramente. Dunque non le commenterò.
Mi domando, invece, se, a mesi e mesi dalle naturali scadenze elettorali, chi vive in questa città possa avere il bene di domandarsi “cose politiche” che, però, non hanno niente a che vedere con candidature annunciate o ipotizzate, improbabili dimissioni e elezioni fuori scadenza, assetti di partito e di coalizione o similari. E possiamo o no almeno ipotizzare un futuro civile nel quale problemi, aspirazioni e pene dei cittadini abbiano cittadinanza in politica, a pieno titolo e prioritariamente? Insomma piacerebbe ogni tanto che invece di ipotizzare scenari politici improbabili, ci si potesse fermare a descrivere e ragionare sulle cose della vita civile.
E mi piacerebbe partire dai discorsi di ogni momento a Napoli, di tante e tanti di noi. Quanto ci metteremo, domani, a raggiungere il nostro luogo di lavoro, se lo abbiamo? Quante persone non si sono potute permettere neanche una settimana al mare per l´ennesimo anno di seguito? È vero o no che viviamo tutti in una città in cui il tasso di famiglie che vive sotto la soglia di povertà raggiunge quasi un terzo del totale, una percentuale che, da sola, ci mette fuori dall´Europa? Ciò ci riguarda o no? Ha o no a che vedere con la speranza - sì, la speranza - o è solo questione di sicurezza? E, in tali condizioni di esclusione sociale di massa, è proprio inevitabile che i prezzi al consumo, anche di pane e pasta, debbano aumentare in misura maggiore che in qualsiasi altra città d´Italia? E ancora: la nostra monnezza - che ora ha ritrovato la via delle discariche indifferenziate come prima della penuria delle stesse - è o no possibile differenziarla come fanno in tanti luoghi, campani e non? E quando si può iniziare a provare a farlo e a insegnarlo ai nostri figli? E, ben più seriamente e anche mestamente: cosa davvero è successo, in questi anni, ai tessuti connettivi profondi di Napoli se decine di migliaia di persone, povere e non povere, giovani ma anche non giovani, laureati e non, talentuosi e meno talentuosi, sono già partiti da questa nostra città e oggi sono altrove a vivere, da soli o con tutta la famiglia? E cosa ancora sta accadendo se - in altre decine di migliaia di persone - ci chiediamo sempre più spesso e seriamente se è venuto anche per noi il momento di andarsene?
La speranza - insomma - la possiamo nutrire e possiamo parlare del fatto che va ricostruita daccapo o no? Si possono fermare le estese reti economiche ed operative della criminalità camorristica? Saranno di nuovo praticabili i diritti fondamentali, a partire da quelli alla libertà e sicurezza personali, alla libera impresa, alla formazione e al lavoro legale, a un minimo di reddito per vivere? Industria, turismo, servizi e commercio legali possono uscire dalla crisi micidiale in cui ristagnano da interi lustri o no? E a quali condizioni? I modelli di sostegno pubblico allo sviluppo economico possono affrancarsi dai deliri centralistici, dall´inefficacia colposa, dalle clientele più o meno buie di questi lunghi anni? Le opportunità di apprendere e sapere e le occasioni di fruizione della cultura dovranno sempre riguardare una minoranza di cittadini o si può ragionevolmente sperare che ci si metta a fondare asili nido, scuole professionali e che le pubbliche istituzioni riprendano a premiare conoscenza, apprendimento, arti e le molte nostre esperienze creative senza le solite speciali protezioni? E le persone competenti nel proprio settore possono un giorno pensare a un normale confronto - normalmente difficile ma anche normalmente costante, costruttivo e anche utilmente conflittuale - con chi governa questo territorio? E tutto questo in quali modi concreti richiede un ricambio di classe dirigente e di classe politica? Con quali procedure partecipative? Con quale innovazione dei modi della rappresentanza? E la politica riguarda queste cose o deve essere presidiata in permanenza da quell´altra roba che ci si ostina a chiamare politica? È tema dell´anti-politica cosiddetta o è la politica?
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