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25 marzo 2009

Lavoro sociale: racconti di esperenze concrete per una "sicurezza" possibile

Vorrei provare ad approcciare il tema della sicurezza, o meglio della deriva politico-culturale che sta provocando l’estremismo securitario, partendo dal mio essere operatore, e per questo iniziando con il racconto di due brevi esperienze di lavoro sociale
La prima storia ha a che fare con il tema delicato della prostituzione e della tratta e delle conflittualità che spesso nascono tra cittadinanza e persone prostitute. Qualche mese fa un comitato di cittadini di Gianturco (quartiere dell’area a nord di Napoli fortemente interessato dal fenomeno prostituzione di strada) propone le “ronde” per “cacciare le prostitute, i transessuali e i froci dalla strada”. Come cooperativa, attiva da tempo nei servizi di tutela e supporto alle persone vittime di tratta e più in generale coinvolte nella prostituzione, chiediamo con urgenza un incontro con i referenti del comitato. Ne nasce una discussione lunga, all’inizio segnata da diffidenze e pregiudizi. Da parte nostra comunichiamo con nettezza la nostra contrarietà alle ronde, ma diamo una disponibilità sincera a collaborare per comprendere e per tentare di risolvere i problemi. Primo passo di tale disponibilità è la decisione di uscire la sera per il quartiere con loro per un osservazione condivisa e ragionata sulle dinamiche e sugli elementi di conflitto. Insomma, chiediamo ai cittadini e alle cittadine di farci vedere il quartiere con i loro occhi visto che noi siamo abituati a guardarlo dal punto di vista degli operatori.
I problemi che emergono sono i soliti. Non è tanto la presenza in strada delle prostitute a dar fastidio, ma alcuni comportamenti loro o comunque connessi al fenomeno: gli schiamazzi fino a tarda notte; i rapporti sessuali consumati in luoghi troppo visibili agli estranei; i preservativi usati gettati a terra in luoghi di passaggio e così via. Ma viene anche fuori che il degrado del quartiere, almeno quello profondo, quello che fa male e rende la vita difficile, non è dovuto alla prostituzione ma alla mancanza di servizi, ai rifiuti diffusi ovunque, alla mancanza di marciapiedi, al traffico assordante, ad una presenza “attenta” e invasiva della criminalità organizzata.
In ogni caso decidiamo con i cittadini di organizzare un incontro con le associazioni di auto-rappresentanza delle persone transessuali e con gli operatori di strada. Dall’incontro escono due proposte: si preparano materiali informativi per chiedere a chi si prostituisce o è costretto a farlo di provare a limitare o eliminare quegli elementi di disturbo per la cittadinanza sopra descritti; si decide di sondare attraverso un tavolo istituzionale di sperimentare uno zoning in strade a bassa conflittualità sociale.
Risultato: le ronde non sono mai partite. I cittadini e le persone prostitute vivono più tranquilli. Nel quartiere si stanno avviando alcuni servizi, grazie al lavoro congiunto di associazioni, cittadinanza, municipalità. Certo, le contraddizioni e le debolezze sono ancora molte, la convivenza pacifica tra differenti continua a muoversi su equilibri precari che hanno bisogno di cure costanti, ma è altrettanto vero che in qualche modo potenziali nemici si sono conosciuti, si sono parlati e hanno provato a fare una piccola alleanza per vivere meglio, confrontandosi in modo paritario e rendendosi disponibili ad abitare insieme un luogo di mediazione .
Seconda storia. L’altra settimana due minori stranieri non accompagnati vengono fermati ad un semaforo dalla polizia municipale e portati in modo coercitivo in una “comunità”. Passano due giorni e i ragazzi scappano, calandosi dalla finestra al primo piano. Appena fuori e recuperato un cellulare telefonano ad un mediatore culturale della cooperativa per chiedere se a causa dell’assenza di due giorni erano stati espulsi dal laboratorio di alfabetizzazione finalizzato all’ottenimento della licenza media. Morale: da un servizio non voluto, obbligato e repressivo si scappa mentre da un altro, scelto, condiviso, ritenuto utile e compatibile con il proprio percorso migratorio si ha paura di essere stati cacciati (per altro e a conferma che solo la condivisione rende utilizzabili i servizi, in questo momento più di 40 minori hanno deciso di abbandonare la strada, di stare in comunità, di seguire percorsi altri di formazione e inserimento lavorativo)
Due brevi storie, ma significative. Storie in cui il confronto tra differenti, tra inclusi ed “esclusi” diventa elemento che alza la qualità del vivere e produce sicurezza; dove le persone, indipendentemente da condizione, volontà e possibilità, sono riconosciute in primo luogo come portatrici di diritti, di bisogni e aspettative; dove il conflitto non viene nascosto ma allo stesso tempo non strumentalmente esasperato nella spasmodica ricerca di consenso ma invece collocato e accompagnato in un ambito di mediazione; dove i servizi sociali, al di là degli elementi più specifici e tecnici, diventano strumenti di proposte e “cambiamento”, capaci di far incontrare i potenziali nemici per provare a trasformarli in alleati o quantomeno in “pacifici e tolleranti vicini di casa”

Come le nostre in Italia ci sono centinaia di altre esperienze di lavoro sociale positive e forti.
Associazioni, cooperative, forme di auto-organizzazione sociale dal basso che dentro ai territori, sporcandosi le mani, hanno provato a lavorare con gli ultimi e i senza voce promuovendo e tutelando diritti, provando a garantire pari opportunità. Esperienze che tra mille difficoltà hanno provato a costruire partecipazione e relazioni solidali nei luoghi del disagio e delle contraddizioni urbane, provando a sostituire convivenza e accoglienza al conflitto e all’esclusione. Pratiche quotidiane che, in molti casi, hanno restituito visibilità e cittadinanza a persone a cui spesso è negato anche il diritto di appartenere all’umanità.
Un universo del “fare” che ha messo insieme saperi, competenze, racconti e memorie che dimostrano come sia possibile costruire sicurezza anche attraverso il riconoscimento dei diritti, la promozione di opportunità, il rafforzamento dei sistemi di welfare, la mediazione sociale e dei conflitti.
Spazi concreti dove si costruiscono identità positive centrate sulla persona. Dove si pratica una dimensione della politica, fondata sullo stretto legame con le pratiche, fortemente radicata nel territorio, capace di farsi carico del quotidiano, coraggiosa perché in grado di non rifiutare il conflitto, l’odore acre e l’umidità che spesso hanno le relazioni tra donne e uomini nelle fatiche di ogni giorno.
C’è il bisogno urgente che tutto questo trovi le forme e i luoghi per poter contare di più, per rispondere in modo adeguato a quella deriva autoritaria e dispotica che da un lato sempre più contamina e annulla la nostra democrazia e, d’altra parte, in nome di una presunta sicurezza, non fa altro che produrre paura, disuguaglianza e disperazione diffusa.

Andrea Morniroli
Cooperativa sociale Dedalus di Napoli