Traduzioni

31 gennaio 2009

Carta per la Democrazia Insorgente

Carta per la Democrazia Insorgente

1. Negli ultimi anni abbiamo assistito allo sgretolamento della democrazia rappresentativa e dello Stato di diritto, che ci eravamo abituati a considerare come uno spazio pubblico forse insufficente, ma comunque inalienabile. Tale consunzione lascia in piedi le forme sempre più vuote delle istituzioni democratiche; non le cancella d’un colpo e rapidamente come fecero i totalitarismi del 900, ma le priva -fino alla paralisi completa- di ogni potere concreto e decisionale; le riduce, per sottrazione continua, a inerti simulacri. Questo lento colpo di stato si è realizzato in Italia secondo un programma affine a quello redatto, anni fa, dalla loggia segreta P2; i cui esponenti sono oggi assurti alle più alte cariche dello Stato e a posizioni direttive nei giornali e nelle televisioni. Controllo completo dell’informazione; presidenzialismo sempre più accentuato; derisione delle leggi penali e intimidazione della magistratura; eliminazione delle lotte sindacali e dello spazio pubblico; a questi punti del vecchio programma autoritario si è aggiunto il razzismo e il letterale neofascismo della Lega.

2. Parlamento, istituzioni tradizionali della rappresentanza, partiti, sopravvivono come forme di puro spettacolo, tanto più ossessivamente presenti nei talk shaw e nei cerimoniali, quanto più sono sostanzialmente privi del potere più elementare di decisione. Il regime democratico viene integrato da centri decisionali ufficiosi, servizi e associazioni parallele, che si diffondono in una molteplicità frammentata. Questa attività in ombra affianca la celebrazione pubblica dello spettacolo. Essa si dispone accanto alle istituzioni, alle leggi e agli ordini professionali visibili. L’apparato giuridico e istituzionale resta apparentemente intatto: ma le decisioni spettano effettivamente ai poteri paralleli.
Non si tratta solo di interventi clamorosi e violenti, ma anche di misure che riguardano l’ordinaria quotidianità. I concorsi pubblici sono sostituiti da riunioni preliminari ufficiose; le decisioni amministrative sono prese entro consorterie private, sottratte a qualsiasi controllo delle amministrazioni elette; la libertà di stampa viene controllata prima di ogni censura da comitati editoriali che scelgono i giornalisti affidabili; molti reati finanziari sono di fatto depenalizzati, anche se le leggi che dovrebbero punirli restano ufficialmente in vigore. Questo processo determina la divergenza sistematica tra la regola pubblicamente ammessa e il centro decisionale occulto: cinismo, ipocrisia oggettiva, menzogna, divengono comportamenti sociali indispensabili per orientarsi in questa sorta di doppio comando sociale permanente. Chi resta legato ingenuamente all’apparenza pubblica dello spettacolo (e per es. si oppone a una decisione di fatto in nome di una norma del diritto) viene minacciato o emarginato.

3. Mafia e camorra divengono un modello attuale di funzionamento associativo segreto: non dunque una sopravvivenza arcaica, ma un organismo a pieno titolo esistente entro la società dello spettacolo. Mafia e camorra scorrono –per così dire- accanto al simulacro del potere pubblico, lasciandolo il più possibile intatto, colpendo le persone che volessero farlo funzionare oltre un livello semplicemente formale. Il loro modello è seguito dagli organismi decisionali paralleli, che ormai sostituiscono i poteri formali dello Stato. Tutto deve sembrare immutato, mentre in realtà ogni cosa sta cambiando; così la messa in scena della democrazia inverte e sostituisce la sua pratica reale. Per l’occhio di uno spettatore distratto, le sue apparenze appaiono più che mai funzionanti. La nuova Società Autoritaria si espande lentamente, come un vapore e un miasma, in un’atmosfera che non oppone più resistenza. E’ un contagio sottile e penetrante, che attacca la sostanza stessa della democrazia: finchè basta il colpo di un dito per farne cadere l’involucro.

4. Comunque si voglia chiamare la nuova Società Autoritaria (“spettacolare integrato”, come voleva Debord; “democrazia dispotica”, come ha proposto Marco Revelli), certo è che essa coniuga alla diffusione delle merci e dei mercati alcuni elementi caratteristici dei regimi totalitari del 900, creando un sistema di potere inedito, non interamente assimilabile né alla democrazia né al fascismo storico. Al potere spettacolare diffuso si affiancano ormai organi di decisione concentrata, capaci di gestire procedure di emergenza o l’uso aperto della violenza, come è avvenuto in modo clamoroso al G8 di Genova.
Nel sistema giuridico classico lo stato d’emergenza permetteva il ricorso alla dittatura e la sospensione del diritto abituale; nella Società Autoritaria procedure d’emergenza simulate e ingigantite con tutti i mezzi mediatici divengono una pratica alternativa e ricorrente della democrazia. Il fascismo storico fu caratterizzato dall’intromissione dello Stato nell’economia. La Società Autoritaria è una risposta alla liberazione possibile dal lavoro e all'uso comunitario delle tecniche e delle risorse. Il suo ambito proprio non è lo Stato, né la fabbrica, ma il controllo della vita che fuoriesce ed esorbita dalle vecchie strutture di dominio. In tal senso, come si è visto nella recente crisi economica, lo Stato non funziona come gestore pubblico dell’economia, tanto meno si pone come totalità organica; esso è ormai ridotto a pura funzione di sostegno del mercato (di ciò è un piccolo ma interessante segno il fatto che le tangentopoli attuali siano dirette da imprenditori e non da politici).

5. La democrazia ha oggi due nemici, apparentemente opposti e in realtà complementari: da un lato lo Stato “consensuale”, ridotto a un complesso di funzioni, ordinate in funzione del mercato e ad esso del tutto subordinate. A differenza di quello classico, criticato dal marxismo per il suo carattere ideologico, qui lo Stato si pone esplicitamente al servizio del mercato e trova anzi la sua gloria e la sua residua legittimazione nello svolgere questa funzione nel modo più efficiente possibile. D’altro lato, si diffonde invece una ideologia “umanitaria”, con cui si pretende di giustificare l’intervento violento in altre aree del mondo, in nome di una presunta difesa dei diritti umani delle vittime (come si è affermato per il Kosovo, per l’Afghanistan, per l’Iraq); questo democraticismo umanitario, in compenso, non riconosce alcun conflitto reale all’interno della propria identità statuale, coesa e consensuale. Il conflitto è rigettato interamente all’esterno e sull’”altro”. Questo universalismo umanitario è astratto, mentre quello concreto dovrebbe riconoscere il legame tra la disuguaglianza nelle metropoli occidentali e quella che domina in altri luoghi del mondo. Al contrario, si accredita l’idea di un’identità occidentale tutta coesa intorno al suo roccioso nucleo identitario e alle sue funzioni di governance del mercato: mentre al di fuori si estende il mondo feroce ed estraneo, che si tratterebbe di ricondurre sotto l’ordine della nostra polizia.

6. Questo ibrido di consensualismo e di universalismo astratto culmina in una società gerarchica e razzista, entro cui riaffiorano tratti tipici dei governi totalitari del 900. Rifiutando la nozione stessa di un conflitto reale, di una parte dei senza parte entro la nostra realtà sociale, cancellando la sua visibilità, il peso del negativo (peraltro sempre più difficilmente contestabile) ricade per intero sulle spalle dell’altro e dell’estraneo; è il nemico, il criminale, che introduce un alieno disordine in ciò che di per sé funzionerebbe come il migliore dei mondi possibili. Uno stupido buonismo ottimista si salda così a misure ferocemente gerarchiche, neanche esprimibili come tali: un conflitto non più dicibile e simbolizzabile si riversa come nuda violenza tra chi ha parte e chi non ne ha, più simile a una rivolta di schiavi che a un’insurrezione di cittadini. Di volta in volta, un gruppo etnico o gli immigrati in generale, vengono esclusi di fatto dalla cittadinanza, oggettivati come capri espiatori e mostrati come i responsabili della nostra insicurezza.

7. Il dominio astratto dell’economia e del diritto subisce una correzione, con l’affermarsi della Società Autoritaria, che ripropone rapporti di potere personali, forme di dipendenza servile, figure mitiche di soggettività. In primo piano, nella scena pubblica, restano le relazioni formali del diritto e del mercato; ma, contemporaneamente, si sovrappone ad esse la personalizzazione dei rapporti di potere. Una “decisione politica” viene a sovrapporsi al funzionamento “puro” del diritto e del mercato, per gestire procedure di emergenza continuamente riprodotte o inventate; esse esigono l’intervento di un potere diretto e personale (il carismatico Premier non si è forse precipitato a Napoli per vuotarla della monnezza? L’assai meno carismatico leader del PD non ha imposto forse un decreto d’urgenza per la questione sicurezza, che conteneva una riedizione in sordina delle leggi razziali?). Una mistura di astrazione giuridico-economica e personalità autoritaria caratterizza il regime spettacolare attuale: destinato al governo di una normalità che ormai non è più tale, ma un succedersi di mediocri eccezioni.
Il controllo sempre più soffocante sulla vita, si associa però a una festa spettacolare in cui non ne rimane traccia: il mondo rappresentato nei media è più che mai e sempre di più quello della libertà universale e senza limiti, promessa dall’ideologia della merce. Ciò che è rappresentato è l’inversione di ciò che è reale.

8. La Società Autoritaria procede intensificando, allo stesso tempo, l’atomizzazione e la separazione degli individui e la loro riunificazione immaginaria o fittizia, nelle immagini carismatiche dei leader o in quelle mediatiche della televisione. Una tendenza all’individualismo narcisistico e illimitato si salda così a una tendenza complementare al dispotismo. Quanto più si urla in tutte le piazze “Consumate e arricchitevi”, tanto più il successo e la gestione delle ricchezze sono affidati a una elite preselezionata e precotta, indegnamente legata da fili familistici e clientelari; l’uguaglianza immaginaria di fronte al denaro e al consumo nasconde la sempre più feroce disuguglianza reale. Raramente un regime politico ha intrattenuto una così sistematica dissociazione tra la psiche e la soggettività dei suoi membri e le gerarchie reali del potere. In tale scissione permanente tra il desiderare e il potere, è del tutto ovvio che la corruzione pubblica e privata si propaghi come unica forma di mobilità sociale, che il vendere se stessi appaia come uso tollerato; che a spettacolari ascese si accompagnino terrificanti cadute, esse stesse destinate a mantenere vivo il meccanismo (e le vendite) dei media spettacolari. Atomizzazione e dispotismo sembrano messaggi contraddittori; ma congiungendoli insieme la Società Autoritaria riesce meglio a spezzare la forza di resistenza del singolo e la sua capacità di unirsi a coloro che sono offesi ed oppressi quanto lui.

9. I partiti della Sinistra non hanno compreso la natura spettacolare della Società Autoritaria; sono entrati, come i poveri cristi a un banchetto di signori, nelle giunte, nel parlamento, nel governo. Si sono cioè identificati anima e corpo con gli istituti di rappresentanza formale dello Stato, nel momento in cui in verità questi non contano e non decidono più nulla. Hanno creduto allo spettacolo della politica, come se fosse la più rocciosa e indiscutibile delle realtà: hanno accettato cariche presidenze, ministeri, assessorati, come se in tali luoghi fosse ancora possibile esercitare il potere: più che una volontà, vediamo qui una nostalgia di potenza, che la cerca dove non ne rimane un’ombra. Afflitti dalla scomparsa del passato, i gruppi dirigenti della Sinistra sono rimasti legati alla forma del Partito, riflesso e premessa delle rappresentanze statali; mentre queste svanivano di fronte ai poteri paralleli e allo “spettacolo” della Società Autoritaria. Mentre i concorrenti del Pd almeno miravano dritto all’oro di una banca, la sinistra si accontentava della carta stagnola delle cariche parlamentari: così mostrando di credere più al fantasma spettacolare dell’unità nazionale, che al conflitto di classe sempre meno rappresentato, e sempre meno visibile, in atto nella realtà.

