Una piccola premessa. Le righe che seguono nascono di getto e un po’ di “pancia”, durante un viaggio in treno tra Napoli e Roma. Quando Porpora mi ha chiesto di scrivere un pezzo per il suo libro sul tema del rapporto tra transessualità e sistema dei servizi socio-sanitari, ho pensato fosse giusto provare a scrivere seguendo le emozioni e non tanto, invece, privilegiando un approccio teorico-professionale.
Troppo spesso, infatti, come operatori sociali cadiamo nell’errore di scivolare in eccessi di tecnicismo e di utilizzare, per il racconto delle nostre pratiche, un linguaggio comprensibile solo a noi stessi. Un mix micidiale che ci porta ad utilizzare strumenti freddi, completamente inadeguati per far conoscere esperienze che al contrario, il più delle volte, sono calde e anche un po’ “umide”.
Certo, il rischio è che quelli che seguono siano pensieri confusi e sicuramente incompleti, ma certamente hanno il pregio di essere sinceri e sentiti e, nello stesso tempo, di basarsi sull’esperienza diretta.
La prima volta che nell’ambito del mio lavoro mi è capitato di incontrare un gruppo di persone transessuali è stata circa 8 anni fa durante una visita al carcere di Poggioreale a Napoli. Avevo accompagnato due parlamentari per riuscire ad indagare, attraverso una visita a sorpresa, la condizione di detenzione dei detenuti con problemi di dipendenza da sostanze. Mentre raggiungevamo il reparto “tossicodipendenti”, per caso, sulle scale che portavano dal secondo al terzo piano, incontrammo una quindicina di trans, italiane e straniere, che, accompagnate da quattro guardie stavano scendendo in cortile per l’ora d’aria. Il direttore dell’istituto che, in modo asfissiante e stretto, non ci mollava un minuto, ci propose di incontrare anche quel “particolare” gruppo di detenute. Senza aspettare la nostra risposta, né tanto meno chiedere a loro se preferivano parlare con noi o accedere all’ora d’aria, ordino alle guardie di accompagnarci tutti nella stanza colloqui per poter svolgere l’incontro. Per inciso, continuo a pensare che quella semi-imposizione da parte del direttore, consentì allo stesso di far “nascondere” qualcosa nel reparto tossicodipendenti.
In ogni caso, appena ci accomodammo nella stanza colloqui, io e i due parlamentari da una parte del tavolo, le trans dall’altra, calò un gelido silenzio. Le nostre interlocutrici, alternavano sguardi diffidenti, segnali di fastidio e impazienza, commenti provocatori e un po’ di scherno. Imbarazzato più che mai e non sapendo cosa fare o dire, stavo per scusarmi e andarmene quando di colpo mi venne in mente un consiglio che Porpora mi aveva dato in una giornata di formazione sulla riduzione del danno e sul lavoro di strada: “…ricordati che noi trans siamo quasi sempre molto vanitose…a volte basta un complimento per avviare una relazione costruttiva”
Detto fatto e provo a buttarmi: “certo che anche in questo schifo di posto riuscite ad essere eleganti”. Come predetto da Porpora la situazione cambia. Cala la tensione e parte la comunicazione, prima con un interrogatorio sul perché e il come fossimo li, e poi con una denuncia seria, vera, a volte arrabbiata e sofferta, sui loro diritti negati, sulla durezza del loro stare in carcere, sul senso di isolamento e di prevaricazione che spesso vivevano. Una denuncia così netta, da mettere in difficoltà il direttore, che certo non si aspettava tanta sincerità al suo cospetto e a quello delle guardie.
Da allora con alcune di loro si è instaurata una relazione stabile, e grazie a questo incontro sono nati servizi come lo sportello in carcere, l’assistenza legale, le consulenze psicologiche, il lavoro di strada e la riduzione del danno, il supporto all’inserimento socio-lavorativo.
Sono partito da questo episodio perché mi pare che nel suo evolversi contenga alcuni presupposti, alcune indicazioni metodologiche che mi paiono essenziali per progettare e attivare servizi socio-sanitari rivolti alle persone transessuali.
In primis credo che le persone transessuali, con il loro modo di rapportarsi agli operatori, nei fatti interroghino i servizi sul loro livello di distanza con le persone a cui si rivolgono. Una distanza che si crea a volte per gli atteggiamenti “onnipotenti” degli operatori, a volte perché spesso capita che nelle emergenze quotidiane e nella precarietà che caratterizza molte situazioni, si ha pochissimo tempo da dedicare all’ascolto, o comunque non si è disponibili a rispettare fino in fondo i tempi e la maturazione della persona che ci sta di fronte
Allo stesso modo credo che più di altri, le trans chiedano ai servizi di non essere solo gli spazi dell’intervento specifico, della relazione tematica sul problema. Ma anche luoghi dove avere una relazione normale, sulle chiacchere quotidiane, sul piacere e la disponibilità di bersi un caffè o di fumarsi insieme una sicurezza. Insomma una richiesta ai servizi di essere luoghi accoglienti anche perché capaci di dedicare tempo al qui ed ora, anche se quel qui e ora non è finalizzato a “salvare” o recuperare qualcuno.
In qualche modo una richiesta che stravolge la tradizione dell’intervento sociale, che annulla la distanza tra operatore e utente perché ricostruisce parità proponendo una relazione sulle cose e gli eventi del nostro vivere quotidiano. Se parliamo della difficoltà di trovare casa, del fidanzato/a che ci ha lasciato, di quanto sono diventati cari i fruttivendoli l’operatore diventa persona uguale a all’altra con cui dialoga, senza più la distanza della professionalità o dell’essere dentro la cosiddetta “normalità”.
