INTERVISTA | di Loris Campetti
La bussola del lavoro
Mario Tronti, Crs, lancia un appello agli intellettuali a riprendere la parola partecipando alla manifestazione della Cgil del 4 aprile. «Solo a partire dal lavoro si può ricostruire la sinistra e spezzare l'egemonia culturale della destra»
«Il 4 aprile è un appuntamento importante. La manifestazione della Cgil può facilitare una percezione di massa della gravità della crisi e, dunque, l'assunzione politica della centralità del nodo del lavoro. Che è una precondizione per ricostruire un ostacolo al rischio di un'uscita da destra dalla crisi stessa. Il 4 aprile può segnare una svolta, un inizio della controffensiva e non certo una conclusione». Ne è talmente convinto, Mario Tronti, che sta preparando un appello rivolto agli intellettuali «formati e in formazione perché salutino con simpatia e partecipazione la protesta della Cgil. E siccome siamo nel tempo dei gesti simbolici, ne voglio fare uno anch'io schierando il Crs (Centro per la riforma dello stato, ndr) come promotore di un appello alle forze intellettuali, ai lavoratori della conoscenza, agli studenti a partecipare alla manifestazione dietro uno striscione che reciti: 'la cultura con i lavoratori'». Da questa proposta a rompere il silenzio parte la conversazione con Tronti sulla sinistra, la cultura e il movimento operaio.
Iniziamo con la crisi, la sua natura e le risposte politiche in campo.
Il tema da sollevare con forza è il rapporto crisi-lavoro, e quanto la crisi pesi sui lavoratori in carne e ossa. Vedo una cosa strana: si è parlato molto di ciò che è e ciò che invece viene percepito - pensa solo al tema della sicurezza, a com'è stata gonfiata la paura nei confronti degli immigrati. Ora c'è un rovesciamento, la realtà è molto più drammatica di come viene percepita. E' forte la percezione individuale della crisi da parte di chi vive in vicinanza con il mondo dei semplici. Nessuno sta più sicuro sul suo posto di lavoro, si è scavalcato il problema della precarietà di una parte perché essa conquista l'intero mondo del lavoro. La crisi ricade sulla vita quotidiana, nelle case, nelle famiglie, si vive male. Però manca la percezione pubblica, il tema non viene gridato. Lo schermo dell'informazione, quel che dice e quel che non dice, è decisivo.
Berlusconi dice agli italiani che devono lavorare di più, all'inizio di una crisi che cancella il lavoro si sono defiscalizzati gli straordinari.
È uno sgarbo nei confronti dei lavoratori, chiamati a lavorare e consumare di più. Ma non esplode la denuncia delle parti politiche, il tema non è assunto neanche da chi dovrebbe avere nel lavoro le sue radici. C'è una crisi mondiale del capitalismo ed è la prima volta che una crisi di tale intensità si manifesta senza il movimento operaio e il suo contrasto. È una novità rispetto al '29, quando una crisi magari ancora più profonda trovava in campo il movimento operaio internazionale che ha imposto l'uscita dalla crisi con il compromesso socialdemocratico sui temi classici, dal lavoro al welfare.
Però, mentre gli Usa rispondevano con il new deal e cresceva il conflitto per i diritti collettivi, in un'Europa divisa crescevano i fascismi, fino alla guerra.
Comunque la crisi ha fatto vedere la forza del movimento operaio che andava contrastata, prima con le concessioni e poi con la repressione. Quando la crisi è profonda, nessuno è in grado di contrastarla e c'è il rischio di uscite pericolose. Anche oggi: in mancanza di un'alternativa al sistema capitalistico passa il tentativo di salvataggio individuale, ognuno cerca per sé un'uscita dalla crisi. Un'opinione disorientata sceglie di affidarsi al sicuro, alle forze politiche che danno risposte populiste facili e accattivanti, o si cerca di attaccarsi ai rimedi del potere pubblico aspettando la ricetta miracolosa - si salvano le imprese e così si salva il lavoro.
Ma l'alternativa al modello capitalistico, come dici tu, non si vede...
È un momento delicato, preoccupa il silenzio delle forze di sinistra sulla natura della crisi e i pericolosi smottamenti che produce; con l'eccezione di qualche pezzo di sinistra radicale, il grosso del movimento è incapace di cogliere il momento che viviamo.
Persino nella sinistra radicale c'è la tentazione di assumere l'esistente come immutabile: c'è l'individuo e ci sono le moltitudini, via la classe non resterebbe che ripartire dall'individuo o, al massimo, dal territorio. Non dal lavoro.
