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16 aprile 2009

Corte di Cassazione diritto a convivenza stesso sesso d


Corte di
Cassazione
– Sentenza n. 6441/2009


Marzo 19,
2009 · Categoria Leggi
e Sentenze Circolari
 



Convivenze di fatto tra soggetti dello stesso
sesso


Corte di
Cassazione
- Sentenza del 17 marzo 2009, n. 6441


Stranieri
- Ricongiungimento familiare - Partner de facto - Cittadino
neozelandese - Esclusione.


Svolgimento
del processo


Il
cittadino neozelandese (…) avendo già ottenuto visto
d’ingresso e permesso di soggiorno per motivi di studio per la
durata di un anno, facendo valere il riconoscimento della qualità
di “partner de facto” del cittadino italiano (…)
da parte delle competenti autorità neozelandesi, ha chiesto al
questore di Livorno la conversione del titolo di soggiorno in
permesso per motivi familiari ai sensi dell’art. 30, 1°
comma lettera c) del d.lvo. n. 286/1998, in relazione agli articoli
24 e 65 della legge n. 218 del 1995.


Il
provvedimento del 15 ottobre 2004 del questore, che ha dichiarato
irricevibile l’istanza, è stato dichiarato illegittimo
dal tribunale di Firenze con decreto del 4 luglio 2000, ma la corte
d’appello di Firenze, con decreto del 6 dicembre 2006, in
riforma della decisione di primo grado, ha respinto la domanda del
(…) affermando che: a) la condizione di partner de facto,
attestata dalle autorità neozelandesi, secondo il nostro
ordinamento giuridico è diversa da quella di “familiare”,
che può essere riconosciuta soltanto a soggetti legati da
vincoli parentali e, solo in alcuni 4 casi, anche di affinità;
b) non è possibile una lettura costituzionalmente orientata di
tale disciplina che consenta di pervenire a, interpretazioni
estensive,perché la corte costituzionale ha costantemente
affermato la legittimità costituzionale delle norme che non
consentono di estendere alle convivenze di fatto la disciplina della
famiglia legittima (sentenze nn. 313/2000, 2 e 166 del 1998,
127/l997, 237/1986, 45/1980), anche con specifico riferimento alla
normativa in materia d’immigrazione e in particolare con
riferimento alla norma che limita il divieto di espulsione allo
straniero coniugato o parente entro il quarto grado di cittadino,
escludendo lo straniero convivente more uxorio (sentenza n.
313/2000); c) la legge neozelandese che riconosce la qualità
di conviventi di fatto a persone dello stesso sesso, tanto più
se dovesse intendersi anche come costitutiva dello status di
“familiare”, è contraria all’ordine pubblico
italiano; d) l’art. 3, 2° comma, lettera b) della direttiva
n. 2004/38/CE, che riconosce il diritto di soggiorno nel territorio
degli stati membri ai partner stranieri che abbiano una relazione
stabile debitamente attestata, non è applicabile nella specie
perché il (…) è cittadino di uno stato
dell’Unione Europea e perché, comunque, l’equiparazione
dell’unione registrata al matrimonio, al fine del
riconoscimento della qualità di “familiare” e
quindi del diritto di ingresso e di soggiorno, deve essere prevista
dalla legislazione nazionale dello Stato membro ospitante; e) l’art.
12 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo e l’art.
9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
riservalo alle legislazioni nazionali la competenza a disciplinare il
diritto ad instaurare rapporti coniugali o unioni familiari di tipo
diverso, e poiché il nostro ordinamento riconosce le unioni di
tipo coniugale solo nelle ipotesi di convivenze tra persone di sesso
diverso, il recepimento di una normativa di altro Stato (tra l’altro
non comunitario) che riconosca la qualità di convivente di
fatto a persone dello stesso sesso produrrebbe effetti contrari
all’ordine pubblico.


Avverso
il decreto della corte d’appello di Firenze il (…) e il
(…) hanno proposto ricorso per cassazione
articolato in cinque motivi, illustrati con memoria.


Motivi
della decisione


1.
Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione dell’art.
112 c.p.c. in quanto la corte territoriale avrebbe ritenuto che la
domanda proposta davanti al tribunale di Firenze fosse diretta a
ottenere il recepimento nel nostro ordinamento della normativa
neozelandese che riconosce la qualità di conviventi di fatto a
persone dello stesso sesso, mentre la domanda stessa aveva ad oggetto
soltanto il riconoscimento, ai sensi della legge n. 218 del 1995, di
uno status già acquisito dallo straniero nell’ordinamento
giuridico di appartenenza. Il motivo non è fondato.