10. Il rifiuto della violenza come strumento della lotta politica deriva dal suo elemento ripetitivo e mimetico. La risposta alla violenza tende a perpetuarla, assimilando i modi stessi dell’aggressore. La militarizzazione della lotta politica tende a sospendere quei diritti e quel rispetto della vita, che si volevano, all’inizio, salvaguardare. Essi restano –al massimo- il fine remoto dell’azione; ma nel frattempo viene usata, come mezzo, la violenza stessa dell’aggressore, si deve sospendere, per un tempo indeterminato, il rispetto dei diritti umani. In tale tempo, la risposta diviene speculare e simmetrica all’atto aggressivo. Siamo talmente assorbiti dai mezzi, da dimenticare completamente i fini.
D’altra parte, la risposta non violenta all’oppressione non ha nulla del conformismo legalista: essa comporta la sospensione continua delle leggi e degli ordini, che permettono il dispiegarsi dell’azione violenta. La disobbedienza civile, la non collaborazione, il boicottaggio, lo sciopero selvaggio, generale o generalizzato, sono i principali strumenti di lotta non violenta, proposti da Gandhi: in effetti, la non violenza va intesa come il rispetto senza riserve dell’integrità fisica e psichica di qualunque essere umano. Se tuttavia uno sciopero produce danni al denaro o alle macchine dell’oppressore, ciò è assolutamente legittimo: forse che il denaro ha carne e sangue, che soffrono? O le macchine hanno un’anima tenera, che non si può offendere? Gandhi ha così riassunto il concetto di non violenza: “Un vero seguace della resistenza civile si limita a ignorare l’autorità dello Stato. Egli si pone al di fuori della legge rifiutandosi di obbedire a tutte le leggi immorali dello Stato…Quando un insieme di uomini cessa di riconoscere lo Stato sotto il quale fino ad allora ha vissuto, ha quasi creato un suo nuovo Stato”.
A differenza da Gandhi, tuttavia, pacifisti radicali (come Simone Weil e Dietrich Bonhoffer) ritennero legittima la violenza di resistenza contro un regime di genocidio sistematico o contro la pratica generalizzata dei campi di sterminio. Si può ritenere che di fronte alla pianificazione della stessa scomparsa dell’umano, e solo in tal caso, la violenza di resistenza divenga un male inevitabile.

11. Alla Società Autoritaria si contrappone la Democrazia Insorgente. Essa porta alla luce il conflitto latente nella realtà sociale, sottratto alla visibilità da rappresentazioni smortamente conciliative e ipocritamente “buoniste”; dà voce e articolazione alla lotta dei “senza parte”, e cioè di coloro che sono di fatto esclusi dalla cittadinanza e ancor più dall’elite dominante; impedisce che il conflitto sia risolto dalla polizia di stato o rimesso al puro arbitrio dei rapporti di forza. E’ lecito immaginare istituzioni democratiche diverse da quelle dello Stato, in cui sia possibile prendere decisioni che riguardano l’essere-in-comune, rispettando la differenza dell’altro, e la specificità dell’ambiente sociale in cui deve essere assunta la decisione. Al decentramento –ovunque possibile- delle decisioni politiche, meglio corrispondono istituzioni partecipative, invece che parlamentari; esse hanno fatto la loro comparsa nelle insorgenze rivoluzionarie del 900 e affiorano in movimenti di lotta vivi oggi in diversi luoghi del mondo. E’ un’utopia? E forse lo “Stato sociale” non è la più tramontata delle utopie? E lo “Stato democratico” non sta seguendo la stessa sorte? Almeno l’istituzione partecipata mira a trasformare in modo nuovo l’esistente e il futuro, a definire una nuova condizione di cittadinanza. Il realismo politico è tale solo in apparenza e non fa che aggrapparsi a forme di fatto già liquidate dalla storia, come lo Stato Nazione, subordinato alla logica economica mondiale e globale. Non si è visto forse il ministro nazional-popolare Padoa-Schioppa eseguire come uno zelante funzionario gli ordini suicidi della Banca Centrale Europea?

12. Esiste in Italia una rete possibile di presidi, movimenti locali e di base -come in val di Susa e a Vicenza-, Centri sociali, Cantieri autonomi, che potrebbero scegliere la forma della democrazia insorgente, abbandonando rappresentanze formali vuote. L’azione politica dev’essere, ovunque possibile, radicata nel “sito”, nella specificità del luogo e dell’ambito vitale, in cui sono coinvolti i suoi attori. L’azione politica è sempre “situata” e rigorosamente tempestiva in una situazione data. Il “sito” è l’essere-in-comune dove gli umani possono convenire insieme, rovesciando i rapporti asimmetrici di potere; l’azione politica si radica indissolubilmente alla specificità del “sito” in cui interviene. In Italia questi luoghi specifici di resistenza e di azione politica sono sparsi e diffusi a livello molecolare. Come collegarli in una forma comune, senza ricadere nell’ottica ingannevole dei Partiti e delle istituzioni dello Stato? Occorre, in primo luogo, definire il principio regolatore di un’attività politica possibile: l’unità di misura di questo agire sarebbe una comunicazione orientata a persuadere l’altro, piuttosto che a determinarne la sottomissione in un rapporto di servitù; ma d’altra parte, questa persuasione per comunicazione non ha nulla di idilliaco, non è garantita da nessuna “expertise” e si scontra duramente con i poteri gerarchici effettivamente esistenti. Se il dialogo è al principio della democrazia, esso apre il suo spazio all’interno del conflitto col potere, e la democrazia è costitutivamente e inevitabilmente “insorgente”.

13. L’”insorgenza” definisce quei momenti di cesura della storia, in cui –nell’intervallo tra la crisi di un vecchio regime e il costituirsi di nuove istituzioni- si è tentata la via di una comunità politica determinata dalla persuasione comune, e non dai rapporti di dominanza. C’è sempre l’eventualità che la deliberazione comune si irrigidisca in struttura astratta, che l’altro ricada nel medesimo, che i molti vengano ricondotti all’Uno. La democrazia insorgente non è una forma data una volta per tutte, ma l’opera continua di trasformazione del potere in libertà, della disuguaglianza in eguaglianza. E’ un processo, non uno Stato, e non ha mai termine definitivo. E’ in questo eccesso e in questo scarto, che Marx vedeva il significato irripetibile della Comune di Parigi. La “Costituzione comunale” si proponeva infatti esplicitamente di sfuggire all’autonomizzazione e all’irrigidirsi delle forme politiche, rispetto ai “molti” da cui esse erano state originariamente promosse. Le democrazie insorgenti non distruggono solo un regime autoritario, ma combattono la tendenza a solidificare la rivolta in nuove forme di astrazione, di dominio dell’Uno sui molti.

14. Quando oggi la democrazia spettacolare viene presentata come uguaglianza realizzata, questa è menzogna ed illusione; perché alla sua base sussiste un torto e una disuguaglianza sostanziale. Tuttavia, l’esistenza di questo torto non rende inutile il parlare di democrazia, ma ne costituisce l’essenza politica profonda: la democrazia non è uno Stato realizzato, ma il processo rivoluzionario grazie al quale i senza parte acquistano consapevolezza di sé e pretendono di rovesciare il rapporto di disuguaglianza in cui si trovano. Se l’uguaglianza è riconosciuta come principio, ma in effetti lo Stato esclude una parte dei senza parte dalla cittadinanza, allora chiederne un’applicazione più completa ed estesa significa riattivare il conflitto tra chi è privo di diritti e chi li possiede. Come ha mostrato Jacques Rancière nel caso del proletariato e del movimento delle donne, il riconoscimento formale del principio d’eguaglianza inaugura lo spazio in cui il torto può essere riconosciuto come tale, in cui si apre il disaccordo e il conflitto perché l’eguaglianza venga effettivamente realizzata. Battendosi per la cittadinanza e l’eguaglianza i “senza parte” si riconoscono come soggetto insorgente, in una consapevole lotta di classe e pongono le condizioni comunicative e simboliche della loro liberazione.
La democrazia è per sua essenza la rivendicazione di un torto e l’attivazione di un conflitto. La democrazia iscrive nel centro stesso dell’azione politica il disaccordo, il riconoscimento e il rifiuto del torto, la negazione della disuguaglianza. Nell’insorgenza democratica –che non può essere ridotta alla sola emancipazione economica- il popolo diviene ciò che prima non era, grazie all’articolazione linguistica e politica del suo diritto all’eguaglianza: soggetto riconosciuto come tale, uscito dalla sua condizione di minorità. Iscrivendo nel diritto scritto la rivendicazione di eguaglianza, i senza-parte escono dal loro mutismo dominato, divenendo consapevoli della propria potenza costituente. Il popolo, il demos, tende a essere sempre o più di se stesso –senza parte che divengono soggetto politico-, o meno di se stesso –plebe e massa amorfa, passiva materia di dominio.

15. Nel 1832, durante un processo, il rivoluzionario Auguste Blanqui –richiesto della sua professione- rese la risposta simbolica: “proletario” e costrinse la corte a riconoscere l’esistenza di un soggetto, che –in quanto tale- non ne possedeva alcuna. Proletario significava infatti semplicemente colui che non ha nulla e non significa nulla; nella risposta di Blanqui, diventa un soggetto di diritti, che richiede il riconoscimento della propria eguaglianza. In una insorgenza rivoluzionaria, affermarsi come soggetto di diritti è altrettanto importante che impadronirsi dei mezzi di produzione. Aver trascurato questa verità, affidandosi all’automatico intensificarsi della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, costituisce una delle debolezze maggiori del marxismo; mentre Marx stesso nei suoi scritti sulla Comune poneva la questione dei diritti politici e dell’uguaglianza al centro della sua riflessione. La fiducia cieca nel progresso tecnico, nello sviluppo ad ogni costo, nella crescita continua dei mezzi di produzione e nel suo sbocco rivoluzionario, costituisce l’utopia delusa del marxismo; mentre invece la lotta di classe conserva la sua bruciante attualità come nucleo profondo dell’azione politica. Cosa dovrebbe rispondere oggi un “senza parte” posto nelle stesse condizioni di Aguste Blanqui? Forse dovrebbe rivendicare con orgoglio simbolico di essere “Clandestino”, fuori delle leggi attuali dello Stato e disposto a lottare per un essere sociale in cui venir riconosciuto a pieno titolo “Cittadino”. Il passaggio dalla clandestinità alla cittadinanza è oggi un passaggio politico rivoluzionario, e riguarda in primo luogo i migranti e gli esclusi, ma anche tutti coloro che una condizione crescente di precarietà priva di luogo, di radice, di legame a un ambiente riconosciuto e riconoscibile di vita; vite e lavori precari, cui è impedito ogni progetto, che non sia la chiacchiera spettacolare; uomini cui è stato sottratto, in senso letterale, il tempo futuro e –con esso- il respiro della speranza.

