Ritorna ciclicamente la discussione sulla borghesia napoletana. La solita discussione sulle “mancanze” (mancanze meridionali, ma anche mancanze italiane) ancora più assurda in epoca post-industriale e post-moderna. A Napoli mancherebbe una vera borghesia. Che cos’è la borghesia “sana”? I finanzieri rampanti di Roma e Milano? I vecchi industriali? Gli imprenditori che smistano i rifiuti tossici?
Oggi più che mai la categoria non è adeguata a interpretare una realtà storica che vede trasformare completamente i vecchi assetti sociali in un rapporto inscindibile con i processi di globalizzazione. A milioni hanno letto e glorificato il libro di Saviano, Gomorra, ma sembra che quasi nessuno ne abbia colto uno degli aspetti più importanti: la descrizione del rapporto funzionale tra i gruppi camorristi e gli imprenditori settentrionali, per i rifiuti nocivi, per lo sfruttamento del lavoro nero… È una borghesia sana quella? Un discorso analogo si può fare per quel che riguarda il discorso sugli intellettuali. “Gli intellettuali non protestano”. Curioso che il concetto di intellettuale come coscienza critica, tipicamente marxista, venga portato avanti da studiosi molto lontani da quell’ideologia. Ma, a parte ciò, ci sono stati parecchi “intellettuali” che hanno protestato, studiato, proposto…
Il fatto è che a discettare sulle pagine più importanti dei giornali nazionali e nei salotti televisivi ci sono poi sempre studiosi e opinionisti che leggono la realtà napoletana attraverso informazioni di seconda mano e stereotipi radicati. E questo vale anche per i napoletani che da lungo tempo non vivono in città. Umilmente ricordo che anch’io ho scritto un lungo articolo di analisi del ciclo vizioso dei rifiuti campani (Il Mulino, n.1, 2008). Sono storica e occuparmi di spazzatura non è il mio mestiere, ma mi sono impegnata a studiare il caso attraverso la copiosa documentazione che copre tutto il periodo dell’emergenza.
Mi sono così accorta che il dibattito sul tema non si sviluppa quasi mai a partire da informazioni esatte, da dati concreti. Invece, si svolge sempre in termini ideologici (sia che sia di destra che di sinistra) è un dibattito capzioso. Oggi, ad esempio, al centro dell’attenzione ci sono soltanto le popolazioni e le loro proteste. Le popolazioni sono diventate le vere colpevoli di tutto, il famoso partito dei no. Le responsabilità accertate da migliaia di pagine di inchieste parlamentari, approfondite dalla magistratura sono svanite nel nulla: una gara fatta male, un’impresa nazionale che ha costruito un prodotto pessimo (ed è incriminata per questo per “truffa allo Stato”) un’amministrazione locale che non solo si è mostrata inerte, ma ha sprecato danaro pubblico in quantità scandalosa e in tanti anni non ha avviato una raccolta differenziata seria, ha saputo solo fare discariche e colmarle ben oltre i limiti consentiti da una legge che dovrebbe tutelare la salute dei cittadini. Perché le popolazioni dovrebbero fidarsi? Chi assicura che tutto non verrà fatto come nel recentissimo passato, che una discarica aperta ora non durerà per decine di anni, non si riempirà di spazzatura non trattata, di percolato?
Non si vedono segnali positivi di cambiamento. Si parla solo di discariche e di educazione dei cittadini, educazione nelle scuole. Intanto prima di tutto dovrebbero essere educati gli amministratori. L’educazione, inoltre, non è una disciplina astratta, ma si alimenta con comportamenti pratici, favoriti da soluzioni concrete e applicate con rigore. Il contrario di quello che avviene regolarmente a Napoli: gli esempi sono sotto gli occhi di tutti.
C’è in città in questo momento un tale sconforto, un così grande sentimento di umiliazione, che, se si desse ai cittadini la possibilità di fare una vera e durissima raccolta differenziata, sicuramente vi si impegnerebbero con energia. Ma gli amministratori sono spariti dietro ai diktat del governo, si sono adeguati, zitti su tutto per difendere se stessi. L’incriminazione delle popolazioni fa passare sotto silenzio le loro colpe. È qui, non in una mitica borghesia né in un’altrettanto mitica società civile, che si situa la debolezza del sistema campano. La politica è, in Campania, un sistema chiuso, autoreferenziale. Un gruppo di “apparatchicki” che girano da un posto di comando a un altro. Persone che hanno fatto disastri in un’istituzione vengono promossi alla direzione di un’altra. Si ha l’impressione netta che il filtro attraverso cui vengono selezionati i politici sia del tutto negativo: passano i peggiori. I migliori, perché liberi di testa, non allineati, vengono esclusi. E le liste campane delle ultime elezioni sono stata un’ulteriore prova dell’impossibilità di cambiare qualcosa.
Ci troviamo di fronte a una classe politica del tutto delegittimata a livello locale come a livello nazionale, ma ostinatamente attaccata al potere conquistato, tanto da accettare di adeguarsi e celarsi dietro ai diktat autoritari del nuovo governo. Da un canto, quindi, una classe politica che non ha più credibilità e legittimità per agire, se mai lo volesse, dall’altro i nuovi governanti che usano una procedura autoritaria e antidemocratica. Altro che protestare! Sembra che non ci siano più possibilità di “voice”, per usare la famosa espressione di Hirschman che stava a indicare gli spazi per una protesta democratica che venisse ascoltata, ma che l’unica possibilità sia per chi può l’ “exit”, cioè andarsene, che è, purtroppo, quello che stanno facendo tutti i giovani più intraprendenti. Viene voglia di stare zitti, di scegliere un doloroso e appartato silenzio.
Gabriella Gribaudi (Il Mattino, 8 giugno 2008)
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