La
corte territoriale ha correttamente individuato ed esaminato la
demanda proposta dagli attuali ricorrenti, come diretta a contestare
la legittimità del provvedimento di rigetto (per
“irricevibilità”) della richiesta di permesso di
soggiorno per motivi familiari ai sensi dell’art. 30, primo
comma( lettera e) del d. lgs. n. 286 del 1998. Nell’iter
argomentativo diretto a individuare l’esatta portata della
nozione di “familiare” di cui alla citata disposizione
normativa, la corte territoriale ha anche affrontato il problema
della possibile rilevanza della qualità del (…). Di
“partner de facto” del cittadino neozelandese, attestata
dalle autorità dello stato di appartenenza di questi,
negandola per la ritenuta contrarietà all’ordine
pubblico della norma straniera sulla base della quale sarebbe stata
rilasciata l’attestazione. Tuttavia il decisum del
provvedimento impugnato è limitato alla questione relativa
all’applicazione della disciplina ‘ dell’immigrazione
e non investe, principaliter, il riconoscimento di status o,
comunque, di qualità personali, come gli stessi ricorrenti
ammettono nell’articolazione del terzo motivo di ricorso, e
pertanto la censura appare inconferente.


2.
Con il secondo motivo, deducendo la violazione e falsa applicazione
degli articoli 24 e 65 della legge n. 218 del 1995, in relazione agli
articoli 28,2° comma, 30 e 31 d.lvo n. 286 del 1998, i ricorrenti
sostengono che ai fini dell’applicazione dell’art. 30
cit. il giudice nazionale non doveva valutare se lo status di
convivente di fatto sia equiparabile a quello di familiare alla
stregua delle norme nazionali, ma accertare se, secondo la disciplina
neozelandese applicabile in virtù dell’art. 24 della
legge n. 218, il (…) debba considerarsi “familiare”
del cittadino italiano. Né il limite degl’ordine
pubblico può derivare dalla sola mancanza di una disciplina
legislativa interna in materia di rapporti di tipo familiare tra
persone dello stesso sesso, che, peraltro, trovano tutela nell’art.
2 cost. che prende in considerazione tutte le formazioni sociali
nelle quali, secondo il sentire sociale che riconosce diverse
tipologie di rapporti familiari, si realizzano i valori della
persona. D’altra parte, anche nel diritto interno (art. 3, 3°
comma, d.p.r. n. 54 del 2002 e il d. lgs n. 72 del 2007) la nozione
di familiare è più ampia di quella di persona legata da
rapporto di coniugio e si estende al partner.


Anche
con il terzo motivo i ricorrenti deducendo la violazione e falsa
applicazione degli articoli 24 e 65 della legge n. 218 del 1995, in
relazione all’art. 16 della stessa legge e vizio di omessa e
contraddittoria motivazione, censurano, sotto ulteriori profili,
l’affermazione della contrarietà all’ordine
pubblico del riconoscimento della qualità di familiare ab
partner dello stesso sesso, osservando che a tale conclusione può
pervenirsi soltanto sulla base di un contrasto con principi che
trovano espressione nella Costituzione e abbiano, per le loro
caratteristiche economiche, sociali, morali e politiche, importanza
fondamentale. Inoltre sul punto è necessaria una analitica
motivazione che invece la corte territoriale non avrebbe fornito.
Peraltro, ribadiscono i ricorrenti, la domanda del non è
diretta a ottenere il riconoscimento di unft status o l’equiparazione
del rapporto di convivenza con quello di coniugio, ma, sulla base
della presa d’atto di una qualità riconosciutagli dal
proprio ordinamento di appartenenza, mira a ottenere la produzione di
un effetto sostanziale nel nostro ordinamento consistente nel
rilascio di un titolo di soggiorno per motivi familiari, effetto che
non può considerarsi inaccettabile per l’ordinamento
interno, nell’ambito del quale la convivenza esprime valori di
solidarietà in sintonia con il costume sociale.