16. Alle politiche della Società Autoritaria –realizzate da feroci politici clown- occorre rispondere con una ripresa espansiva del diritto di cittadinanza. Il lavoro politico democratico mira a costruire l’identità di una parte dei senza parte e includere in essa sia gli immigrati privi di diritti, che gli Italiani colpiti e immiseriti dalla nuova struttura gerarchica del potere. La loro divisione è mantenuta e coltivata con tutti i mezzi della società spettacolare, oltre che con l’uso sempre più frequente dello stato d’emergenza e di “insicurezza”.
Dentro o fuori le istituzioni esistenti, l’importante è che l’azione politica produca “inclusioni d’eguaglianza”. Da questo punto di vista i diritti dell’uomo e del cittadino non possono certo divenire un feticcio, buono a nascondere la disuguaglianza economica; ma possono essere uno strumento di riconoscimento identitario e di soggettivazione egualitaria dei senza parte. L’emancipazione sociale non può essere disgiunta dall’emancipazione politica, dalla lotta contro la caricatura del diritto imposto dalla Società Autoritaria.

17. In una nuova definizione del diritto di cittadinanza non si può prescindere da una “coscienza di luogo”. La parola “cittadino” allude oggi non solo al riconoscimento astratto e giuridico dell’eguaglianza e delle pari opportunità di lavoro e di vita (benché anche queste siano sempre più disattese dalla politica della Società Autoritaria), ma anche alla condizione concreta di “abitante della città”, una condizione materiale non vincolata al ciclo del capitale e alla produzione di valore. Ogni uomo ha diritto in primo luogo alla conservazione e alla salvaguardia dell’aria, della terra, dell’acqua e del fuoco (energia) del luogo in cui vive. Questo diritto elementare, base di ogni altro, gli è oggi negato da una sfruttamento illimitato delle risorse, retto dalla logica dello sviluppo e del profitto, che entra in contraddizione con la possibilità stessa della vita. La cittadinanza presuppone la salvaguardia del luogo e la cura per la sua qualità di vita. Essa non può essere limitata dall’etnia, dalla religione, dalla cultura di origine. Chi lavora e abita in un luogo ha diritto di partecipare alle assemblee, ai presidi, all’elettorato attivo e passivo, alla gestione delle vie di comunicazione, della sanità e dell’informazione del luogo di cui condivide il futuro ed ha il dovere di preservarne la qualità di vita e le risorse naturali. Egli è responsabile, in quanto cittadino, dei diritti e dei doveri che la sua appartenenza al luogo comporta. Il compito più urgente della democrazia insorgente è la richiesta della cittadinanza piena per i migranti che svolgano un lavoro lecito e utile in tutto il territorio italiano (intendendo con ciò la concessione dei diritti civili, politici e sociali). La definizione di lavoro “utile e lecito” richiede d’altra parte l’eliminazione del lavoro “nero” e clandestino e il riconoscimento della pari dignità di ogni lavoratore, del suo reddito minimo garantito: e inoltre l’abolizione di ogni forma di sfruttamento e di licenziamento sottratta al controllo delle leggi.

18. La salvezza delle risorse naturali dal modello economico che oggi le consuma richiede a un tempo, senza contraddizione, la “coscienza del luogo” in cui si vive, e il riconoscimento del diritto universale alla sopravvivenza della vita. Tutelando l’acqua e l’aria del paese o della valle in cui abito, contribuisco anche, come cittadino, alla difesa dell’acqua e dell’aria come beni universali, come risorsa comune e condivisa. Sempre più si intensificherà lo scontro tra gli Stati-funzione del capitale, che mirano all’incremento illimitato dello sfruttamento economico, e gli interessi vitali dei cittadini, che non vogliono vivere in un territorio desertificato o cementificato o ridotto a cumulo di rifiuti. Tra breve si imporrà una scelta radicale tra una tecnica guidata dalla volontà di potenza sulla natura e orientata al suo sfruttamento illimitato, e una tecnica che si ponga al servizio della qualità dei beni piuttosto che della loro quantità. Ciò non comporta affatto il rifiuto della scienza e della tecnica, ma –al contrario- un salto di paradigma nella loro struttura e nella loro finalità, una svolta copernicana già altre volte avvenuta nella storia dell’umanità. L’apparato tecnico deve essere adeguato alle attuali necessità vitali degli esseri umani e non viceversa.

19. Presidi, cantieri, consigli, municipi partecipati, si radicano nella realtà e nella coscienza del luogo, e vi difendono beni universali condivisi. La coscienza del luogo richiede perciò momenti di riconoscimento e di articolazione in cui le diverse realtà prendano contatto l’una con l’altra, e sostengano una lotta e un’iniziativa comuni. E’ possibile pensare a una Assemblea Costituente, in cui ogni presidio o comune mandi i propri delegati a rappresentarlo; ma essi sarebbero soggetti a un mandato imperativo e la loro nomina sottoposta a revoca in ogni momento, su richiesta della maggioranza dei cittadini che li hanno delegati. Un patto federativo può essere la base di una democrazia insorgente, fondata sui luoghi dove le comunità e le persone si formano, vivono, agiscono: le città e i territori.

20. In uno dei momenti più cupi della storia del 900, Walter Benjamin scriveva che la rivoluzione non era paragonabile alla locomotiva del progresso lanciata a folle velocità verso l’avvenire, ma piuttosto a un freno d’emergenza, che occorreva azionare, per impedire la catastrofe prodotta dal capitalismo; solo opponendo il principio del limite e del rispetto della vita a quello dello sviluppo e del profitto illimitato sarebbe possibile sperare ancora nella salvezza della terra. Questo compito è urgente e non rinviabile: il senso del nostro agire politico, e forse della nostra intera esistenza, dipende dalla tempestività e dall’efficacia della nostra insorgenza.

Avvertenze. Il termine “democrazia insorgente” è stato proposto da Miguel Abensour. La riflessione sulla democrazia come disaccordo, come torto e “parte dei senza parte”, è stata sviluppata da Jacques Rancière. “Coscienza di luogo” è un concetto proposto da Pierluigi Sullo. La riflessione sulla società dello spettacolo ha come principale riferimento Guy Debord. La complementarità fra atomizzazione e dispotismo risale a un testo di Tocqueville studiato da Claude Lefort. In un punto del testo viene utilizzata una frase di Hegel sul crollo dell’Ancien Régime. Si sono tenute presenti le Tesi sul nuovo fascismo, pubblicate anni fa dalla rivista “Luogo Comune”.

30 gennaio 2009

CS-VE_Riunione del 19 gennaio 2009

Cantieri
Sociali Venezia
seminario sul PTCP – 19 gennaio 2009

Presenti

Paolo Cacciari - Cantieri Sociali;
Oscar Mancini - CGIL Veneto; Eliana Caramelli - Cantieri Sociali Est
Nord; Mattia Donadel- Coordinamento comitati e associazioni riviera
del Brenta e milanese; Ilaria Boniburini - Eddyburg / Zone onlus;
Annalisa Turchetto - Forum 11 ottobre; Salvatore Lihard - Forum 11
ottobre; Stefano Boato- Università IUAV; Aldo Bastasi-Forum 11
ottobre; Andrea Dapporto- CGIL Venezia / Sinistra democratica;
Cristiano Gasparetto - Italia Nostra; Carlo Costantini - Comitati
provincia di Rovigo, Cavarzere e Cona; Roberta Manzi - Laboratorio
Mirano Condivisa; Gianni Veneziane - Forum 11 ottobre; Roberto
Coletti - PRC Mestre centro; Orazio Dalla Tor-PRC Favaro Veneto; Gino
Cester -PRC Dese; Angelo Nordico -Laboratorio Mirano Condivisa;
Danilo Fassan -Forum 11 ottobre; Armando Danella

Sintesi della discussione


1.Apre la riunione Cristiano Gasparetto:
il PAT-Venezia è stato approvato dalla Giunta e andrà in Consiglio per adozione a breve. Dal momento dell’approvazione si hanno 60gg per presentare le osservazioni. Occorre quindi cominciare a studiare anche i documenti del PAT per poter avere il tempo di stilare osservazioni comuni e condivise dai vari gruppi e comitati.

2. Relazione di Carlo Costantini sull’analisi della documentazione dei documenti del PTCP (relazioni + Norme Tecniche), condotta insieme ad Andrea Dapporto al fine di presentare entro il 16 febbraio le osservazioni.

Problematica generale: tra i propositi del piano (obiettivi della relazione illustrativa) e le norme di attuazione c’è un divario notevole. I buoni propositi, generalmente condivisibili,
non sono stati tradotti in norme cogenti, ma si lascia sostanzialmente ai Comuni mano libera di agire.

Problemi specifici riguardano tre questioni principali: a) gli insediamenti di importanza strategica (Veneto City e Tessera); b) le infrastrutture (Romea Commerciale; Alta Velocità; Collegamento Chioggia-Padova); c) la laguna.
1. Tessera e Veneto City: presentano situazioni simili da un punto di vista della loro trattazione nel piano. Sono due insediamenti/interventi di carattere strategico la cui risonanza/ricaduta/conseguenze vaben oltre l’insediamento stesso e i confini comunali, ma sono entrambe etichettate dal piano con simboli piuttosto vaghi, che permettono lo sviluppo, ma senza definirne i limiti e quindi lasciando tutto molto aperto agli interessi che man mano possono farsi avanti. In particolare per Tessera gli interventi relativi alle connessioni con l’aeroporto e agli impianti sportivi fa presagire scenari che vanno oltre la dicitura “Polo
terziario”, anch’essa peraltro ambigua.

2. Infrastrutture
Romea Commerciale: sostanzialmente le due ipotesi continuano ad essere lasciate aperte, il piano non indica una scelta e non prescrive nulla, lasciando di nuovo alla pianificazione subordinata decisioni di valenza invece territoriale e di area vasta.
Alta Velocità: Dovrebbe da PD a VE correre a fianco del sedime dell’attuale ferrovia, per proseguire oltre in direzione aeroporto lungo un tracciato alquanto contestato (Chisso e gruppi locali) in quanto prevedrebbe la demolizione di circa 2000 abitazioni. Dalle carte del PTCP non è possibile verificare le ricadute di questo tracciato, occorre sentire dai gruppi locali che conoscono con maggior precisione la localizzazione degli interventifuturi.
Collegamento Chioggia-Padova: tramite ferrovia, e sembra confermare quanto già previsto dallo stesso PTCP di Padova. Ma altri collegamenti come ad esempio quello con Mestre dovrebbero invece essere inclusi, ma non sono così espliciti.

3. Laguna:
Questo aspetto va approfondito da altri esperti, le questioni riguardano soprattutto la salvaguardia, la mobilità (sub lagunare, idrovia) e i porti (Chiggia-Porto Levante e Marghera). Il PTCP come più volte rilevato, manca di prescrizioni volte alla salvaguardia ambientale della laguna e dell’habitat naturale ad essa connessa. Manca di indicazioni generali, strategiche, riguardanti la navigazione su vasta scala, ma inserisce “tratti” puntuali di collegamento tra alcune zone che lasciano di nuovo aperto, non definito lo sviluppo della
mobilità. Le relazioni a livello territoriale-regionale del polo Chioggia-Porto Levante non sono affrontate, di nuovo manca un disegno generale, indicazioni precise e prescrizioni.

Altre questioni e suggerimenti operativi:
1. Per le grandi questioni relative alla zona del Brenta dovremmo sentire le osservazioni che propongono i comitati locali.
2. Le osservazioni potrebbero essere di due tipi: a) da una parte proporre di stralciare Tessera e Veneto City; b) dall’altra utilizzare osservazioni PTCP per interdire eventuali sviluppi in altre direzioni, introducendo limiti e condizionamenti agli interventi.
3. per le questioni sul Veneto orientale e le infrastrutture dovremmo sentire da Marco Favaro e i gruppi locali.
4. Stefano Boato dovrebbe approfondire la questione Laguna.

