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24 giugno 2008

Pianta di una casa: Il Salotto

Il culto della triade: un divano al centro e due poltrone, un quadro grande e due piccoli ai lati, due calamai sul vassoio d'argento e al centro il portapenne... Una pomposa simmetria bilaterale da varie generazioni tracciava lo schema del Salotto, celebrando i riti dell'ordine; e la concezione che presiedeva a quell'ordine intendeva rappresentare, anche se solo salottieramente, la posizione al centro dell'universo, non dell'Uomo, ma della Famiglia.
Tanto che gli eredi si potevano classificare in coloro che consapevolmente aveano continuato a tributare il culto a quella salottiera Triade, in coloro che solo inconsciamente l'avevano rispettata come un'inveterata abitudine o che avevano tentato ibride ribellioni, sempre salottiere, e in chi, infine, per una qualche ventata di mutamento aveva iconoclasticamente profanato i simulacri del numero, minando alle sue stesse radici l'Ente Salotto, e l'Ordine quindi, e la Famiglia; mancava allora nelle loro case la materna accoglienza del divano-poltrone (grembo e braccia).
Negli infanti e fanciulli seduti in queli Salotti, niente, nè scuole nè disgressioni nè ragionamenti, contribuiva tanto quanto lo stare in quegli ambienti, così seduti, a sviluppare la facoltà di astrazione (indeterminata) e una concezione idealistica del mondo. Perchè le sedie normali, tanto tormentate, sforacchiate se di vimini, frugate e scucite se tapezzate di stoffa, macchiate, scalfite, incise, graffiate, sono sedie; mentre le sedie del Salotto erano idee di sedie; e anche i quadri, che poiché posti in alto solo si contemplano, ivi erano, data la costante penombra che vi regnava a non sciuparli, idee di quadri. E ogni oggetto era idea di se stesso; e il bambino, pensoso di tanto mistero, si consolava osservando, quando poteva, sul suo dito la traccia della polvere o il solco che il suo dito aveva lasciato su di un piano, placandosi così la sua ansia di concreto.
Un salotto del genere poi dovrebbe essere chiuso a troppe quotidiane profanazioni - mai dovrebbe un bambino lasciarvi una crosta di pane sull'orlo della console, né il ragazzo col carboncino tracciare un ghirigoro sulla parete o un doppio vu rovesciato, nè la figlia tredicenne isolarvisi col suo quaderno e i suoi struggimenti; ma soprattutto dovrebbe essere fisso e stabile, sempre nello stesso luogo, nella stessa casa, possibilmente con le stesse persone.
Il Salotto invece, date le ristrettezze finanziarie e varie altre vicissitudini, veniva vontinuamente profanato, ma soprattutto continuamente si spostava, non solo nello spazio, ma anche nel tempo; per qualche anno ad esempio spariva inghiottito da uno scantinato, e lì rimaneva in agguato, pronto a ghermire vari metri quadrati di un nuovo appartemento. E lo si poteva vedere smembrarsi sulle spalle di giganteschi facchini (o di quegli altri piccolissimi e magri, tutti nervi e lucidi occhi prezzanti), ondeggiare per le scale, sostare nell'androne del palazzo; e zie o altre figure familiari, convocate per la circostanza restavano in quell'androne a sorvegliare il trasloco, sedute, non abbandonate ma vigili, su qualche poltrona divelta al suo ordine, avvolta in giornali e panni, mentre in terra si agitavano mossi dal vento - perchè il tempo spesso non era propizio ai traslochi e, proprio quando si cominciava a caricare si mutava in maltempo - batuffoli di paglia o pallottole di giornale (quelle carte di giornale ammorbidite da molteplici avvolgimenti di bicchieri da cognac, saliere, piatti cinesi, bottiglie ungheresi, putti di capodimonte; e qua un "Figaro 1950" là un "Franc Tireur del Alpes" 1948, là un cardinale Midszenty senza testa, là infine una busta con francobolli di Haiti contenente piccole chiavi, che si sarebbero dichiarate "scomparse nel trasloco del 19... da via... a via...).
