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1 giugno 2008

Perchè l'Italia non sente la voce del Sud?

Raffaele La Capria - Il Corriere della Sera del 30 maggio 2008

Avevo appena finito di scrivere per il Corriere l'articolo che segue su Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese, quando ho letto il fondo di Ernesto Galli della Loggia dal titolo «Perché il Sud è senza voce».
Io cambierei il titolo in quest'altro: «Perché l'Italia non sente la voce del Sud». È dal tempo di Giustino Fortunato che questa voce si è levata, e si è levata di nuovo nel dopoguerra con Cristo si è fermato a Eboli e ha continuato sempre a gridare: vedete, la situazione è questa, queste sono le cause, questi i rimedi.
Ma siamo sempre fermi a Eboli.
Inutilmente Levi, la Ortese, Tomasi di Lampedusa, Sciascia e ora Saviano hanno denunciato e proposto, fatto analisi, ma la classe politica non è stata mai al livello della classe intellettuale, l'ha semplicemente ignorata per inseguire le proprie trame non sempre lecite. Quando Rosi ed io con
Le mani sulla città denunciammo, ancora in tempo utile, l'orrenda speculazione edilizia che ha trasformato la bella Napoli della cartolina col pino in un'orrenda megalopoli sudamericana con relative favelas, chi ne prese atto? Quali furono i provvedimenti presi dalla politica, escluso quello di ostacolare l'assegnazione nel 1963 del Leone d'Oro che la giuria invece attribuì al film? La voce di Napoli non supera la linea Gotica, non la supera il Mattino, non la supera ogni evento culturale nato a Napoli, non il Premio Napoli, non la Fiera del Libro, non il nuovo Museo d'Arte Moderna, non la supera perché all'Italia la voce di Napoli non interessa.
All'Italia no, ma al mondo sì invece, il mondo l'ascolta. Il Cristo di Levi, il Gattopardo, Gomorra, Le mani sulla città, tanto per fare qualche esempio, sono conosciuti ed onorati in tutto il mondo. Napoli è l'unica città italiana che dà ogni anno con un romanzo o un saggio una rappresentazione critica di se stessa. L'ultima in ordine di tempo è Napoli Ferrovia di Ermanno Rea. Ma chi ne tiene conto? È la classe politica che dovrebbe essere più interessata ad ascoltare la voce di Napoli, la classe politica italiana, e non solo napoletana, ad interessarsi di più alla cultura.
Ora credono di liberarsi del problema Sud con una ingente somma di danaro mal speso, ora inviando l'esercito, ma sempre con l'idea di trattare con «quelli là», non con qualcosa che strettamente li riguarda. Con l'esercito fecero l'Annessione senza stipulare alcun patto, con l'esercito adesso vorrebbero fare la dis-Annessione dalla monnezza. Siamo sempre lì. Allora per favore non diciamo che il Sud è senza voce, diciamo che ha tutte le colpe ma non questa. Diciamo anche che l'Italia non ci vuol sentire. Come si fa a non curarsi della gente, a buttarla nelle varie Scampie e favelas, a non creare occasioni di lavoro a una popolazione indigente, a tenerla in condizioni di vita peggiori di quelle in cui si trovano i rom nei loro campi, e poi pretendere la raccolta differenziata, la coscienza civica e tutto il resto. Non può il governo centrale abbandonare la gente così e poi colpevolizzarla. Chi semina vento si sa cosa raccoglie.
Ecco, ora segue l'articolo sulla Ortese che avevo scritto. Tratta di argomenti non lontani da questi ma li prende da un punto di vista diverso e con una voce particolare, la voce poetica di Anna Maria Ortese. Anche Anna Maria accusava gli intellettuali del Sud, quasi che lei non ne facesse parte. Ma dico di più: che la vulgata colpevolizzatrice è tanto forte in Italia che i napoletani stessi per primi ci credono, e sembra sempre che ognuno di loro debba giustificarsi di colpe storiche che invece appartengono a tutti.
Come dicevo, ho riletto Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese, che Adelphi ripubblica. È un libro che a suo tempo fece scalpore, non meno di quanto oggi Gomorra, perché toccava un punto dolente nella storia della città. Come mai Napoli non è riuscita mai ad esprimere una classe intellettuale capace di incidere sulla vita della città e di colmare il fossato esistente tra la borghesia (la classe dirigente) e il popolo, o meglio quella parte della popolazione chiamata plebe? Nel capitolo intitolato «Il silenzio della ragione », la Ortese scrive: «Esiste nelle estreme e più lucenti terre del Sud un ministero nascosto per la difesa della natura dalla ragione, un genio materno d'illimitata potenza, alla cui cura gelosa e perpetua è affidato il sonno in cui dormono quelle popolazioni. Se solo un attimo quella difesa si allentasse, se le voci dolci e fredde della ragione umana potessero penetrare quella natura, essa ne rimarrebbe fulminata ».
Cosa intendeva la Ortese per ragione e per natura? La ragione non poteva essere che quella pragmatica di ogni moderna democrazia, fondata su una società civile obbediente alla legalità. La natura erano i miti che i napoletani continuamente cantano a se stessi e che ne hanno determinato la mentalità e segnato il destino.
La Ortese sperava, anzi aveva sperato, che la cultura proposta da un piccolo gruppo di intellettuali riuniti intorno alla rivista Sud, diretta da Pasquale Prunas, un gruppetto di cui lei faceva parte con altri suoi amici, tra cui c'ero anche io, avrebbe potuto cambiare le cose, avrebbe potuto «rimuovere il mito terribile del sentimento, chiarendo tutte le alterazioni e deformazioni cui esso aveva condotto l'odierna società partenopea ».