Bozza delle osservazioni preparate da CC e AD:
La prima bozza è stata inviata oggi e ulteriori aggiornamenti verranno inviati di volta in volta. Si sono introdotte integrazioni, modifiche alle Norme in modo che queste possano diventare strumenti concreti per la realizzazione degli obiettivi di: tutela, contenimento dello sviluppo urbano (consumo di suolo) e dimensionamento adeguato.
Le norme si dividono in: indirizzi, obiettivi, direttive e prescrizioni.
Non c’è nessuna norma cogente che riguarda il periodo tra l’approvazione e l’adozione del piano, fatto grave perché il periodo potrebbe essere lungo e nel frattempo, in assenza di norme di salvaguardia, tutto potrebbe succedere.
Sono state tradotte in osservazioni puntuali, laddove era appropriato, tutti i punti riassunti nella lettera inviata ai consiglieri provinciali, in modo che le norme diventino coerenti con
gli obiettivi.

3. Intervento di Stefano Boato.
1. Anche quelle che sembrano non-scelte del PTCP hanno importanza, e sono esse stesse delle scelte. Le scelte insediative come quella di Veneto City sono delle follie prima di tutto di ordine giuridico/processuale, perché la Provincia non potrebbe avviare un processo di sviluppo insediativo di questo genere.
2. Ci sono due ordini di problemi: quello che nel PTCP c’è (Veneto City, Tessera, ecc.) e non è normato, definito, ma lasciato sostanzialmente ad uno sviluppo casuale e quindi soggetto
ad interessi particolari; e tutto quello che nel PTCP non c’è e dovrebbe esserci, che serve per soddisfare esigenze sociali e infrastrutturali di prima necessità a partire dalla mobilità
e la FSMR.
3. Le osservazioni devono innanzitutto preoccuparsi di essere chiare, dirette, non mistificabili, che vanno al punto e fanno capire esattamente quello che si vuole raggiungere. Non ha importanza in questa fase scriverle in gergo giuridico. Se c’è la volontà politica (come è necessaria) di recepirle ci sarà anche qualcuno nell’ufficio che tradurrà le osservazioni in norme ad hoc.
4. Mancano tutte le norme di salvaguardia ambientale


4. Intervento di Mattia Donadel.
Due tipi di azioni in corso per PTCP:
a) azioni di disturbo; b) azione politica.
In merito ai contenuti del PTCP le osservazioni sono a tre livelli
1. osservazioni generali: sui concetti, gli obiettivi e l’impostazione del Piano
2. osservazionipuntuali sulle norme
3. osservazioni di merito su questioni specifiche locali
Le azioni di disturbo vogliono essere delle azioni che intralciano l’iter di approvazione del piano. L’obiettivo è quello innanzitutto di evidenziare punti deboli e contraddizioni nel
piano stesso, cercando per esempio, sovrapponendo le varie carte tematiche, di trovare incongruenze tra interventi proposti/auspicati e vincoli (idrologici, ambientali, ecc.).
Per il 2 febbraio si sta organizzando, in occasione dell’inaugurazione del passante, un’iniziativa: l’allestimento di un Gazebo dove tutti i cittadini possono essere informati sul PTCP e firmare una o più delle tante osservazioni al PTCP proposte dai comitati, messe su appositi fogli. Tutte i fogli firmati saranno poi portati, da una delegazione dei
comitati, in provincia.
L’avv. Cacciavillani sta lavorando ad alcuni aspetti delle norme, analizzandole soprattutto da un punto di vista giuridico-procedurale, di nuovo per evidenziare difetti, incongruenze
e errori giuridici che potranno essere impugnati in una fase successiva.
Inoltre propongono di inserire all’interno delle osservazioni delle proposte di piano alternative a quelle esistenti. Anziché ‘solo’ tracciare le proposte del piano, fare osservazioni
contenenti delle contro-proposte.
Domande: che peso hanno i vincoli?

5. Intervento di Stefano Boato che risponde alla domanda sui vincoli:
essi si distinguono in assoluti e relativi ovvero subordinati all’approvazione dei enti competenti. Ovviamente questi ultimi potrebbero essere aggirabili, come peraltro accade. Nel senso che l’ente, vedi Genio Civile in materia idrologica, nonostante il vincolo potrebbe consentire comunque l’intervento.

6. Intervento di Armando Danella sulla questione Laguna e Mose.
1. Con le osservazioni si possono e si devono inserire prescrizioni precise perché oggi, a differenza di anni fa, sappiamo come stanno le cose, conosciamo la laguna e le sue problematiche molto bene, anche se le forze politiche hanno e continuano a sottovalutare e non farsi carico di queste cose. Occorre utilizzare gli studi, le competenze e le conoscenze acquisite sulla laguna per inserire nelle osservazioni tutte le prescrizioni necessarie per
tutelare la laguna come ecosistema, mettendo quindi anche in discussione elementi come il turismo, la pesca, la navigazione, etc.
2. Con il progetto Mose inoltre abbiamo un elemento, un dato in più, perché l’ingessatura del Mose trasforma una variabile dipendente, quella dei flussi, in una variabile indipendente perché definita dal Mose attraverso le bocche di porto. Visto che questa variabile ora è data, non è più dipendente da fenomeni naturali ma dall’intervento meccanico, occorre agire
sulle altre variabili per salvaguardare la laguna.
3. Il PTCP da’ per scontato l’iter del Mose, ma le gare d’appalto per le opere tecnologiche non saranno fatte nei tempi previsti e comunque non prima della scadenza delle osservazioni. Quando ci sarà la gara emergeranno per forza, come già evidenziano studi e pareri di alcuni esperti, gli errori e le indicazioni errate contenute nel progetto, che costringeranno la revisione dei progetti tecnici. Questa revisione avrà bisogno di una variante in corso d’opera. Questo riaprirà la discussione circa il funzionamento del Mose stesso e rimette in campo alcuni dati che ora il progetto da’ per scontati. Le osservazioni, possono contenere prescrizioni tali da poter incidere in questo senso? Occorre lavoraci su.

7. Intervento di Dalla Tor. Quartiere Favaro, occorre qualcuno che ci possa dare una mano per capire e colmare vuoti, in quanto vogliamo fare un’assemblea e informare la gente sul quel che accade, in particolare per l’area di Tessera. Ci sono tante questioni, ma
forse occorre partire dai dati/statistiche: qual è il fabbisogno reale che giustifica lo sviluppo- estensione prevista dal PTCP?

8. Intervento di Paolo Cacciari. Scadenze e operatività:
1. Entro il 16 febbraio occorre depositare le osservazioni
2. Questo Gruppo di lavoro può fare da “cassa di risonanza” per tutte le osservazioni fatte dai Comitati. Propone quindi che Venerdì 13 febbraio si organizzi una conferenza stampa, per una presentazione pubblica delle osservazioni, riprendendo le cose più volte dette. Da una parte la critica generale al Piano (la mancanza di una visione e di una strategia ampia coordinata con il Piano Regionale, la povertà culturale e di scelta di fondo che sta dietro, la mancanza di norme di salvaguardia ambientale e la mancanza di volontà di risolvere il problema della mobilità e le esigenze sociali quotidiane. Sostanzialmente riprendendo le questioni scritte da Salzano per la lettera). Dall’altra, oltre a fare degli affondi su stralci specifici del PTCP (es Veneto City), si dovrebbe produrre delle contro-proposte capaci di inserire vincoli a proposte future.
3. Costantini e Dapporto continueranno a lavorare sulle norme ed a inviare le osservazioni in corso.
4. Occorre tenere stretti contatti con comitati, dare supporto alle osservazioni che da loro vengono. Per la provincia orientale facciamo riferimento a Marco Favaro. Per quadrante centrale e sud alcuni rappresentanti dei comitati che sono qui e fanno parte di questo tavolo di lavoro. Occorre recuperare contatti sia a Tessera che con i movimenti legati alla laguna e al Mose (NoMose).
5. Sulla laguna, sottolinea in particolare che si debba riprendere la questione del Parco della laguna, che occorre insistere perché esso venga riconosciuto come tale.

9. Intervento di Cristiano Gasparetto
sottolinea che il lavoro che si sta facendo adesso è importante indipendentemente che queste
osservazioni vengano o meno recepite. Servono per avviare un processo di conoscenza del territorio e di messa a rete di problemi e movimenti e per avviare un più stretto rapporto tra
cittadinanza e istituzioni. Non perdere di vista anche il PAT come detto in apertura.

10. Si sono susseguiti brevi interventi su questioni specifiche, in particolare sul collegamento Chioggia-Mestre e Chioggia-Padova; cosa proporre per la Romea commerciale (messa in sicurezza + adeguamento della Romea esistente)

Prossimo incontro: lunedì 24 gennaio ore 16.30 PUNTUALI perché Cà Badoer chiuse tassativamente alle 19 e quindi non abbiamo molto tempo. La riunione verrà in parte dedicata all’esame del PTCP-Tessera City.

Verbale a cura di Ilaria Boniburini

23 gennaio 2009

Politiche deboli per i debo

di Giovanni Laino
La Repubblica Napoli 22 gennaio 2009

Cresce l’attenzione sul grande deficit di efficacia di una serie di politiche che, pur partendo da idee ed esperienze di alta qualità, si arenano creando disagi proteste. Cercando di evitare le semplificazioni che danneggiano tutti, credo che la diagnosi vada approfondita.
Perché il progetto Chance, i Nidi di Mamme, come un’ampia serie di altri servizi alle persone oppure alcune rilevanti politiche per le periferie a Scampia come a Pianura, dopo una fase di successo, si sono impantanate ? Alcune spiegazioni.
1) Queste politiche vengono realizzate da molti anni secondo la logica ciclica del progetto che è strutturalmente contingente e instabile e quindi va bene solo per i primi anni di sperimentazione. Gli amministratori hanno la responsabilità di aver deciso in ritardo di stabilizzare queste azioni. La loro innovatività è stata riferita al contenuto delle azioni e troppo poco alle necessarie innovazioni delle procedure burocratiche. Gli esperti direbbero: vi è stato poco apprendimento istituzionale.
2) Vi è però una questione di potere.I politici e i funzionari, di fatto ogiscono uno schema che ripropone dipendenza per cui l’ente realizzatore, gli attori intermedi coinvolti e i beneficiari devono di volta in volta, implorare, supplicare, il rifinanziamento dei progetti, presentando benevolmente gli argomenti di tali richieste, cercando di tenerli distinti dalle logiche di appartenenza che invece i politici tendono sempre a riproporre. Per molti funzionari ogni atto amministrativo pur dovuto è un po’ un favore che fanno ai fortunati attuatori.
3) E’ evidente poi una carente cultura della pianificazione e progettazione sociale oltre che del diritto amministrativo. Per troppi amministratori basta una bella idea, confidando poi su di una serie di automatismi che in realtà non sono mai dati. I politici e i funzionari – spesso selezionati secondo logiche di appartenenza più che per provate competenze – in diversi casi scoprono, strada facendo, i tanti vincoli che occorre superare per seguire correttamente le procedure, per rendere effettive le decisioni e i circuiti finanziari delle risorse messe a disposizione. Adottano sempre una inidonea cultura del tempo e quindi, in molti casi, hanno ben poca consapevolezza della rilevanza di tutti i passaggi per l’attuazione, ignorano la rilevanza dell’implementazione delle politiche.
4) Le risorse per queste politiche vengono prese sempre più spesso dal Fondo Sociale Europeo che, soprattutto in Campania, viene gestito con vincoli eccessivi e soprattutto in termini sostitutivi e non aggiuntivi alle risorse ordinarie.
5) Rispetto alla penuria di risorse e alla tipica sottofinanziarizzazione delle imprese sociali nel Sud, con l’assenza del sistema bancario e la debolezza di Banca Etica, gli attori non hanno ancora compreso e preso atto che è necessario occuparsi molto seriamente della disponibilità per cassa dei soldi, per evitare che i lavoratori e i fornitori dei beni necessari per realizzare le azioni, debbano aspettare tanti mesi per fare un lavoro impegnativo e rilevante.
In sintesi quindi: le politiche di coesione, pur sostenute retoricamente, sono di fatto politiche deboli. Le innovazione nelle politiche sociali e formative hanno solo sfiorato i decisori e prevale invece una visione esortativa, occasionale, paternalistica. Per i deboli si attuano politiche deboli. L’attenzione dei politici torna nei momenti in cui vi è un possibile profitto in termini simbolici e di consenso. In generale poi non vi è alcuna cura per l’attuazione e la manutenzione dei processi. I ritardi e le inefficienze determinano perdita di innovazione, di fiducia e motivazione. Nell’ideazione, nel disegno e soprattutto nell’implementazione delle politiche, manca la necessaria cura nel fare le cose, l’attenzione alle qualità, l’impiego di competenze idonee messe a lavoro con spirito di servizio pubblico. Un consulente o un funzionario fedele è sempre preferito ad uno più competente ma politicamente autonomo.
A guardar bene si tratta di esercizio del potere, i politici e i funzionari sono ben poco disposti a devolvere potere ad attori innovativi, riconoscendo loro la necessaria autonomia e quindi non hanno intenzioni di renderli effettivamente autonomi dal sistema politico amministrativo, preferendo rapporti di dipendenza.