E li si vedeva poi, quei mobili e suppellettili, anzi bibelots, ricollocarsi, come niente fosse stato, in una nuova stanza; e, ormai adolescente, la Figlia dolorosamente rilevava come lo spazio destinato alla Rappresentanza inghiottisse quello destinato a lei - ché aspirava con passione ad una sua stanzetta.
Il Salotto non aveva né spessore né aria, nonostante volesse imitare l'una e l'altra. Si intende lo spessore della mobilia di quelle famiglie di laboriosi professionisti calabresi o soltanto fraschesi, che si trapiantavano ad Althenopis dopo studiosi e dignitosi stenti giurisprudenziali o carducciani - mobilia acquistata con piccoli risparmi e qualche dono in denaro di più facoltosi stretti parenti dopo lunghi e appassionati fidanzamenti, che faceva da cornice al manolite monogamico e agli allietanti figli e dopo trenta-quarant'anni, all'incalzare delle malattie e delle morti. E si intende l'aria, l'ariosità di certi signorili soggiorni (non più propriamente allora salotti) che certe signore delle Isole del Golfo althenopeo si erano arredati negli anni ruggenti (da noi solo belanti) tra oggetti moderni e altri testimonianti la "mentalité primitive", che non solo come nostalgia è anche negli uomini delle società civili; cornice ad amori senza matrimoni, a dischi jazz, a libri di Gide o di Tagore, a ritratti di ventenni bellissimi, e uno di loro sarebbe diventato famoso e un altro invece sarebbe morto giovane.
Ed era invece un ibrido, con l'imitazione di spessori appartenuti ad altri, ad esempio, a sacrestie spagnole, mas provenzali, dimore di avi professionisti e possidenti da generazioni. E un'aria che non era una festa, una libertà dello spirito, ma un vacuum, un vuoto ossequio a certe mode del !° Dopoguerra, per cui qualche oggetto o ricamo contadino acquistava un aspetto tronfio, da casa dei nobili o borghesi che li governavano. Non mancavano i mobili e i bibelots in "stile" - Luigi XVI o Impero -, ma ammucchiati gli uni accanto agli altri, in un bric.à-brac di ostinato decoro, sradicati non solo dai loro nessi culturali ma anche dalle loro funzioniu, - seppure ne avevano avute -, perché quello che contava era il loro essere in "stile", a rappresentare non tanto la Famiglia qual.'era, ma i suoi fasti passati, e quelloi a venire, sicché il Salotto valeva come ammonimento ai figli della necessità di affermarsi socialmente e di uscire dalle ristrettezze del tempo della Vedovanza.
Di trasloco in trasloco il Salotto diventava sempre più l'ombra di se stesso, avendo perduto non solo la funzione che aveva per le passate generazioni, ma anche ormai quelle di monito ai figli, avendo questi ultimi in vari modi tradito la Famiglia; e sempre di più rivestiva un carattere di perdurante ostinatezza, di nevrotica coazione a ripetere il suo antico momento vitale; era - ed erano invece Purgatorio il bagno e Paradiso il proprio angolo o stanza , ricavati in qualche sgabuzzino - l'Inferno della casa, se inferno è polverosa noia e incomunicabilità con gli altri, perché primum inferno era quando la porta era chiusa e chiuse le imposte per non sciuparlo, e secundum vieppiù lo era quando "ci si riuniva" per il caffè dopo il pranzo in compagnia di qualche parente; o la sera di Capodanno, quando un figlio pietoso stappava lo champagne con la madre fingendo letizia e imitando ambedue negli occhi e nel sorriso le luci del lampadario tutto accesso per l'occasione e quelle delle altre case dirimpetto, dove in altri salotti si celebravano riti forse più felici.
Vi regnava negli ultimi anni, quelli della Solitudine, ostinato e freddamente diciso a perpetuare la salottiera entità, il volto sempre più diafano della Madre; chini gli occhi sul ventaglio di carte del solitario; o sporgenti per l'ira sempre più rara nel volto congestionato dall'alta pressione; o lontanissimi, gli occhi, e vaghi, di un tenero celeste nel volto tremante, chini sull'azzardo del solitario di Napoleone; e inconsulto, come i movimenti dei lattanti, il gesto con cui disponeva le carte.

Fabrizia Ramondino, Althenopis, Eunaudi 1981.