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21 gennaio 2009

Questione lavoro

Questione lavoro

Dal Libro Bianco di Delors (1993) ad oggi le politiche dell’unione europea hanno progressivamente assorbito e fatto proprio il pensiero neoliberista e relegato il riformismo dal volto umano nello spazio angusto delle politiche attive del lavoro, delle politiche ri-educative e formative, delle pari opportunità e della occupabilità. In nome del recupero o del mantenimento degli equilibri monetari e di finanza pubblica, e in nome di una crescita economica fondata sui meccanismi spontanei, sulla centralità e sull’efficienza del mercato e costruita sulla competitività, le politiche rivolte alle regioni d’Europa hanno progressivamente abbandonato l’obiettivo primario del libro bianco, di contrastare la disoccupazione, hanno progressivamente indotto (e da Maastricht in poi vincolato) gli Stati a tenere sempre più stretti i cordoni della spesa pubblica e hanno sacrificato il valore delle garanzie e della remuneratività del lavoro, ritenendole non più sostenibili nel mercato globalizzato.

In più le nostre riforme strutturali nazionali hanno con particolare insistenza operato sul sistema previdenziale, pilastro del nostro sistema di welfare, e sul mercato del lavoro, ovvero il sistema di regolazione della risorsa endogena primaria della nostra economia, e hanno sistematicamente tralasciato di uniformare e riformare gli ammortizzatori sociali, la base di riconoscimento del diritto di ciascuno alla sopravvivenza, alla cittadinanza, all’indennizzo se si perde il lavoro e a lavorare comunque, anche fuori mercato.

Le tracce di prospettiva e di speranza che il libro bianco indicava nei nuovi bacini di impiego, nella cura della persona, dell’ambiente, del territorio, della cultura e in impieghi di utilità concreta, sostenibili con formule di finanziamento e di organizzazione innovative e costi contenuti grazie all’impiego delle nuove tecnologie ICT, sono state cancellate in breve tempo, piegate a scopi diversi o ricondotte ad una logica del tutto diversa e distante da quella che li ispirava, che guardava alla innovazione tecnologica non solo come ad un fattore di risparmio di lavoro ma anche come ad un fattore propulsivo per rendere economicamente sostenibili innumerevoli possibilità di interventi e servizi per il benessere delle persone, dell’ambiente, delle comunità. Dell’idea di workfare così immaginata è rimasta solo la ragione di scambio tra reddito di sostegno e formazione, senza fini applicativi, tra reddito di sostegno e lavoro socialmente utile genericamente definito e generalmente poco qualificato, tra reddito di sostegno e inserimento formativo in azienda, ovvero inserimento gratuito a favore delle imprese. Null’altro che un vincolo punitivo senza dignità né prospettive.

Il sacrificio italiano del welfare e del lavoro alla crescita economica è stato sofferto, con responsabile assunzione di oneri, soprattutto da parte della popolazione meno abbiente e dalle lavoratrici e lavoratori a reddito fisso, in difesa di quanto già si aveva e si era conquistato e con la speranza di un miglioramento. Una speranza riposta nel dinamismo imprenditoriale, nella efficienza dei mercati, nell’attrazione degli investimenti, nel potenziamento delle infrastrutture, nella qualificazione delle funzioni pubbliche, nel miglioramento dei conti pubblici e della finanza privata ed infine nel miglioramento del capitale umano.

In quale parte dell’Italia, quanti e quali di questi effetti di policy siano stati effettivamente raggiunti, o almeno perseguiti in parte, non è oggetto di analisi scientifica e di valutazione da parte delle istituzioni ed è argomento generalmente glissato dal dibattito politico. Ma appare evidente che nel suo insieme la situazione sociale del Paese è peggiorata, con accentuate disuguaglianze sociali e territoriali, allargate aree di povertà e diffusi fenomeni di precarietà del lavoro. Una situazione di crisi che si è materializzata prima ancora che scoppiasse la crisi finanziaria, trovando conferma nelle statistiche ufficiali e nei rapporti sulle condizioni del Paese e assumendo anche una forte e spesso imbarazzante visibilità nel dibattito e nell’iniziativa politica.