Bella osservazione. In altri paesi, va detto, esplode la protesta di massa ma è più spontanea che diretta. Se la crisi pesa innanzitutto dal lavoro, è da lì che bisogna ripartire. O la sinistra ritrova il suo posto naturale al centro del sociale, dov'è il lavoro di uomini e donne, oppure non vedo la possibilità di una sua rinascita politica. Dentro la globalizzazione neoliberista è venuto avanti uno squilibrio pesante nella distribuzione della ricchezza a danno del lavoro dipendente. La sinistra e le forze della cultura ci si sono adagiate come se il processo fosse irreversibile, come se non si potesse fermare ma, al massimo, mitigare. Penso che la crisi del liberismo sia leggibile come crisi da lavoro, su cui certo si sono innestate le note vicende finanziarie. Va messa in discussione l'idea che la crisi nasca da una cattiva gestione del capitale. Con una lettura marxiana si può dire che la crisi è molto più materiale, legata al meccanismo classico produzione-distribuzione-consumo. Un bel tema, questo, da cui ripartire, il tema classico della sinistra che è il lavoro. Naturalmente il lavoro è cambiato, frantumato, difficile da rappresentare e organizzare. C'è bisogno di un di più di conoscenza della sua struttura, e di un di più di iniziativa politica. Se rimettessimo al centro questi temi, invece di scendere in campo armati a ogni parola del papa o alle buffonerie di Berlusconi, la sinistra potrebbe tornare in campo in modo riconoscibile.
Controriforma dei contratti, smantellamento del Testo unico sulla sicurezza, attacco al diritto di sciopero, sono gli addendi di un'operazione pericolosissima, non solo per i lavoratori dipendenti.
Per questo la manifestazione del 4 aprile diventa un passaggio strategico. Dobbiamo stringerci intorno alla Cgil, dimostrare che non è sola. E' in sintonia con i lavoratori e c'è il dovere politico, non etico, delle forze intellettuali di stare dentro la mobilitazione. Fin qui gli intellettuali sono stati assenti, distanti, e questo è il motivo non ultimo della generale deriva culturale.
È la destra, oggi, ad avere l'egemonia culturale.
Il cambio di egemonia inizia negli anni Ottanta, e non è indifferente la responsabilità delle forze politiche e culturali di sinistra.
Inizia dalla sconfitta operaia nei 35 giorni a Mirafiori?
È partito tutto da lì. Sono cambiate le figure intellettuali, ma non sono scomparse in un magma imprecisato. Ci sono state manifestazioni positive nel campo dell'arte penso al cinema, al ritorno sullo schermo del lavoro. Ma si tratta di uno spiraglio nel buio. C'è un paradosso: la cultura è ancora a maggioranza di sinistra ma l'egemonia culturale è della destra. Forse perché spesso l'intellettuale di sinistra assume pulsioni di destra. Non c'è un ancoraggio al mondo del lavoro, senza cui non può esistere una cultura di sinistra. Gli orientamenti che emergono oggi incrociano lo smantellamento dei diritti dei lavoratori con una grave deriva istituzionale. Siamo al passaggio non contrastato al federalismo che è una tappa verso il presidenzialismo, perché più si articola la struttura federativa più si accentra il potere esecutivo. Dunque, le due battaglie, quella istituzionale e quella sul lavoro, vanno legate. Se non si impegneranno le forze culturali della sinistra, le forze politiche saranno travolte dai processi. La controffensiva può partire proprio il 4 aprile.
La crisi è mondiale, l'Italia non è un'isola. È difficile pensare a una battaglia paese per paese, o fabbrica per fabbrica.
Certo, e la crisi conferma la natura mondiale del capitale. La mondializzazione non poteva che creare un effetto a catena in un sistema integrato in cui il volo di una farfalla provoca un uragano dall'altra parte del mondo. In questo contesto è drammatica l'assenza di una forma internazionale del movimento operaio e di una sinistra internazionale, almeno ci fosse un sindacato europeo. È impressionante il silenzio delle forze politiche che hanno cantato i tempi moderni: dov'è, che dice il Partito socialista europeo? Perché si riuniscono i G8 e i G20 senza che prima i partiti di sinistra si siano incontrati per elaborare un orientamento comune sulla risposta da dare alla crisi? E' questo vuoto che rende drammatica la situazione. Non so se è vero che l'Italia e la sua finanza siano più protette come ci si dice, so che la crisi colpisce ovunque, soprattutto il nostro campo, quello del lavoro che siamo chiamati a difendere. So dunque che dal lavoro dobbiamo ripartire.