Può
infine essere congiuntamente esaminato, essendo strettamente
connesso, anche il quinto motivo con il quale si deduce la violazione
e falsa applicazione degli articoli 8 e 14 della Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e vizio di
motivazione perché il rifiuto di rilascio del permesso di
soggiorno per motivi familiari costituirebbe illegittima interferenza
nella vita privata e familiare, intendendosi con quest’ultima
espressione, in conformità con la giurisprudenza di
Strasburgo, il riferimento anche a relazioni diverse da quelle
fondate sul matrimonio.


3.
I motivi non sono fondati.


Come
si è già rilevato nell’esame del primo motivo, la
corte territoriale non è stata chiamata ad accertare e
dichiarare lo status o un diritto della personalità dell’
accertamento in relazione al quale avrebbe dovuto farsi riferimento
alla sua legge nazionale, ai sensi dell’art. 24 della legge n.
218 del 1995, ma a verificare la sussistenza del requisito soggettivo
richiesto dall’art. 30, l° comma, lettera c) del d. lgs. n.
286 del 1998. Tale essendo l’oggetto del presente giudizio, il
giudice del merito correttamente ha limitato il suo esame alla
disciplina di diritto interno relativa all’immigrazione, sia
pure alla luce delle norme sovranazionali e, in particolare di quelle
di provenienza comunitaria, competenti secondo il sistema delle fonti
delineato dalla carta costituzionale. Vero è che il
provvedimento impugnato non si è limitato alla predetta
verifica, che, essendosi conclusa nel senso dell’impossibilità
di intendere la nozione di “familiare” di cui all’art.
3 0 cit. come comprensiva anche di quella di partner de facto del
cittadino neozelandese debitamente attestata dalle autorità
dello Stato straniero, sarebbe stata sufficiente a sorreggere la
decisione, ma, con ratio decidendo del tutto autonoma, ha anche
affermato, “peraltro”, che, se al fine di decidere, e
quindi dell’applicazione della disciplina dell’immigrazione,
fosse stato necessario fare applicazione della legge neozelandese che
riconosce le convivenze di fatto tra soggetti dello stesso sesso,
tale applicazione sarebbe stata in contrasto con l’ordine
pubblico italiano.


Entrambe
le rationes decidendi sono oggetto di censura, ma è evidente
che in ordine logico deve essere esaminata prioritariamente la
questione relativa alla corretta interpretazione della nozione
legislativa di “familiare” utilizzata dall’art. 30
d.lgs. n. 286/ 1998, perché in caso di infondatezza delle
censure mosse nei confronti della soluzione raggiunta sul punto dalla
corte territoriale rimarrebbe assorbita la problematica relativa alla
correttezza dell’utilizzazione del limite dell’ordine
pubblico.


4.
La normativa contenuta nel titolo quarto del d. lgs. n. 286 del 1998
(diritto all’unità familiare e tutela dei minori), e in
particolare quella di cui all’art. 30, avente ad oggetto il
permesso di soggiorno per motivi familiari, presuppone la nozione di
“familiare”, che il legislatore ha delineato in via
autonoma, agli specifici fini della disciplina del fenomeno
migratorio. Come risulta dall’art. 29, 1° comma, del d.lgs
n. 286, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dapprima con
l’art. 23, 1°, comma, della legge n. 189/2002 e
successivamente con l’art. 2, 1° comma, lettera e) del d.
lgs. n. 5/2007, richiamato dall’art. 30, la nozione di
“familiare” comprende: a) il coniuge; b) i figli minori;
c) i figli maggiorenni non autosufficienti per ragioni di salute; d)
i genitori a carico che non dispongano di adeguato sostegno familiare
nel paese di origine o di provenienza.