21 gennaio 2009

Israele parli anche con Hamas

di David Grossman

Come le volpi del racconto biblico di Sansone, legate per la coda a un'unica torcia in fiamme, così noi e i palestinesi ci trasciniamo l'un l'altro, malgrado la disparità delle nostre forze. E anche quando tentiamo di staccarci non facciamo che attizzare il fuoco di chi è legato a noi - il nostro doppio, la nostra tragedia - e il fuoco che brucia noi stessi. Per questo, in mezzo all'esaltazione nazionalista che travolge oggi Israele, non guasterebbe ricordare che anche quest'ultima operazione a Gaza, in fin dei conti, non è che una tappa lungo un cammino di violenza e di odio in cui talvolta si vince e talaltra si perde ma che, in ultimo, ci condurrà alla rovina.

Assieme al senso di soddisfazione per il riscatto dello smacco subito da Israele nella seconda guerra del Libano faremmo meglio ad ascoltare la voce che ci dice che il successo di Tsahal su Hamas non è la prova decisiva che lo Stato ebraico ha avuto ragione a scatenare una simile offensiva militare, e di certo non giustifica il modo in cui ha agito nel corso di questa offensiva. Tale successo prova unicamente che Israele è molto più forte di Hamas e che, all'occasione, può mostrarsi, a modo suo, inflessibile e brutale.

Allo stesso modo il successo dell'operazione non ha risolto le cause che l'hanno scatenata. Israele tiene ancora sotto controllo la maggior parte del territorio palestinese e non si dichiara pronto a rinunciare all'occupazione e alle colonie. Hamas continua a rifiutare di riconoscere l'esistenza dello Stato ebraico e, così facendo, ostacola una reale possibilità di dialogo. L'offensiva di Gaza non ha permesso di compiere nessun passo verso un vero superamento di questi ostacoli. Al contrario: i morti e la devastazione causati da Israele ci garantiscono che un'altra generazione di palestinesi crescerà nell'odio e nella sete di vendetta. Il fanatismo di Hamas, responsabile di aver valutato male il rapporto di forza con Tsahal, sarà esacerbato dalla sconfitta, intaserà i canali del dialogo e comprometterà la sua capacità di servire i veri interessi palestinesi.

Ma quando l'operazione sarà conclusa e le dimensioni della tragedia saranno sotto gli occhi di tutti (al punto che, forse, per un breve istante, anche i sofisticati meccanismi di autogiustificazione e di rimozione in atto oggi in Israele verranno accantonati), allora anche la coscienza israeliana apprenderà una lezione. Forse capiremo finalmente che nel nostro comportamento c'è qualcosa di profondamente sbagliato, di immorale, di poco saggio, che rinfocola la fiamma che, di volta in volta, ci consuma.

È naturale che i palestinesi non possano essere sollevati dalla responsabilità dei loro errori, dei loro crimini. Un atteggiamento simile da parte nostra sottintenderebbe un disprezzo e un senso di superiorità nei loro confronti, come se non fossero adulti coscienti delle proprie azioni e dei propri sbagli. È indubbio che la popolazione di Gaza sia stata "strozzata" da Israele ma aveva a sua disposizione molte vie per protestare e manifestare il suo disagio oltre a quella di lanciare migliaia di razzi su civili innocenti. Questo non va dimenticato. Non possiamo perdonare i palestinesi, trattarli con clemenza come se fosse logico che, nei momenti di difficoltà, il loro unico modo di reagire, quasi automatico, sia il ricorso alla violenza.

Ma anche quando i palestinesi si comportano con cieca aggressività - con attentati suicidi e lanci di Qassam - Israele rimane molto più forte di loro e ha ancora la possibilità di influenzare enormemente il livello di violenza nella regione, di minimizzarlo, di cercare di annullarlo. La recente offensiva non mostra però che qualcuno dei nostri vertici politici abbia consapevolmente, e responsabilmente, afferrato questo punto critico.

Arriverà il giorno in cui cercheremo di curare le ferite che abbiamo procurato oggi. Ma quel giorno arriverà davvero se non capiremo che la forza militare non può essere lo strumento con cui spianare la nostra strada dinanzi al popolo arabo? Arriverà se non assimileremo il significato della responsabilità che gli articolati legami e i rapporti che avevamo in passato, e che avremo in futuro, con i palestinesi della Cisgiordania, della striscia di Gaza, della Galilea, ci impongono?

Quando il variopinto fumo dei proclami di vittoria dei politici si dissolverà, quando finalmente comprenderemo il divario tra i risultati ottenuti e ciò che ci serve veramente per condurre un'esistenza normale in questa regione, quando ammetteremo che un intero Stato si è smaniosamente autoipnotizzato perché aveva un estremo bisogno di credere che Gaza avrebbe curato la ferita del Libano, forse pareggeremo i conti con chi, di volta in volta, incita l'opinione pubblica israeliana all'arroganza e al compiacimento nell'uso delle armi. Chi ci insegna, da anni, a disprezzare la fede nella pace, nella speranza di un cambiamento nei rapporti con gli arabi. Chi ci convince che gli arabi capiscono solo il linguaggio della forza ed è quindi quello che dobbiamo usare con loro. E siccome lo abbiamo fatto per così tanti anni, abbiamo dimenticato che ci sono altre lingue che si possono parlare con gli esseri umani, persino con nemici giurati come Hamas. Lingue che noi israeliani conosciamo altrettanto bene di quella parlata dagli aerei da combattimento e dai carri armati.

Parlare con i palestinesi. Questa deve essere la conclusione di quest'ultimo round di violenza. Parlare anche con chi non riconosce il nostro diritto di vivere qui. Anziché ignorare Hamas faremmo bene a sfruttare la realtà che si è creata per intavolare subito un dialogo, per raggiungere un accordo con tutto il popolo palestinese. Parlare per capire che la realtà non è soltanto quella dei racconti a tenuta stagna che noi e i palestinesi ripetiamo a noi stessi da generazioni. Racconti nei quali siamo imprigionati e di cui una parte non indifferente è costituita da fantasie, da desideri, da incubi. Parlare per creare, in questa realtà opaca e sorda, un'alternativa, che, nel turbine della guerra, non trova quasi posto né speranza, e neppure chi creda in essa: la possibilità di esprimerci.

Parlare come strategia calcolata. Intavolare un dialogo, impuntarsi per mantenerlo, anche a costo di sbattere la testa contro un muro, anche se, sulle prime, questa sembra un'opzione disperata. A lungo andare questa ostinazione potrebbe contribuire alla nostra sicurezza molto più di centinaia di aerei che sganciano bombe sulle città e sui loro abitanti. Parlare con la consapevolezza, nata dalla visione delle recenti immagini, che la distruzione che possiamo procurarci a vicenda, ogni popolo a modo suo, è talmente vasta, corrosiva, insensata, che se dovessimo arrenderci alla sua logica alla fine ne verremmo annientati.

Parlare, perché ciò che è avvenuto nelle ultime settimane nella striscia di Gaza ci pone davanti a uno specchio nel quale si riflette un volto per il quale, se lo guardassimo dall'esterno o se fosse quello di un altro popolo, proveremmo orrore. Capiremmo che la nostra vittoria non è una vera vittoria, che la guerra di Gaza non ha curato la ferita che avevamo disperatamente bisogno di medicare. Al contrario, ha rivelato ancor più i nostri errori di rotta, tragici e ripetuti, e la profondità della trappola in cui siamo imprigionati.

Traduzione di A. Shomroni

Dell’equidistanza e dell’equanimità

di Nino Lisi

Sono molti giorni che sento l’urgenza di dire anch’io la mia (si licet parva componere magnis) sul tema dell’equidistanza. Riesco a farlo solo ora, a presidio di Largo Goldoni concluso.
Peccherei di mancanza di franchezza se non dicessi chiaro e tondo d’essere convinto che nel caso di Israele e della Palestina essere equidistanti sia sbagliato e addirittura ingiusto. Per diversi motivi di cui elenco solo quelli che mi sembrano di maggior rilievo.