Certo è che quando scrisse Il mare non bagna Napoli (nel 1953) ogni illusione era svanita ed era sopravvenuta in lei una delusione enorme. Ne fecero le spese tutti i suoi amici di una volta, contro i quali lei si rivoltò quasi fossero essi per primi i colpevoli, i nemici di quella ragione. E li descrisse criticandoli in modo spietato, soprattutto Compagnone e Rea, di cui dipinse due memorabili ritratti. Adesso che quegli amici sono quasi tutti morti e io sono quasi l'unico superstite di quel tempo, posso confermare non solo quel che in verità ho sempre detto, che Il mare non bagna Napoli è un libro bellissimo, ma anche che Anna Maria aveva individuato bene il punto dolente della questione napoletana, e l'occulta causa della sua irrisolvibilità. Solo che i colpevoli non eravamo noi, come lei semplificando mostrava di credere, ma era di quel ministero nascosto cui lei stessa aveva accennato.
Dopo questa premessa, e cessata ogni polemica, mi sembra che oggi io possa considerare questo libro dal solo punto di vista letterario come un esempio notevole di quel saggismo creativo che si avvale di uno stile misto, autobiografico e narrativo, per raccontare con estrema libertà la realtà che interessa lo scrittore. La finzione su cui si regge il libro è che l'autrice sia stata invitata da un giornale del Nord a fare un'inchiesta sui giovani scrittori napoletani. E in effetti così fu. Ma ho detto finzione perché lei si comporta non come una che conosce benissimo la città e le persone di cui parla, ma come una, che appena arrivata le scopre, scopre uomini e cose e se ne meraviglia, quasi che li vedesse per la prima volta.
Il suo deliberato straniamento, insomma, l'aiuta a rendere più intensa la sua visione e i suoi sentimenti verso la città e gli amici, ma proprio in questa intensità, sapendo come stanno le cose, io sento un che di eccessivo e un suono un po' falso. E rivelatore in questo senso mi pare il primo bel racconto del libro, quello intitolato «Un paio di occhiali» dove c'è una bambina «cecata» (cioè miope) cui viene finalmente regalato un paio di occhiali, ma quando la bambina se li mette e vede lo squallore del vicolo in cui vive, scoppia a piangere disperatamente. Non si può fare a meno di pensare che è lei, la scrittrice, la bambina «cecata».
Cecata dall'illusione prima e dalla delusione dopo, che non le fanno mai vedere la realtà come effettivamente è. Se chi scrive prima si illude su una determinata realtà e poi ne è deluso, finisce per alterarne la stessa percezione. Di conseguenza la rappresentazione, anche se artisticamente riuscita, risulterà alterata. E questo mi pare che accada anche in un altro capitolo del libro intitolato «La città involontaria». È questo un edificio della lunghezza di circa 300 metri chiamato III e IV Granili, un ghetto della povertà e dell'abbandono.
Non si capisce come, dopo aver letto la descrizione della Ortese, qualcuno abbia potuto pensare di costruire «Le vele» di Secondigliano. Un segno dell'ignoranza della classe dirigente e della nessuna influenza degli intellettuali e delle loro denunce, un'altra sconfitta della ragione insomma. C'è qualcosa di grandioso nella tetraggine e nell'orrore di questa rappresentazione, qualcosa di goyesco nel suo cupo splendore, e qualcosa di diverso dal realismo della narrativa meridionale che l'aveva preceduto. Eppure ci si domanda (e se lo domanda anche la Ortese), se quella realtà che lei descrive l'abbia talmente soggiogata da farle «confondere una rappresentazione con la vita stessa», come lei scrive, e la «città involontaria» con Napoli.
Con lo stesso sguardo nel capitolo «Il silenzio della ragione» ella rivide i suoi amici d'una volta e li descrisse con sottile ma penetrante crudeltà, notando ogni loro difetto fisico e morale. Oggi si può dire che quello di Compagnone e quello di Rea sono i più bei ritratti della letteratura italiana contemporanea? L'unico appunto che si può fare, è che sono troppo calcati su due personaggi esistenti, e perciò non hanno il carisma dei personaggi inventati dai grandi romanzieri, quelli che diventano universali perché ognuno può ritrovarvi una parte di se stesso. Rea e Compagnone sono criticati non perché fanno qualcosa, ma perché sono come sono. È giusto?
Ancora un altro appunto, marginale: È lecito usare in tal modo due persone con tanto di nome e cognome? E se quei due scrittori, invece che Compagnone e Rea, fossero stati, mettiamo, Vittorini e Pavese, la cosa sarebbe passata liscia? Ma quei due erano scrittori napoletani innanzitutto, e dunque già pregiudizialmente destinati ad essere caratteristici. La Ortese aveva soltanto resa letterariamente più pregevole la caratterizzazione.
Infine un'osservazione generale: a Napoli la borghesia non ha mai parlato veramente di se stessa, nessuna recherche nell'interiorità, non si è voluta mai guardare dentro, non si è mai confrontata col mondo. È stato quasi sempre l'elemento locale che l'ha attratta e sopraffatta. Se non si è capaci di criticarsi, di confrontarsi col mondo, di conoscersi e di giudicarsi, come si fa a sapere chi si è? Come si fa ad essere classe dirigente se non si sa chi si è? Lo sguardo impietoso di Anna Maria Ortese ne Il mare non bagna Napoli ha rotto un tabù e costretto finalmente la borghesia vedersi e a parlare di se stessa fuori dagli schemi consueti.
Ha provocato un trauma? Ha esagerato? Ha semplificato? Si è fatta trasportare dal sentimento e dal risentimento? Può darsi, ma ha scritto un bel libro, una memorabile testimonianza, necessaria a chiunque voglia comprendere qualcosa su Napoli.