Quando scendo dall’unità mobile, o quando le incontro nelle riunioni in sede, con le loro provocazioni, con le loro risate, con le loro richieste precise e nette, le trans mi hanno insegnato la necessità di costruire processi di presa in carico che non possono essere costruiti esclusivamente sulla professionalità o sulla gestione, razionalmente equilibrata, dell’empatia e delle emozioni.
Certo non si può essere impreparati e sicuramente occorre essere professionali, ma parimenti occorre comprendere fino in fondo che non vi è relazione utile se ad essa vengono negati quegli spazi, quei livelli di banalità e piccolezza che in fondo caratterizzano ogni nostra relazione quotidiana.
Un’attenzione che non vale solo per i servizi rivolti alle persone transessuali. Sempre più spesso in strada, nei servizi di prossimità, in tanti altri luoghi dell’intervento sociale incontriamo persone che, se pur differenti tra loro e con diversi livelli di consapevolezza, ci chiedono con chiarezza di proporre spazi di relazione veri, capaci di non dar nulla per scontato, attenti a non offrire soluzioni preconfezionate ma proposte declinabili e adattabili ai percorsi di ciascuno. Di essere rispettosi non solo dei “tempi servizio” ma anche di quelli di cui hanno bisogno i destinatari per fidarsi, affidarsi, partecipare.
La partecipazione, appunto, è una seconda questione di fondamentale importanza nella definizione delle relazioni e degli interventi con le trans.
Se si vuole costruire attività utili, capaci di impattare e di modificare, si deve pensare alle persone transessuali come soggetti attivi, partecipanti in modo diretto, ai loro percorsi e alla stessa definizione dei servizi a loro rivolti. Certo anche qui senza accelerazioni, senza salti in avanti o approcci ideologici, ma nella consapevolezza che solo in una relazione tra pari, pur nel riconoscimento delle reciproche differenze, ruoli e possibilità, si possono costruire pratiche sociali innovative ed efficaci
Per questo, negli interventi, è importante prevedere l’inserimento e la formazione di operatori e operatrici alla pari. E, forse ancora di più, lavorare affinché si formino dei soggetti auto-organizzati di rappresentanza delle trans, da considerare come interlocutori privilegiati nel monitoraggio e nella valutazione dei servizi.
Una terza questione, riguarda la capacità degli operatori e delle operatrici di sospendere il giudizio, di non essere moralisti nell’offerta e nella costruzione delle relazioni. Non è cosa facile. Specialmente in un paese in cui nella tradizione dell’intervento sociale con l’incontro tra moralismi cattolici e quelli di sinistra (questi ultimi a volte più inspiegabili e insopportabili dei primi), si è creato un esercito di professionisti del sociale, convinti di essere un po’ salvatori e un po’ censori, di avere le tasche piene di verità da offrire agli “assistiti”, di essere capaci, sempre e comunque, di individuare e separare il bene dal male.
Con le trans, oltre che scorretti, tali atteggiamenti non sono possibili. Se fai il salvatore non ti sopportano. Se fai il buono ti prendono in giro. Se fai il duro rischi di prenderti una sberla. Quello che occorre provare a fare (almeno al momento del primo incontro o in servizi, come quelli di strada, dove non sono loro a venire da te ma tu ad andare da loro) è essere normali, chiari e consapevoli di quello che si può offrire, rivendicando e spiegando ciò che ti spinge a stare in quel luogo e in quella relazione, ma allo stesso tempo non nascondendo le debolezze e le impossibilità.
Sapendo che ha volte si può trovare situazioni in cui non si è graditi e quindi anche avendo il coraggio di “togliere il disturbo” anche se, magari, non si è riusciti a raccontare nemmeno un pezzettino del tuo servizio, dei suoi obiettivi e delle sue attività.
Un’ultima questione, che non emerge da quel primo incontro in carcere, ma da questi anni di lavoro con le persone transessuali e specialmente con quelle che si prostituiscono, è relativa al fatto che i servizi, se davvero vogliono rappresentare un’alternativa a percorsi e vissuti a potenziale rischio di devianza e marginalità, devono essere capaci di essere competitivi per quanto attiene le concrete possibilità di offrire emancipazione e autonomia e, quindi, di prevedere sostegni e accompagnamento al reinserimento lavorativo. In questo va detto con chiarezza che siamo in ritardo. Se è vero che il lavorare oggi, per tutti rappresenta spesso una condizione di difficile accesso, a volte impossibile da raggiungere, altre volte, se raggiunta, estremamente precaria e instabile, è altrettanto vero che spesso i servizi sociali e socio-sanitari poco investono nella costruzione di intrecci e co-progettazioni stabili con le politiche attive del lavoro. Una criticità che va affrontata e superata. Altrimenti il rischio da un lato è la perdita di credibilità dei servizi, d’altra parte è quello di creare aspettative che se deluse producono ricadute gravi e a volte impossibili da riavvicinare.
Molte delle cose che ho provato a dire sulla relazione tra persone transessuali e servizi possono essere tranquillamente esportate, come questioni aperte, in molti altri ambiti del lavoro sociale. Sempre più, nel nostro quotidiano, incontriamo domande nuove, a volte confuse, portatrici di bisogni multipli e complessi, a volte ancora più sofferte perché mascherate da un’apparente situazione di agio. Una complessità che obbliga, a loro volta, gli operatori e le operatrici ad interrogarsi in continuazione e con sincerità sul loro fare e sulla necessità di mantenere aperte la disponibilità all’ascolto e all’aggiornamento.
Pena il diventare, senza nemmeno accorgercene, funzionali ed utili ad un modello di città e di società sempre più escludente e cattivo con ogni forma di alterità, fragilità e differenza.