1. Innanzitutto per lo squilibrio delle forze in campo. Per poter essere equidistanti tra due parti in guerra occorrerebbe che tra esse vi fosse un rapporto di forza sia nel difendersi che nell’attaccare non eccessivamente squilibrato. Mi spiego con un esempio. Si potrebbe mai essere equidistanti da un energumeno e da un bambino se il primo infierisse sul secondo quand’anche questi l’avesse fatta grossa, tale da meritare un castigo e ce l’avesse messa tutta per portare l’energumeno alla esasperazione? Sarebbe lecito non schierarsi a difesa del bambino? Per quel che riguarda i rapporti di forza, è proprio questo il caso di Israele e dei palestinesi: lo squilibrio di forze tra i due viene comunemente dato di 40 ad 1! Gli uni, i palestinesi, sono nella assoluta disponibilità dell’esercito israeliano. Il “si, però” dell’equidistanza fornisce una qualche giustificazione all’uso smisurato della forza da parte di chi è enormemente più forte, come se le ragioni che può addurre valessero in qualche modo a giustificare e legittimare il massacro. E’ su questo che punta il governo israeliano dicendo a papa, cardinali ed ONU di parlare come Hamas. Lo scopo del governo israeliano è di evitare una condanna chiara, esplicita ed universale da parte dell’opinione pubblica, giocando sulla reticenza e l’incertezza di chi ha timore di confondersi con Hamas. L’equidistanza (o equivicinanza che dir si voglia) non è neutrale: gioca a favore del governo israeliano.
2. Manca anche una seconda condizione, a mio avviso necessaria, per motivare l’equidistanza. Che vi sia tra le due parti un sostanziale equilibrio tra torti e ragioni, che come è ben noto non possono dividersi con il taglio netto di un coltello, ma che non per questo è detto che si spartiscano più o meno con egual peso tra i due fronti Nel caso che ci angustia in questi giorni non c’è il benché minimo equilibrio neppure nella spartizione dei torti e delle ragioni. Lo Stato israeliano non ottempera da decenni alle risoluzioni dell’Onu; occupa illegittimamente territori non suoi e di fatto li ha come annessi esercitando un ferreo, opprimente ed illecito controllo sulla popolazione palestinese dei “territori occupati”. (L’insospettabile Sergio Romano ne ha fatto una descrizione puntuale sul Corriere della Sera). E’ vero che Hamas enuncia nel suo statuto il principio della distruzione dello Stato di Israele; ma è egualmente vero che il governo israeliano ha impedito nei fatti ed impedisce ancora che uno stato palestinese possa costituirsi. Il tacito ma palese obiettivo della politica israeliana è che non vi sia mai uno stato palestinese. Un conto dunque sono le affermazioni di principio; un altro i fatti concreti. Non è giusto dare lo stesso peso alle prime ed ai secondi.
3. Non sottovaluto la pesantezza delle condizioni di vita degli israeliani. Sono abbastanza vecchio da aver vissuto alcuni anni sotto la continua minaccia dei bombardamenti aerei e aver trascorso qualche settimana – di giorno e di notte - in un ricovero che avevo contribuito con mio fratello ed i “figli dei carcerati” di un istituto di Pompei a scavare in un costone di tufo. Sono esperienze che non ho dimenticato. So che non si può vivere così. Quando sono stato in Israele ho visto cosa significhi star seduti in un caffè guardandosi continuamente intorno e squagliarsela all’istante per una borsa apparentemente abbandonata su di una sedia. Le mie giovani amiche israeliane, cui sono profondamente legato, non prendono i mezzi pubblici nemmeno a Roma, “perché gli autobus esplodono”. Capisco che è impossibile vivere così. Riconosco che gli israeliani hanno diritto a vivere in sicurezza. Quello che non capisco è come possa pretenderlo per i suoi cittadini lo Stato Israeliano essendo una potenza occupante. Se lo capissi, dovrei disconoscere il diritto di un popolo occupato a ribellarsi all’occupazione ed agire contro l’occupante. Dovrei riconoscere che i nostri partigiani – che qualche nefandezza probabilmente pure la commisero – fossero dei banditi. Dovrei mettere sullo stesso piano occupante ed occupato, oppresso ed oppressore. Come fa l’equidistanza. Mi sembrerebbe profondamente ingiusto.
4. Che la strategia di Hamas possa essere considerata avventurista, cinica, perdente, controproducente può darsi. Ma qualcuno riesce a suggerirne un’altra? La lotta non violenta? Chiedetelo agli amici ed alle amiche di Rachel Corrie, la pacifista statunitense che con il suo corpo faceva da schermo ad un bulldozer israeliano per impedirgli di abbattere una casa palestinese. Chiedetelo alle sue amiche ed amici, perché a lei non potete più farlo: fu schiacciata dal bulldozer.
5. E, visto che mi trovo a parlare di non violenza, aggiungo che credo che essa non abbia a che vedere con l’equidistanza. E’ una forma di lotta che per quel che mi riguarda preferisco, sempre che sia possibile, alla violenza che aborro per natura. Come tutte le lotte è però a favore di qualcosa e qualcuno, contro qualcun altro e qualcosa d’altro. E’ schierata. Non è equidistante. Non mi risulta per altro che Gandi fosse equidistante tra imperialismo inglese e popolo indiano..

Per queste ragioni sono convinto che non si possa e non si debba essere equidistanti. Ma equanimi. Questo si. Cioè non avere pregiudizi, analizzare i fatti con la maggiore imparzialità possibile senza avere il risultato già in tasca. E poi decidere da che parte porsi. Per questo, per equanimità. io oggi sono schieratissimo con i palestinesi, come nel 1967, con eguali passione, convincimento e tormento lo fui con gli israeliani.

Nino

Roma 19 gennaio 2009

Questione lavoro

Questione lavoro

Dal Libro Bianco di Delors (1993) ad oggi le politiche dell’unione europea hanno progressivamente assorbito e fatto proprio il pensiero neoliberista e relegato il riformismo dal volto umano nello spazio angusto delle politiche attive del lavoro, delle politiche ri-educative e formative, delle pari opportunità e della occupabilità. In nome del recupero o del mantenimento degli equilibri monetari e di finanza pubblica, e in nome di una crescita economica fondata sui meccanismi spontanei, sulla centralità e sull’efficienza del mercato e costruita sulla competitività, le politiche rivolte alle regioni d’Europa hanno progressivamente abbandonato l’obiettivo primario del libro bianco, di contrastare la disoccupazione, hanno progressivamente indotto (e da Maastricht in poi vincolato) gli Stati a tenere sempre più stretti i cordoni della spesa pubblica e hanno sacrificato il valore delle garanzie e della remuneratività del lavoro, ritenendole non più sostenibili nel mercato globalizzato.

In più le nostre riforme strutturali nazionali hanno con particolare insistenza operato sul sistema previdenziale, pilastro del nostro sistema di welfare, e sul mercato del lavoro, ovvero il sistema di regolazione della risorsa endogena primaria della nostra economia, e hanno sistematicamente tralasciato di uniformare e riformare gli ammortizzatori sociali, la base di riconoscimento del diritto di ciascuno alla sopravvivenza, alla cittadinanza, all’indennizzo se si perde il lavoro e a lavorare comunque, anche fuori mercato.

Le tracce di prospettiva e di speranza che il libro bianco indicava nei nuovi bacini di impiego, nella cura della persona, dell’ambiente, del territorio, della cultura e in impieghi di utilità concreta, sostenibili con formule di finanziamento e di organizzazione innovative e costi contenuti grazie all’impiego delle nuove tecnologie ICT, sono state cancellate in breve tempo, piegate a scopi diversi o ricondotte ad una logica del tutto diversa e distante da quella che li ispirava, che guardava alla innovazione tecnologica non solo come ad un fattore di risparmio di lavoro ma anche come ad un fattore propulsivo per rendere economicamente sostenibili innumerevoli possibilità di interventi e servizi per il benessere delle persone, dell’ambiente, delle comunità. Dell’idea di workfare così immaginata è rimasta solo la ragione di scambio tra reddito di sostegno e formazione, senza fini applicativi, tra reddito di sostegno e lavoro socialmente utile genericamente definito e generalmente poco qualificato, tra reddito di sostegno e inserimento formativo in azienda, ovvero inserimento gratuito a favore delle imprese. Null’altro che un vincolo punitivo senza dignità né prospettive.

Il sacrificio italiano del welfare e del lavoro alla crescita economica è stato sofferto, con responsabile assunzione di oneri, soprattutto da parte della popolazione meno abbiente e dalle lavoratrici e lavoratori a reddito fisso, in difesa di quanto già si aveva e si era conquistato e con la speranza di un miglioramento. Una speranza riposta nel dinamismo imprenditoriale, nella efficienza dei mercati, nell’attrazione degli investimenti, nel potenziamento delle infrastrutture, nella qualificazione delle funzioni pubbliche, nel miglioramento dei conti pubblici e della finanza privata ed infine nel miglioramento del capitale umano.

In quale parte dell’Italia, quanti e quali di questi effetti di policy siano stati effettivamente raggiunti, o almeno perseguiti in parte, non è oggetto di analisi scientifica e di valutazione da parte delle istituzioni ed è argomento generalmente glissato dal dibattito politico. Ma appare evidente che nel suo insieme la situazione sociale del Paese è peggiorata, con accentuate disuguaglianze sociali e territoriali, allargate aree di povertà e diffusi fenomeni di precarietà del lavoro. Una situazione di crisi che si è materializzata prima ancora che scoppiasse la crisi finanziaria, trovando conferma nelle statistiche ufficiali e nei rapporti sulle condizioni del Paese e assumendo anche una forte e spesso imbarazzante visibilità nel dibattito e nell’iniziativa politica.

Anche in Campania e a Napoli si è consumato questo tipo di sacrificio. La Campania già povera, e povera di lavoro, ha dovuto sacrificare valori di redditività e di sicurezza del lavoro già scarsi; ha dovuto mettere il proprio mercato del lavoro, con i suoi bassi tassi di attività e i suoi alti tassi di disoccupazione, alla prova della esperienza della flessibilità, della competitività e della produttività, ha dovuto sottoporlo alla stretta delle pensioni, dei trasferimenti assistenziali, della moderazione salariale e della precarizzazione. L’accrescimento assoluto e relativo della miseria è il risultato che emerge dall’analisi della contabilità economica, del mercato del lavoro, delle condizioni sociali ed economiche delle famiglie, degli altri indicatori sociali che rappresentano le condizioni di vita e di emancipazione della nostra regione e della nostra città.

Esistono rimedi alla situazione attuale? Tornando a Delors e agli irrisolti problemi della disoccupazione che l’Italia tuttora ha, malgrado gli sforzi di occultamento statistico e con gli immutati caratteri giovanili, femminili e meridionali che aveva nel ’93, oggi aggravati dalla condizione di rilevante crescita di disoccupati nella coorte di età 25-35 anni e per gli ultracinquantenni e dalla prospettiva di una crisi recessiva intensa e prolungata, il punto di partenza è ancora oggi nelle cause della disoccupazione, ed il punto di arrivo è ancora oggi quello di riuscire a produrre, con una crescita sostenibile, maggiore occupazione.

Gli strumenti di incentivo agli investimenti e all’occupazione nella media e piccola impresa, di riduzione dei costi contributivi e fiscali del lavoro per le qualifiche basse, di disincentivo all’incremento di orario lavoro per i percettori di redditi da lavoro superiori alla media, la regolamentazione flessibile dell’orario di lavoro, la riduzione generalizzata della settimana lavorativa e del monte ore annuo con periodi da destinare alla formazione, sono tutti strumenti che si sono persi per strada e che possono essere ripresi in considerazione.

Una più articolata analisi delle cause della disoccupazione dovrebbe inoltre indurre ad un vero e proprio disconoscimento della formazione non finalizzata, della formazione “separata” dal lavoro e sottratta ai lavoratori che dovrebbero esserne sempre i protagonisti, tanto nel ricevere quanto nel dare e fare formazione, della formazione finanziata e remunerata a prescindere dai risultati. Si dovrebbe prendere le distanze da quella impostazione delle politiche imperniata sui fattori che determinano i comportamenti e l’occupabilità dell’offerta di lavoro, su cui si è concentrato per intero, ed in modo interamente sterile, l’impianto ri-educativo e formativo della politica attiva del lavoro in Italia, considerando il comportamento e la qualità dell’offerta come uno tra i tanti aspetti che determinano la disoccupazione, necessario ma non sufficiente e non esaustivo, e al contrario restituendo ai disoccupati la centralità che meritano in quanto fascia sociale in condizioni di disagio materiale, per rispondere su quello che non hanno piuttosto che su quello che dovrebbero avere e restituendo alla formazione il suo ruolo di accompagnamento alle carriere lavorative e di preparazione finalizzata al concreto inserimento lavorativo. Gran parte del costosissimo impianto tecnologico di supporto alla formazione e dello stesso investimento in formazione (circa due miliardi di euro all’anno) potrebbe essere risparmiato se solo si concepisse la valutazione dell’intervento in base al risultato occupazionale secco e scattassero, ad esempio, meccanismi di risarcimento in caso di esito mancato.