Anche in Campania e a Napoli si è consumato questo tipo di sacrificio. La Campania già povera, e povera di lavoro, ha dovuto sacrificare valori di redditività e di sicurezza del lavoro già scarsi; ha dovuto mettere il proprio mercato del lavoro, con i suoi bassi tassi di attività e i suoi alti tassi di disoccupazione, alla prova della esperienza della flessibilità, della competitività e della produttività, ha dovuto sottoporlo alla stretta delle pensioni, dei trasferimenti assistenziali, della moderazione salariale e della precarizzazione. L’accrescimento assoluto e relativo della miseria è il risultato che emerge dall’analisi della contabilità economica, del mercato del lavoro, delle condizioni sociali ed economiche delle famiglie, degli altri indicatori sociali che rappresentano le condizioni di vita e di emancipazione della nostra regione e della nostra città.

Esistono rimedi alla situazione attuale? Tornando a Delors e agli irrisolti problemi della disoccupazione che l’Italia tuttora ha, malgrado gli sforzi di occultamento statistico e con gli immutati caratteri giovanili, femminili e meridionali che aveva nel ’93, oggi aggravati dalla condizione di rilevante crescita di disoccupati nella coorte di età 25-35 anni e per gli ultracinquantenni e dalla prospettiva di una crisi recessiva intensa e prolungata, il punto di partenza è ancora oggi nelle cause della disoccupazione, ed il punto di arrivo è ancora oggi quello di riuscire a produrre, con una crescita sostenibile, maggiore occupazione.

Gli strumenti di incentivo agli investimenti e all’occupazione nella media e piccola impresa, di riduzione dei costi contributivi e fiscali del lavoro per le qualifiche basse, di disincentivo all’incremento di orario lavoro per i percettori di redditi da lavoro superiori alla media, la regolamentazione flessibile dell’orario di lavoro, la riduzione generalizzata della settimana lavorativa e del monte ore annuo con periodi da destinare alla formazione, sono tutti strumenti che si sono persi per strada e che possono essere ripresi in considerazione.

Una più articolata analisi delle cause della disoccupazione dovrebbe inoltre indurre ad un vero e proprio disconoscimento della formazione non finalizzata, della formazione “separata” dal lavoro e sottratta ai lavoratori che dovrebbero esserne sempre i protagonisti, tanto nel ricevere quanto nel dare e fare formazione, della formazione finanziata e remunerata a prescindere dai risultati. Si dovrebbe prendere le distanze da quella impostazione delle politiche imperniata sui fattori che determinano i comportamenti e l’occupabilità dell’offerta di lavoro, su cui si è concentrato per intero, ed in modo interamente sterile, l’impianto ri-educativo e formativo della politica attiva del lavoro in Italia, considerando il comportamento e la qualità dell’offerta come uno tra i tanti aspetti che determinano la disoccupazione, necessario ma non sufficiente e non esaustivo, e al contrario restituendo ai disoccupati la centralità che meritano in quanto fascia sociale in condizioni di disagio materiale, per rispondere su quello che non hanno piuttosto che su quello che dovrebbero avere e restituendo alla formazione il suo ruolo di accompagnamento alle carriere lavorative e di preparazione finalizzata al concreto inserimento lavorativo. Gran parte del costosissimo impianto tecnologico di supporto alla formazione e dello stesso investimento in formazione (circa due miliardi di euro all’anno) potrebbe essere risparmiato se solo si concepisse la valutazione dell’intervento in base al risultato occupazionale secco e scattassero, ad esempio, meccanismi di risarcimento in caso di esito mancato.

Anche sulle politiche dell’offerta, intese come risposta ad un bisogno, il libro bianco formulava indicazioni di policy del tutto diverse che puntavano non tanto sulla formazione e l’orientamento dei disoccupati (a che?) quanto su maggiori efficienze delle politiche di indennizzo e di sostegno al reddito strettamente coniugate alla valorizzazione delle politiche sociali, del terzo settore, dei lavori concreti.