«Il 4 aprile è un appuntamento importante. La manifestazione della Cgil può facilitare una percezione di massa della gravità della crisi e, dunque, l'assunzione politica della centralità del nodo del lavoro. Che è una precondizione per ricostruire un ostacolo al rischio di un'uscita da destra dalla crisi stessa. Il 4 aprile può segnare una svolta, un inizio della controffensiva e non certo una conclusione». Ne è talmente convinto, Mario Tronti, che sta preparando un appello rivolto agli intellettuali «formati e in formazione perché salutino con simpatia e partecipazione la protesta della Cgil. E siccome siamo nel tempo dei gesti simbolici, ne voglio fare uno anch'io schierando il Crs (Centro per la riforma dello stato, ndr) come promotore di un appello alle forze intellettuali, ai lavoratori della conoscenza, agli studenti a partecipare alla manifestazione dietro uno striscione che reciti: 'la cultura con i lavoratori'». Da questa proposta a rompere il silenzio parte la conversazione con Tronti sulla sinistra, la cultura e il movimento operaio.
Iniziamo con la crisi, la sua natura e le risposte politiche in campo.
Il tema da sollevare con forza è il rapporto crisi-lavoro, e quanto la crisi pesi sui lavoratori in carne e ossa. Vedo una cosa strana: si è parlato molto di ciò che è e ciò che invece viene percepito - pensa solo al tema della sicurezza, a com'è stata gonfiata la paura nei confronti degli immigrati. Ora c'è un rovesciamento, la realtà è molto più drammatica di come viene percepita. E' forte la percezione individuale della crisi da parte di chi vive in vicinanza con il mondo dei semplici. Nessuno sta più sicuro sul suo posto di lavoro, si è scavalcato il problema della precarietà di una parte perché essa conquista l'intero mondo del lavoro. La crisi ricade sulla vita quotidiana, nelle case, nelle famiglie, si vive male. Però manca la percezione pubblica, il tema non viene gridato. Lo schermo dell'informazione, quel che dice e quel che non dice, è decisivo.
Berlusconi dice agli italiani che devono lavorare di più, all'inizio di una crisi che cancella il lavoro si sono defiscalizzati gli straordinari.
È uno sgarbo nei confronti dei lavoratori, chiamati a lavorare e consumare di più. Ma non esplode la denuncia delle parti politiche, il tema non è assunto neanche da chi dovrebbe avere nel lavoro le sue radici. C'è una crisi mondiale del capitalismo ed è la prima volta che una crisi di tale intensità si manifesta senza il movimento operaio e il suo contrasto. È una novità rispetto al '29, quando una crisi magari ancora più profonda trovava in campo il movimento operaio internazionale che ha imposto l'uscita dalla crisi con il compromesso socialdemocratico sui temi classici, dal lavoro al welfare.
Però, mentre gli Usa rispondevano con il new deal e cresceva il conflitto per i diritti collettivi, in un'Europa divisa crescevano i fascismi, fino alla guerra.
Comunque la crisi ha fatto vedere la forza del movimento operaio che andava contrastata, prima con le concessioni e poi con la repressione. Quando la crisi è profonda, nessuno è in grado di contrastarla e c'è il rischio di uscite pericolose. Anche oggi: in mancanza di un'alternativa al sistema capitalistico passa il tentativo di salvataggio individuale, ognuno cerca per sé un'uscita dalla crisi. Un'opinione disorientata sceglie di affidarsi al sicuro, alle forze politiche che danno risposte populiste facili e accattivanti, o si cerca di attaccarsi ai rimedi del potere pubblico aspettando la ricetta miracolosa - si salvano le imprese e così si salva il lavoro.
Ma l'alternativa al modello capitalistico, come dici tu, non si vede...
È un momento delicato, preoccupa il silenzio delle forze di sinistra sulla natura della crisi e i pericolosi smottamenti che produce; con l'eccezione di qualche pezzo di sinistra radicale, il grosso del movimento è incapace di cogliere il momento che viviamo.
Persino nella sinistra radicale c'è la tentazione di assumere l'esistente come immutabile: c'è l'individuo e ci sono le moltitudini, via la classe non resterebbe che ripartire dall'individuo o, al massimo, dal territorio. Non dal lavoro.