Anche sulle politiche dell’offerta, intese come risposta ad un bisogno, il libro bianco formulava indicazioni di policy del tutto diverse che puntavano non tanto sulla formazione e l’orientamento dei disoccupati (a che?) quanto su maggiori efficienze delle politiche di indennizzo e di sostegno al reddito strettamente coniugate alla valorizzazione delle politiche sociali, del terzo settore, dei lavori concreti.

Si può dunque ripartire, con l’analisi e nella ricerca di soluzioni alla disoccupazione, qui a Napoli e in Campania, qui e ora, dalle tracce indicate nel lontano 1993 considerando quel’è l’attuale situazione economica, del mercato del lavoro e della struttura sociale della regione, quali ulteriori indicazioni sui fallimenti del mercato vengono dalla crisi attuale, quali elementi nuovi si sono aggiunti al quadro che si presentava quindici anni fa ?

Nel 2007 la Campania è la settima regione d’Italia per volume di reddito prodotto (96,797 miliardi) e la decima regione per indice di crescita del Pil (128,5 rispetto al 2000 con valori a prezzi correnti). Rispetto ai risultati registrati nel 2006 la situazione peggiora con lo slittamento della regione dal sesto posto per crescita del pil, l’affondamento all’ultimo posto per i valori del reddito pro capite (16.686,9) e al 16° posto, per il valore della produttività, il reddito prodotto per unità di lavoro standard, pari a 53.612,5 euro . Diversamente dalle aspettative delle politiche comunitarie ispiratrici dei fondi strutturali gli investimenti fissi lordi sia della Campania che dell’intero Mezzogiorno nel periodo 2000-2006 rimangono fermi rispettivamente al 6,2% e al 25% del totale nazionale (anzi la quota per il Mezzogiorno diminuisce di 0,5 punti). Restano inalterati, se non peggiorano, alcuni indicatori di arretratezza della struttura economica come ad esempio il segno negativo della bilancia commerciale con il 16,9% del pil costituito da importazioni nette, il volume di spesa delle pubbliche amministrazioni pari al 30% delle spese finali complessive, e soprattutto una base produttiva industriale in senso stretto che rappresenta solo l’11% del pil contro il 20% nazionale, e un peso del settore dei servizi alle persone, in cui è rappresentata la pubblica amministrazione, che assorbe il 29,2% del pil contro il 21,2% nazionale. I dati sull’occupazione che si possono stimare a partire dalla contabilità nazionale mostrano una crescita di 4,4 punti percentuali delle unità di lavoro stardard nell’intero periodo 2000-2006, una delle peggiori performance regionali, più bassa anche della media del Mezzogiorno.

Rispetto al mercato del lavoro la situazione si presenta negativa per i tassi di occupazione e peggiorata per le fasce di popolazione già più colpite e in difficoltà nell’acceso al lavoro, ma presenta anche un rinnovato trend di crescita delle persone in cerca di lavoro che fino al 2006 si erano invece ridotte, in particolare nella componente in cerca di primo lavoro ed in quella dei disoccupati di lunga durata. Con una interpretazione cinica che non tiene conto della progressiva esclusione dal mercato del lavoro delle fasce di offerta più deboli, si può dire che vi sono stati dal 2004 al 2006 alcuni segnali di riequilibrio all’interno del mercato del lavoro che lasciavano intravedere un mercato del lavoro più reattivo e capace di riflettere più direttamente e prontamente le dinamiche degli altri mercati e della produzione economica regionale. Ma seppure scremato nella componente dell’offerta di lavoro meno “occupabile” il mercato non risponde ai benefici della flessibilità e della moderazione salariale producendo più occupazione, nè si verifica l’emersione del sommerso. Tende a scremarsi in negativo anche la domanda di lavoro che offre opportunità sempre più concentrate nel terziario, sempre meno remunerative e stabili, sempre più distanti dalla sfida della competizione sulla qualità. Il mercato debole, lasciato ai suoi automatismi, produce risposte deboli che indeboliscono se stesso e devastano le condizioni di vita e di lavoro delle persone, aumentano la lontananza e la separazione dal lavoro. Questo e non altro sembra indicare la forte diminuzione dei tassi di attività le cui implicazioni più serie si possono rilevare nei nuovi flussi di emigrazione, nella persistenza del sommerso, nel peggioramento dei tassi di abbandono e insuccesso scolastico, nel peggioramento dei tassi di attività femminili.
Peggiora l’economia e peggiora la società, senza lavoro. Che fare?

Il seguito (ma non la risposta!)... alla prossima puntata sulle politiche (fatte e possibili)
Susi Veneziano

Susi Veneziano

20 gennaio 2009

Il libro bianco di Delors

dal Sito satellite dell’Istituto Regionale Ricerca Educativa dell’Emilia Romagna (IRREER): www.orientamentoirreer.it

Sintesi del libro bianco
Crescita, competitività, occupazione
di Jacques Delors
1993

Il "Libro Bianco" di Jacques Delors, presentato dalla Commissione europea nel dicembre del 1993, ha come argomento principale il problema della disoccupazione nei paesi membri della Comunità Europea e rappresenta il contributo più autorevole proposto dalle istituzioni comunitarie per affrontare la più grave emergenza economica e sociale che affligge l'Unione Europea. Contiene numerose indicazioni di politica economica che i singoli Stati membri e la Comunità nel suo complesso dovrebbero seguire per combattere un fenomeno che negli ultimi venti anni ha afflitto l'Europa: più di 18 milioni di persone sono disoccupate e il tasso attualmente oscilla intorno all'11%.
Quali sono le cause della disoccupazione in Europa?
Una caratteristica dell'economia europea negli ultimi 25 anni è il basso tasso di creazione di nuovi posti di lavoro che, non riuscendo a compensare l'incremento della forza lavoro, ha determinato la crescita pressoché costante del numero dei disoccupati.
La scarsa creazione di posti di lavoro e il basso livello degli investimenti nella Comunità, riscontrabili dopo il primo shock petrolifero del 1973, sono dovuti principalmente alle politiche macroeconomiche adottate dagli Stati membri. Ciò ha avuto un effetto negativo sia sulla competitività del "sistema Europa", che sulla crescita dell'economia. Infatti, l'economia europea si espande ad un ritmo molto più lento che in passato.
Secondo l'analisi proposta dal Rapporto della Commissione, la recessione dei primi anni Novanta è stata causata dalla combinazione di un basso tasso di crescita potenziale e da errori di politica economica che hanno sospinto il tasso di crescita effettivo oltre quello potenziale. Ciò è avvenuto alla fine del 1987 quando, dopo il crack delle Borse, si è temuta una fase recessiva e, quindi, vi è stata una politica monetaria su scala mondiale espansiva.
Tuttavia, l'economia europea era già in una fase espansiva che, però, non si rifletteva ancora nelle rilevazioni statistiche. Ciò nel 1988 ha portato ad un tasso di crescita effettivo del 4,1% che superava ampiamente il tasso di crescita potenziale. Questa situazione si è protratta fino al 1990, determinando tensioni inflazionistiche e conseguenti aumenti salariali.
In questo contesto macroeconomico il "libro bianco" pone come obiettivo la creazione, entro l'anno 2000, di 15 milioni di nuovi posti di lavoro. Nei prossimi cinque-dieci anni si prevede un aumento dell'offerta di lavoro all'incirca pari allo 0,5%, dovuto in larga parte all'andamento demografico e per il resto all'aumento del tasso di partecipazione.
Il "Rapporto Delors" indica che le scelte di politica economica da adottare per ridurre la disoccupazione dipendono, in una certa misura, dal tipo di crescita a medio termine ritenuta più idonea a determinare l'aumento desiderato dell'occupazione. Tuttavia, ognuna di queste opzioni ha conseguenze diverse sia sul piano economico che sociale e quindi è necessario valutare le implicazioni delle principali alternative: crescita modesta ed elevatissima intensità occupazionale e crescita più sostenuta e maggiore intensità occupazionale.
La prima opzione si basa sul convincimento che non sia possibile ottenere una crescita molto elevata, anche per le conseguenze sull'ambiente della stessa, e che dunque bisognerebbe incrementare notevolmente il contenuto occupazionale della crescita.
Quindi, si reputa auspicabile una crescita effettiva del prodotto in linea con quella potenziale (poco più del 2% all'anno) ed un notevole incremento dell'intensità occupazionale rispetto ai valori attuali.
Seguire questa strada vuol dire rifarsi alla situazione degli Stati Uniti, che negli ultimi venti anni hanno vissuto una crescita modesta caratterizzata, però, da un'alta intensità occupazionale. Tuttavia, la possibilità di applicare il modello americano al contesto europeo risulta difficile: sarebbe necessario attuare misure che invoglino gli imprenditori ad assumere manodopera, attraverso una considerevole riduzione dei costi salariali e dei contributi sociali.
La seconda opzione prevede una crescita più sostenuta e maggiore intensità occupazionale. Si ritiene che, se all'interno dell'Unione si riuscisse a coniugare una crescita dell'economia del 3% con un aumento dell'intensità occupazionale della stessa compreso fra lo 0,5 e l'1%, si conseguirebbe l'obiettivo di creare quindici milioni di posti di lavoro entro il 2000. In questo caso circa 2/3 dei nuovi posti sarebbero frutto del consolidamento della crescita, mentre 1/3 sarebbero da addebitare alla maggiore intensità occupazionale della stessa. Un tasso di crescita dell'economia europea di quest'ordine viene considerato compatibile con le esigenze di tutela dell'ambiente.
Questa opzione è ritenuta non facile da conseguire, ma comunque più sostenibile in termini sociali rispetto a quella "modellata" sull'esempio americano.
Allo scopo di intraprendere questo percorso di crescita sostenuta e di maggiore intensità occupazionale è necessario che la politica economica comunitaria si fondi su tre elementi principali connessi l'uno all'altro:

1. un quadro macroeconomico in grado di sostenere le forze di mercato e non di ostacolarle come è avvenuto in passato;
2. interventi di carattere strutturale volti ad accrescere la competitività verso l'esterno del sistema europeo e a permettere di sfruttare tutte le potenzialità del mercato interno;
3. una riforma strutturale del mercato del lavoro per rendere più semplice e meno oneroso il ricorso alla manodopera, aumentando così l'intensità occupazionale della crescita.

