Corriere della Sera 1 giugno 2008
RIFIUTI E DISFATTA DEL SUD
Se la società civile scendesse in piazza
di Angelo Panebianco
Nel suo L'armonia perduta, del 1999, a proposito di quell'invenzione culturale che è stata la «napoletanità», Raffaele La Capria scrive che essa «... fu l'approdo inevitabile di questa piccola borghesia che rinunciava a priori, per risolvere il problema della plebe, a ogni vero tentativo di trasformazione sociale. Che rifiutava a priori ogni tentativo di industrializzazione, in quanto comportava rischi e richiedeva investimenti, capacità imprenditoriali, cultura, proprie di una classe dirigente moderna e di una borghesia degna di questo nome».
Assillata dall'esigenza di controllare la plebe, la borghesia napoletana, per La Capria, diede vita a una forma di civiltà duttile e raffinata ma immobile, impermeabile alle esigenze della modernità.
L'ambivalente sentimento dello scrittore nei confronti della borghesia della sua città ritorna oggi negli interventi che egli dedica all'emergenza napoletana. Lo si coglie anche nelle riflessioni pubblicate ieri sul Corriere. Quell'ambivalenza dà luogo, mi sembra, a oscillazioni nel giudizio. C'è una differenza fra la prima parte, dove risponde a Ernesto Galli della Loggia, e la seconda dove esamina criticamente Il mare non bagna Napoli, il libro di Anna Maria Ortese. Nella prima parte, egli accusa l'Italia per quanto è accaduto e accade a Napoli. Il rischio è che il lettore vi veda (fraintendendo, credo, il vero pensiero di La Capria) una sorta di assoluzione per Napoli, un voler gettare sulle spalle di altri le responsabilità. Nella seconda parte, però, egli dedica un giudizio molto affilato e duro alla borghesia napoletana, della quale dice che essa non si è mai confrontata con il mondo e, pertanto, non è mai stata in grado di conoscersi: «Come si fa a essere classe dirigente se non si sa chi si è?».
Io credo che a Napoli oggi possa servire più questo duro giudizio sull'inettitudine della sua borghesia, della sua classe dirigente, che una chiamata di correo per l'Italia nel suo insieme. Perché nelle chiamate di correo è sempre insito il rischio, anche al di là delle intenzioni, di allontanare la responsabilità da chi in primo luogo la possiede. E' mia impressione che i napoletani, e in particolare proprio quella borghesia da cui fin qui, nella vicenda dei rifiuti, ci si è attesi invano uno scatto d'orgoglio, la manifestazione di un'inequivocabile volontà di prendere in mano il destino della propria città, non abbiano ancora misurato fino in fondo il baratro morale in cui Napoli è precipitata agli occhi del resto dell'Italia. Forse, per quella normale forma di cortesia che impronta le conversazioni private, i non napoletani evitano di calcare troppo la mano quando parlano con dei napoletani. Ma è purtroppo un fatto che, ad esempio, quando al Nord oggi si parla di Napoli (e la cosa non coinvolge solo elettori leghisti ma i più disparati ambienti, culturali e politici) smorfie e commenti carichi di disprezzo sono la regola. Il resto del Paese si sente danneggiato da Napoli due volte. In termini di immagine, perché la vicenda napoletana dei rifiuti coinvolge l'intera Italia agli occhi del resto del Mondo. E in termini di sforzo finanziario, perché quella storia costa cifre colossali ai contribuenti italiani.
Da quindici anni, o quanti ne sono passati da quando dura il problema dei rifiuti, afflitta da quegli antichi difetti acutamente individuati da La Capria, la società civile napoletana, quell'ambiente borghese fatto di professionisti, professori, imprenditori, giornalisti, magistrati, è stato silente, e quindi complice, degli errori inanellati dalla classe politica. Quella società civile non può fingere di non avere responsabilità possedendo essa le risorse culturali ed economiche che avrebbero potuto metterla in grado di esercitare un'influenza positiva, se solo lo avesse voluto.
Trovo stupefacente che quella classe borghese non abbia ancora sentito su di sé tutto il peso morale dell'emergenza e non si sia data da fare di conseguenza. Trovo strano, ad esempio, che essa non sia stata ancora in grado di portare in piazza mezzo milione, o più, di persone, con lo scopo di solidarizzare con chi, da De Gennaro a Bertolaso, ha tentato e tenta l'impossibile per rimediare, e di dire basta alle manovre dilatorie e alle «rivolte » suscitate ad arte, mediante le quali, da troppo tempo, si impedisce di porre termine a questa scandalosa situazione. Se quella reazione ci fosse stata, il clima e il vento sarebbero già cambiati e Napoli potrebbe guardare con più fiducia al futuro. Per i rifiuti ma forse anche per i suoi più generali problemi di sviluppo. L'assenza di quella reazione spiega anche l'incapacità delle istituzioni di cooperare fra loro (come mostra l'ultimo, devastante, intervento della magistratura), di remare nella stessa direzione.
Non dovrebbe essere questo il compito di intellettuali di grande prestigio come La Capria? Quello di spingere i propri concittadini ad abbandonare l'apatia, a muoversi per riconquistare un orgoglio e un onore oggi perduti? Anche i difetti più antichi e radicati di una classe dirigente che, in realtà, non sa dirigere più nulla, possono essere riscattati nelle situazioni di emergenza. Anzi, è solo in presenza di crisi gravissime che potenziali classi dirigenti, abituate a stare in ginocchio, riescono talvolta ad alzarsi in piedi.
In quasi tutto il Sud, non solo a Napoli, è da sempre radicata l'idea che tocchi agli altri, al Nord ricco oppure allo Stato, «risarcire» il Sud, risolvere i problemi della società meridionale. Ma è una tragica illusione. Gli «altri», si tratti dello Stato o di qualunque altra entità, anche ammesso (e non concesso) che lo vogliano, non potrebbero comunque riuscirci. Nessuno è in grado di aiutare davvero un altro se quest'ultimo non aiuta se stesso per primo.
31 maggio 2008
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