A
fronte della lettera delle indicate disposizioni si pone, tuttavia il
problema di verificare se l’esclusione dal novero dei
“familiari” aventi diritto al permesso di soggiorno ai
sensi dell’art. 30 dei soggetti, dello stesso o di diverso
sesso, conviventi e legati da una stabile relazione affettiva,
oggetto di registrazione o di semplice attestazione, si ponga in
contrasto con norme costituzionali, in particolare con gli articoli
2, 3 e 29 Cost. in modo da imporre, in prima battuta, l’adozione
del canone ermeneutico secondo cui il principio di supremazia
costituzionale impone all’interprete di optare, fra più
soluzioni astrattamente possibili, per quella che rende la
disposizione conforme a Costituzione, e, in caso di esito negativo di
tale percorso interpretativo, di sollevare questione di legittimità
costituzionale. Chiamata a verificare la compatibilità della
nozione di “familiare” individuata dall’art. 29 del
d. lgs n.286 (in particolare dal 1° comma, lettera e) come
modificato dalla legge 189/2002) con le indicate norme
costituzionali, la Corte costituzionale ha avuto modo di escludere il
contrasto (ord. n. 368/2006, n. 464/2005 e sent. n. 224/2005) sulla
base del rilievo che “l’inviolabilità del diritto
all’unità familiare - deve ricevere la più ampia
tutela con riferimento alla famiglia nucleare, eventualmente in
formazione, e quindi in relazione al ricongiungimento dello straniero
con il coniuge e i figli minori” mentre negli altri casi il
legislatore, che in materia gode di un’ampia discrezionalità
limitata solo dal vincolo che le scelte non risultino manifestamente
irragionevoli, può bilanciare il diritto dello Stato a
regolamentare l’ingresso in Italia e il diritto degli stranieri
all’unità familiare, che rispetto al primo assume pari
dignità e rango (così espressamente ord. 464/2005
cit.). Più specificamente la corte costituzionale ha esaminato
e risolto l’ulteriore problema della possibilità di
estendere per analogia la nozione di “familiare” a
situazioni diverse da quelle espressamente previste.


A
tal fine, mentre si è ritenuto (sent. n. 198/2003) che debba
essere riconosciuto, ai minori già sottoposti a tutela ai
sensi dell’art. 343 c.c., al compimento della maggiore età,
la possibilità di ottenere il permesso di soggiorno, così
come è previsto per i minori in affidamento (art. 32, 1°
comma, d.leg. 25 luglio 1998 n. 286), stante l’identità
di presupposti e di caratteristiche del rapporto di tutela con il
rapporto di affidamento, viceversa in materia di divieto d espulsione
previsto dall’art. 19,2° comma, lett. e), del d. Igs n.
286/1998, la giurisprudenza della Corte Costituzionale (ord. n.
313/2000, 192 e 444/2006, richiamate anche dalla più recente
ord. n. 118/2008) è costante nel negare la possibilità
di estendere, attraverso un mero giudizio di equivalenza tra le due
situazioni, la disciplina prevista per la famiglia legittima alla
convivenza di fatto, richiamando l’affermazione secondo la
quale “la convivenza more uxorio è un rapporto di fatto,
privo dei caratteri di stabilità e certezza e della
reciprocità e corrispettività dei diritti e dei doveri
(…) che nascono soltanto dal matrimonio e sono propri della
famiglia legittima (sentenze n. 45 del 1980, n. 237 del 1986, n. 127
del 1997)”.


Ne
deriva che l’interpretazione estensiva della nozione di
“familiare” delineata nella legislazione sull’
immigrazione invocata dai ricorrenti non può ritenersi imposta
da alcuna norma costituzionale.


5.
Né la nozione di “familiare” risultante dal
combinato disposto degli articoli 29 e 30 d.lgs. n. 286 del 1998 può
essere ampliata, al fine di ricomprendervi anche i soggetti legati da
una stabile relazione affettiva realizzata attraverso una convivenza
di tipo non matrimoniale, registrata o attestata, per effetto
dell’art. 12 della Convenzione europea di salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (le cui
norme costituiscono fonte integratrice del parametro di
costituzionalità introdotto dall’art. 117, 1° comma,
cost.: sentenze nn. 348 e 349/2007), o alla luce dell’art. 9
della Carta di Nizza, parte integrante del trattato di Lisbona
ratificato dall’Italia l’8 agosto 2008, ma non ancora
efficace in attesa delle ulteriori necessarie ratifiche da parte
degli altri Stati dell’Unione, anche se, per il suo valore
ricognltivo delle tradizioni costituzionali comuni in materia di
diritti fondamentali, costituisce uno strumento interpretativo
privilegiato al quale i giudici sovranazionali (Corte Giust., Grande
Sezione, 3 settembre 2008, cause C-402/05 P e C-415/05 P; Corte
giust. 11 luglio 2008, causa C195/08 PPU, Corte giust.(Grande
sezione) 29 gennaio 2008, causa C275/06.P Corte giust. 27.6.2006,
causa C540/03,Parlamento Consiglio; Corte giust.13 marzo 2007, causa
C432/05; Corte giust. 18 dicembre 2007, causa C-341/05) Corte
giust.,11 dicembre 2007, causa C-438/05.;Corte giust.3 maggio 2007,
causa C-303/05, Advocaten voor…, Corte giust.14 febbraio 2008,
causa c-244/06, Dynamic medien vertiebe gmbH; Corte giust.,14
febbraio 2008, causa C-450/06, - e quelli degli Stati membri
ricorrono sempre più spesso (per quanto riguarda la
Cassazione,
si veda ad esempio n. 15822/2002, 21748/2007, 10651/2008, 23934/2008;
Cass. pen. 7 luglio 2008).