Una crescita sostenuta è uno degli obiettivi imprescindibili per aumentare l'occupazione: questo dipende dall'andamento dell'economia mondiale, ma anche dalle politiche attuate all'interno dell'Unione.
La politica economica deve quindi favorire un processo di crescita fondato sugli investimenti piuttosto che sul consumo. Inoltre, un aumento degli investimenti, attraverso l'introduzione di nuove tecnologie, avrebbe l'effetto di accrescere la competitività del sistema. A questo fine si devono dividere gli incrementi di produttività fra capitale e lavoro. Il rapporto Delors sostiene che i salari reali dovrebbero continuare ad aumentare, come durante la maggior parte degli anni Ottanta, di un punto percentuale in meno rispetto alla produttività. In questo modo si realizzerebbe il necessario incremento della redditività degli investimenti e della competitività del sistema.
La fiducia degli imprenditori si rafforza se le autorità di politica economica mantengono un quadro macroeconomico stabile, favoriscono un'espansione della domanda globale soddisfacente e dimostrano di voler rinnovare le infrastrutture del sistema. È necessario inoltre preservare la stabilità dei cambi ed il cammino verso la moneta unica.
La politica di bilancio deve contribuire alla maggiore crescita attraverso un significativo contenimento dei deficit statali e favorendo il necessario incremento del risparmio nazionale indispensabile per un aumento degli investimenti che non generi pressioni inflazionistiche. In questo senso, secondo il rapporto, il criterio fissato dal Trattato di Maastricht (disavanzi di bilancio inferiori al 3%, obiettivo raggiunto abbondantemente dall'Italia) è sicuramente un punto di riferimento importante.
L'Unione Europea risulta svantaggiata rispetto ai suoi concorrenti per una serie di motivi:

1. i risultati commerciali dell'Unione, a partire dagli anni Ottanta, sono peggiorati costantemente e l'industria europea ha perso quote di mercato sia rispetto ai paesi di nuova industrializzazione, che rispetto ai suoi concorrenti classici (Stati Uniti e Giappone);
2. l'industria comunitaria ha migliorato la sua posizione commerciale solo su mercati a crescita debole (cotone, macchine tessili e da cucire, vari prodotti tessili, conceria, materiale ferroviario, macellazione e preparazione delle carni, lavorazione dei cereali, distillazione di alcool etilico), mentre sui mercati ad alto valore aggiunto come l'informatica, l'elettronica, la robotica, gli strumenti ottici ed il materiale medico-chirurgico vi è un ritardo preoccupante. Per competere in queste arene è necessaria una forte ripresa degli investimenti, l'introduzione di tecnologie più efficienti, la riqualificazione della manodopera ed una riorganizzazione della produzione;
3. un livello insufficiente di investimenti nella ricerca e nello sviluppo tecnologico.

D'altro canto l'industria europea dispone di alcuni punti di forza rispetto ai suoi competitori: le imprese europee risultano meno indebitate rispetto a quelle americane e giapponesi e lavorano con margini in linea con quelli di questi due paesi. Inoltre, la realizzazione del mercato interno ha dato un notevole impulso alla ristrutturazione delle imprese, la manodopera è altamente qualificata ed il livello delle infrastrutture, sebbene da migliorare, risulta adeguato.
Questi sono gli obiettivi da raggiungere per l'implementazione del mercato interno:

1. semplificare il contesto normativo e fiscale;
2. facilitare l'attività delle imprese con iniziative volte a garantire il massimo grado di concorrenza e l'accesso al credito privato;
3. aiutare lo sviluppo delle piccole e medie imprese, spina dorsale del sistema economico europeo, tramite la cooperazione e la costruzione di reti;
4. lanciare il piano di realizzazione delle reti transeuropee;
5. promuovere una crescita dell'economia sostenibile sia sul piano della stabilità monetaria, che su quello ambientale.

Il ruolo svolto dalle piccole e medie imprese viene indicato come decisivo ai fini di ottenere una crescita con maggiore occupazione: queste impiegano più dei due terzi della manodopera europea (il 70,2%) e contribuiscano con il 70,3% al fatturato comunitario.
Nel programma di Delors si sottolinea come la semplice crescita dell'economia non può bastare se non si mette mano ad una profonda riforma del mercato del lavoro, che è una delle cause principali di una disoccupazione che ha assunto un carattere strutturale, come evidenziato dal numero dei disoccupati (18 milioni), dal fatto che oltre la metà di loro sono disoccupati di lungo periodo e dall'elevata disoccupazione giovanile.
Il mercato del lavoro è considerato troppo rigido, in termini di organizzazione dell'orario di lavoro, di retribuzioni, di mobilità e di adeguamento dell'offerta di lavoro alle esigenze della domanda. Queste caratteristiche del mercato del lavoro sono la causa di un costo del lavoro relativamente elevato, che è cresciuto in Europa in misura maggiore rispetto agli Stati Uniti ed al Giappone. Un costo del lavoro elevato spinge le imprese verso la sostituzione di lavoro con capitale per non perdere la sfida competitiva con i concorrenti tradizionali e con i paesi emergenti dell'area asiatica.
La riorganizzazione degli orari di lavoro viene considerata come un aspetto importante sia al fine di aumentare la flessibilità del mercato del lavoro, che per i riflessi in termini di nuova occupazione. Infatti, andrebbero rimossi gli ostacoli di carattere normativo che riguardano l'organizzazione degli orari ed il lavoro a tempo parziale. Al contempo, bisogna impedire che chi desideri adottare un orario di lavoro ridotto sia meno tutelato dal punto di vista sociale o subisca condizioni di lavoro inferiori.
Il "libro bianco" suggerisce agli Stati membri di adottare iniziative che favoriscano la riorganizzazione degli orari di lavoro, senza però tentare di imporre la riduzione per via legislativa. Gli strumenti per raggiungere questo obiettivo sono:

1. la negoziazione di un equilibrio migliore in tema di tutela sociale fra lavoratori permanenti e lavoratori a tempo determinato, in modo che sia le imprese che i lavoratori possano scegliere il modello di lavoro preferito;
2. la riduzione al minimo degli incentivi finanziari che stimolano i percettori di redditi al di sopra della media a lavorare un numero di ore superiore alla media;
3. incoraggiare la riduzione della settimana lavorativa, utilizzando maggiormente gli impianti se necessario e tutelando la competitività;
4. l'elaborazione di misure atte a favorire le persone iscritte alle liste di collocamento laddove si presentino nuove opportunità di impiego;
5. la riduzione delle ore di lavoro su base annua e la possibilità di periodi di interruzione del lavoro e di congedi di formazione.

Una strategia per ridurre la disoccupazione dovrebbe basarsi su di una significativa riduzione del costo del lavoro da realizzare attraverso una diminuzione degli oneri sociali (che ammontano ora al 40% del PIL).
I prelievi direttamente gravanti sul lavoro (imposte dirette e contributi sociali) rappresentano oltre la metà dei prelievi obbligatori (il 23,5%) e sono aumentati in termini reali del 40% dal 1970, ossia ad un ritmo doppio rispetto a quelli americani.
Detti prelievi gravano sul costo totale del lavoro per oltre il 40%, a differenza degli Stati Uniti dove sono pari al 30% e al Giappone dove pesano per il 20%.
Il livello elevato di questi costi non salariali è uno degli ostacoli maggiori per un aumento dell'occupazione, in quanto le imprese sono ovviamente dissuase dall'assumere nuova manodopera. Ciò vale in misura maggiore per le piccole e medie imprese, che sono le prime ad essere scoraggiate dall'elevato livello degli oneri sociali, amministrativi e fiscali che gravano su di esse.
In questo contesto, al fine di aumentare l'occupazione senza incidere sui livelli delle retribuzioni si propone di ridurre i costi non salariali del lavoro soprattutto per i lavoratori meno qualificati. Infatti la disoccupazione grava in modo più pesante su questa categoria di lavoratori e per di più nella maggior parte dei paesi europei i costi non salariali del lavoro pesano in misura relativamente maggiore sui lavoratori a più basso salario.
Nel rapporto Delors, naturalmente, si sottolinea che per poter ridurre il costo del lavoro senza aggravare il bilancio degli Stati membri si devono attuare misure fiscali compensative, basate principalmente su tributi volti alla protezione dell'ambiente come l'imposta sulle emissioni di anidride carbonica, o come le imposte sugli impianti inquinanti o consumatori di energia.
Il terzo "tipo" di disoccupazione che caratterizza il sistema europeo è quella tecnologica. Benché esistano nuovi bisogni legati al cambiamento degli stili di vita, alla trasformazione delle strutture e delle relazioni familiari, alla crescita dell'occupazione femminile ed al progressivo invecchiamento della popolazione, alla tutela ambientale e al recupero delle aree urbane, il mercato non vi fa fronte, in quanto lo sviluppo della domanda e dell'offerta incontra ostacoli notevoli. Dal lato della domanda si pone il problema dell'elevato costo relativo del lavoro scarsamente qualificato, che si riflette sul prezzo dei servizi, mentre dal lato dell'offerta vi è la tendenza a considerare questo tipo di lavori degradanti, poiché ritenuti scarsamente qualificati. Questo tipo di servizi, pertanto, vengono solitamente lasciati al mercato nero o all'iniziativa statale.
Secondo le stime, i cosiddetti lavori "socialmente utili" sarebbero in grado di creare 3 milioni di nuovi posti di lavoro all'interno dell'Unione. Il "libro bianco" indica alcuni "nuovi bacini d'impiego":

1. I servizi zonali di assistenza: assistenza domiciliare agli anziani e ai disabili, assistenza sanitaria, preparazione di pasti e i lavori domestici; custodia dei bambini che non hanno ancora raggiunto l'età scolare e, fuori dell'orario scolastico, degli scolari, compresi gli spostamenti tra casa e scuola; assistenza ai giovani in difficoltà, attraverso il sostegno a livello scolastico, offerta di attività ricreative (soprattutto sportive), inquadramento per i più svantaggiati; sicurezza di immobili destinati ad abitazione; piccoli negozi mantenuti in aree rurali ma anche nei quartieri decentrati.
2. L'audiovisivo.
3. Le attività ricreative e culturali.
4. Il miglioramento della qualità della vita: rinnovamento dei vecchi quartieri e dei vecchi habitat per migliorare il comfort (attrezzature sanitarie e isolamento acustico) e garantire meglio la sicurezza, sviluppo dei trasporti pubblici locali, resi più confortevoli, frequenti, accessibili (in particolare ai disabili) e sicuri, e offerta di nuovi servizi quali i taxi collettivi nelle aree rurali.
5. La protezione dell'ambiente. conservazione delle zone naturali e degli spazi pubblici (riciclaggio locale dei rifiuti); trattamento delle acque e risanamento delle zone inquinate; controllo delle norme di qualità; dispositivi per risparmio energetico, segnatamente per le abitazioni.

Una delle cause fondamentali della disoccupazione tecnologica nei suoi connotati di fenomeno strutturale, indicate dal "libro bianco", è l'inadeguato livello dell'istruzione e della formazione professionale di fronte sia ai rapidi mutamenti della tecnologia, che alla sfida portata al sistema europeo dalla globalizzazione dell'economia.
La formazione e l'istruzione sono considerati degli strumenti di politica attiva del mercato del lavoro, in quanto servono ad adeguare la preparazione professionale dei lavoratori e dei giovani alle mutevoli esigenze del mercato.
Inoltre, essi rappresentano uno strumento basilare di lotta al tipo di disoccupazione che più affligge il nostro sistema, quella giovanile e quella di lunga durata.
Il principio fondamentale alla base di ogni azione riguardante la formazione deve essere, secondo il Rapporto Delors, la valorizzazione del capitale umano lungo tutto il periodo della vita attiva. L'obiettivo è quello "di imparare a imparare per tutto il corso della vita". Per agevolare il passaggio dei giovani dalla scuola alla vita professionale, vanno ampliate le forme di tirocinio ed apprendistato presso le imprese e, ad integrazione di ciò, vi è bisogno di corsi di formazione professionale brevi ed a carattere eminentemente pratico organizzati in centri specializzati.
Per realizzare questa opera di riorganizzazione del sistema educativo e formativo vi sarebbe bisogno di destinare una quota degli stanziamenti attualmente destinati ai sussidi di disoccupazione per programmi inerenti la formazione, in particolare per i giovani senza qualifiche e per i disoccupati di lunga durata. È necessario un maggiore coinvolgimento delle imprese nei processi di formazione, ad esempio attraverso una riduzione degli oneri sociali per quelle aziende che intraprendono azioni di formazione.