Bella osservazione. In altri paesi, va detto, esplode la protesta di massa ma è più spontanea che diretta. Se la crisi pesa innanzitutto dal lavoro, è da lì che bisogna ripartire. O la sinistra ritrova il suo posto naturale al centro del sociale, dov'è il lavoro di uomini e donne, oppure non vedo la possibilità di una sua rinascita politica. Dentro la globalizzazione neoliberista è venuto avanti uno squilibrio pesante nella distribuzione della ricchezza a danno del lavoro dipendente. La sinistra e le forze della cultura ci si sono adagiate come se il processo fosse irreversibile, come se non si potesse fermare ma, al massimo, mitigare. Penso che la crisi del liberismo sia leggibile come crisi da lavoro, su cui certo si sono innestate le note vicende finanziarie. Va messa in discussione l'idea che la crisi nasca da una cattiva gestione del capitale. Con una lettura marxiana si può dire che la crisi è molto più materiale, legata al meccanismo classico produzione-distribuzione-consumo. Un bel tema, questo, da cui ripartire, il tema classico della sinistra che è il lavoro. Naturalmente il lavoro è cambiato, frantumato, difficile da rappresentare e organizzare. C'è bisogno di un di più di conoscenza della sua struttura, e di un di più di iniziativa politica. Se rimettessimo al centro questi temi, invece di scendere in campo armati a ogni parola del papa o alle buffonerie di Berlusconi, la sinistra potrebbe tornare in campo in modo riconoscibile.
Controriforma dei contratti, smantellamento del Testo unico sulla sicurezza, attacco al diritto di sciopero, sono gli addendi di un'operazione pericolosissima, non solo per i lavoratori dipendenti.
Per questo la manifestazione del 4 aprile diventa un passaggio strategico. Dobbiamo stringerci intorno alla Cgil, dimostrare che non è sola. E' in sintonia con i lavoratori e c'è il dovere politico, non etico, delle forze intellettuali di stare dentro la mobilitazione. Fin qui gli intellettuali sono stati assenti, distanti, e questo è il motivo non ultimo della generale deriva culturale.
È la destra, oggi, ad avere l'egemonia culturale.
Il cambio di egemonia inizia negli anni Ottanta, e non è indifferente la responsabilità delle forze politiche e culturali di sinistra.
Inizia dalla sconfitta operaia nei 35 giorni a Mirafiori?
È partito tutto da lì. Sono cambiate le figure intellettuali, ma non sono scomparse in un magma imprecisato. Ci sono state manifestazioni positive nel campo dell'arte penso al cinema, al ritorno sullo schermo del lavoro. Ma si tratta di uno spiraglio nel buio. C'è un paradosso: la cultura è ancora a maggioranza di sinistra ma l'egemonia culturale è della destra. Forse perché spesso l'intellettuale di sinistra assume pulsioni di destra. Non c'è un ancoraggio al mondo del lavoro, senza cui non può esistere una cultura di sinistra. Gli orientamenti che emergono oggi incrociano lo smantellamento dei diritti dei lavoratori con una grave deriva istituzionale. Siamo al passaggio non contrastato al federalismo che è una tappa verso il presidenzialismo, perché più si articola la struttura federativa più si accentra il potere esecutivo. Dunque, le due battaglie, quella istituzionale e quella sul lavoro, vanno legate. Se non si impegneranno le forze culturali della sinistra, le forze politiche saranno travolte dai processi. La controffensiva può partire proprio il 4 aprile.
La crisi è mondiale, l'Italia non è un'isola. È difficile pensare a una battaglia paese per paese, o fabbrica per fabbrica.
Certo, e la crisi conferma la natura mondiale del capitale. La mondializzazione non poteva che creare un effetto a catena in un sistema integrato in cui il volo di una farfalla provoca un uragano dall'altra parte del mondo. In questo contesto è drammatica l'assenza di una forma internazionale del movimento operaio e di una sinistra internazionale, almeno ci fosse un sindacato europeo. È impressionante il silenzio delle forze politiche che hanno cantato i tempi moderni: dov'è, che dice il Partito socialista europeo? Perché si riuniscono i G8 e i G20 senza che prima i partiti di sinistra si siano incontrati per elaborare un orientamento comune sulla risposta da dare alla crisi? E' questo vuoto che rende drammatica la situazione. Non so se è vero che l'Italia e la sua finanza siano più protette come ci si dice, so che la crisi colpisce ovunque, soprattutto il nostro campo, quello del lavoro che siamo chiamati a difendere. So dunque che dal lavoro dobbiamo ripartire.