Si può dunque ripartire, con l’analisi e nella ricerca di soluzioni alla disoccupazione, qui a Napoli e in Campania, qui e ora, dalle tracce indicate nel lontano 1993 considerando quel’è l’attuale situazione economica, del mercato del lavoro e della struttura sociale della regione, quali ulteriori indicazioni sui fallimenti del mercato vengono dalla crisi attuale, quali elementi nuovi si sono aggiunti al quadro che si presentava quindici anni fa ?

Nel 2007 la Campania è la settima regione d’Italia per volume di reddito prodotto (96,797 miliardi) e la decima regione per indice di crescita del Pil (128,5 rispetto al 2000 con valori a prezzi correnti). Rispetto ai risultati registrati nel 2006 la situazione peggiora con lo slittamento della regione dal sesto posto per crescita del pil, l’affondamento all’ultimo posto per i valori del reddito pro capite (16.686,9) e al 16° posto, per il valore della produttività, il reddito prodotto per unità di lavoro standard, pari a 53.612,5 euro . Diversamente dalle aspettative delle politiche comunitarie ispiratrici dei fondi strutturali gli investimenti fissi lordi sia della Campania che dell’intero Mezzogiorno nel periodo 2000-2006 rimangono fermi rispettivamente al 6,2% e al 25% del totale nazionale (anzi la quota per il Mezzogiorno diminuisce di 0,5 punti). Restano inalterati, se non peggiorano, alcuni indicatori di arretratezza della struttura economica come ad esempio il segno negativo della bilancia commerciale con il 16,9% del pil costituito da importazioni nette, il volume di spesa delle pubbliche amministrazioni pari al 30% delle spese finali complessive, e soprattutto una base produttiva industriale in senso stretto che rappresenta solo l’11% del pil contro il 20% nazionale, e un peso del settore dei servizi alle persone, in cui è rappresentata la pubblica amministrazione, che assorbe il 29,2% del pil contro il 21,2% nazionale. I dati sull’occupazione che si possono stimare a partire dalla contabilità nazionale mostrano una crescita di 4,4 punti percentuali delle unità di lavoro stardard nell’intero periodo 2000-2006, una delle peggiori performance regionali, più bassa anche della media del Mezzogiorno.

Rispetto al mercato del lavoro la situazione si presenta negativa per i tassi di occupazione e peggiorata per le fasce di popolazione già più colpite e in difficoltà nell’acceso al lavoro, ma presenta anche un rinnovato trend di crescita delle persone in cerca di lavoro che fino al 2006 si erano invece ridotte, in particolare nella componente in cerca di primo lavoro ed in quella dei disoccupati di lunga durata. Con una interpretazione cinica che non tiene conto della progressiva esclusione dal mercato del lavoro delle fasce di offerta più deboli, si può dire che vi sono stati dal 2004 al 2006 alcuni segnali di riequilibrio all’interno del mercato del lavoro che lasciavano intravedere un mercato del lavoro più reattivo e capace di riflettere più direttamente e prontamente le dinamiche degli altri mercati e della produzione economica regionale. Ma seppure scremato nella componente dell’offerta di lavoro meno “occupabile” il mercato non risponde ai benefici della flessibilità e della moderazione salariale producendo più occupazione, nè si verifica l’emersione del sommerso. Tende a scremarsi in negativo anche la domanda di lavoro che offre opportunità sempre più concentrate nel terziario, sempre meno remunerative e stabili, sempre più distanti dalla sfida della competizione sulla qualità. Il mercato debole, lasciato ai suoi automatismi, produce risposte deboli che indeboliscono se stesso e devastano le condizioni di vita e di lavoro delle persone, aumentano la lontananza e la separazione dal lavoro. Questo e non altro sembra indicare la forte diminuzione dei tassi di attività le cui implicazioni più serie si possono rilevare nei nuovi flussi di emigrazione, nella persistenza del sommerso, nel peggioramento dei tassi di abbandono e insuccesso scolastico, nel peggioramento dei tassi di attività femminili.
Peggiora l’economia e peggiora la società, senza lavoro. Che fare?

Il seguito (ma non la risposta!)... alla prossima puntata sulle politiche (fatte e possibili)
Susi Veneziano

Susi Veneziano