Se
è vero che la formulazione del citato art. 9 da un lato
conferma l’apertura verso forme di relazioni affettive di tipo
familiare diverse da quelle fondate sul matrimonio e, dall’altro,
non richiede più come requisito necessario per invocare la
garanzia dalla norma stessa prevista la diversità di sesso dei
soggetti del rapporto, resta fermo che anche tale disposizione, così
come l’art. 12 CEDU, rinvia alle leggi nazionali per la
determinazioni, delle condizioni per l’esercizio del diritto,
con ciò escludendo sia il riconoscimento automatico di unioni
di tipo familiare diverse da quelle previste dagli ordinamenti
interni che l’obbligo degli stati membri di adeguarsi al
pluralismo delle relazioni familiari» non necessariamente
eterosessuali.


Quanto
infine all’ipotizzato contrasto della disciplina interna in
esame con gli articoli 8 e 14 della CEDU, per l’arbitraria
ingerenza nelle scelte del modello familiare, avente anche portata
discriminatoria sulla base degli orientamenti sessuali, escluso
questo secondo profilo, in quanto la mancata equiparazione al coniuge
è prevista in relazione a qualsiasi tipo di convivenza non
matrimoniale, e non soltanto per quelle tra persone dello stesso
sesso, deve rilevarsi che il secondo comma dell’art. 8 CEDU
consente l’ingerenza dell’autorità pubblica agli
specifici fini previsti, tra i quali devono ritenersi compresi anche
quelli perseguiti dalla disciplina del fenomeno migratorio.


6.
Alle stesse conclusioni ora raggiunte si deve pervenire anche tenendo
conto della più recente disciplina comunitaria, avente ad
oggetto i ricongiungimenti familiari.


Infatti
sia la direttiva del consiglio europeo del 22 settembre 2003 n.
2003/86/CE, che ha stabilito regole comuni per il diritto al
ricongiungimento familiare per i cittadini di paesi terzi
legittimamente residenti nell’Unione, attuata con d.l.vo n. 5
del 2007, che la direttiva del parlamento e del consiglio europeo del
29 aprile 2004 n. 2004/38/Ce, relativa al diritto dei cittadini
dell’Unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare
liberamente nei territorio degli Stati membri, attuata con d. l.vo n.
30 del 2007, non sono applicabili nella specie. Non la prima, perché,
come risulta espressamente dall’art. 3, 3° comma di tale
direttiva la stessa non si applica ai familiari di cittadini
dell’Unione, ma a quelli dei “soggiornanti” (art.
2, lettera e), e cioè ai familiari di cittadini di paesi terzi
legalmente soggiornanti nello Stato membro, ma neppure la seconda,
per l’assorbente ragione che la direttiva n. 38/2004 ha ad
oggetto (art. 1) la situazione del cittadino dell’Unione che
abbia esercitato il diritto di libera circolazione e di soggiorno nel
territorio di uno Stato diverso da quello di appartenenza, mentre
nella specie si discute del diritto al ricongiungimento familiare con
un cittadino italiano dimorante e residente in Italia. Con tale
rilievo resta quindi superata anche l’affermazione della corte
territoriale secondo la quale, comunque, l’estensione della
nozione di familiare non potrebbe avvenire sulla base della direttiva
n. 38/2004, sia perché difetterebbero i presupposti indicati
nell’art. 2, 1° comma lettera b), n. 2 (equiparazione delle
unioni registrate al matrimonio secondo la legislazione dello Stato
membro ospitante, peraltro, nella specie neppure invocata dalle
parti) e nell’art. 3, 2° comma, lettera b) del d.ivo n. 30
del 2007 (attestazione della relazione stabile con cittadino
dell’Unione da parte dello Stato al quale lo stesso
appartiene). D’altra parte, più in generale, tale
direttiva, come la precedente n. 86/2003, al di fuori di alcune
ristrette ipotesi di automatico riconoscimento del diritto
all’ingresso e al soggiorno (ad esempio nel caso previsto
dall’art. 4, 1° comma della direttiva n. 86, che lo limita
al coniuge e ai figli minori) appare ispirata al rispetto delle
legislazioni interne dei singoli stati membri per quanto riguarda
l’inclusione o l’esclusione della rilevanza di unioni
diverse dal matrimonio eterosessuale.


7.
Il rigetto delle censure dirette nei confronti -dell’interpretazione
della nozione di “familiare” recepita dall’art. 30
del d.lgvo n. 286 del 1998 rende ultroneo l’esame delle
critiche rivolte alla diversa ratio decidendi basata sull’invocazione
del limite dell’ordine pubblico.


8.
Con il quarto motivo si deduce la violazione dell’art. 2 della
legge n. 62 del 2005 e dell’art. 12 del trattato istitutivo
dell’Unione europea, sostenendo che l’applicazione
dell’art. 3 del d. lgs n. 30 del 2007, producendo una disparità
di trattamento nei confronti del cittadino italiano rispetto al
cittadino di un Stato -dell’Unione (cd. discriminazione a
rovescio), violerebbe l’art. 2 lettera h) della legge n. 62 (”i
decreti legislativi assicurano che sia garantita una effettiva parità
di trattamento dei cittadini italiani rispetto a quelli degli altri
Stati membri dell’Unione europea, facendo in modo di assicurare
il massimo livello di armonizzazione possibile tra le legislazioni
interne dei vari Stati membri ed evitando l’insorgere di
situazioni discriminatorie a danno dei cittadini italiani nel momento
in cui gli stessi sono tenuti a rispettare, con particolare
riferimento ai requisiti richiesti per l’esercizio di attività
commerciali e professionali, una disciplina più restrittiva di
quella applicata ai cittadini degli altri Stati membri” e
l’art. 12 del Trattato, che vietano discriminazioni dei
cittadini dell’Unione sulla base della nazionalità. In
via subordinata, i ricorrenti sollecitano la rimessione alla corte
costituzionale della questione di illegittimità costituzionale
dell’art. 3 del d. lgs. n, 30/2007, con riferimento all’art.
3 cost. in quanto impedirebbe al cittadino italiano, a differenza
degli altri cittadini di Stati dell’Unione, il soggiorno e il
ricongiungimento con partner extracomunitario con il quale abb|’a
una relazione stabile attestata dallo Stato del cittadino
comunitario. Il motivo non è fondato.


Da
quanto rilevato nel precedente paragrafo deriva che la diversità
di trattamento denunciata non deriva dall’applicazione del
diritto comunitario che disciplina fattispecie del tutto diverse da
quella di cui si tratta, avente ad oggetto la pretesa di un cittadino
extracomunitario al ricongiungimento con cittadino italiano dimorante
e residente in Italia, mentre, come ha precisato la corte
costituzionale con la sentenza n. 443 del 1997, il fenomeno delle
cosiddette “discriminazioni a rovescio”, rilevante
esclusivamente sul piano interno, consiste in situazioni di disparità
in danno dei cittadini di uno Stato membro che si verificano come
effetto indiretto dell’applicazione del diritto comunitario.


Inoltre
la diversità di trattamento non è legata alla
nazionalità, ma alla circostanza che sia stato o non
esercitato il diritto di circolazione e di soggiorno in uno Stato
dell’Unione diverso da quello di appartenenza. Né,
infine appare rilevante la questione di costituzionalità, così
come prospettata in termini generali, in quanto il cittadino italiano
potrebbe ottenere il riconoscimento del diritto al ricongiungimento
con un partner di un unione registrata o attestala nel - paese che
riconosca alla prima gli stessi effetti del matrimonio o non richieda
che l’attestazione debba provenire necessariamente da parte
dello stato di appartenenza (come previsto dall’art. 3, 2°
comma lettera b) della direttiva n. 38/2004), mentre la restrizione
del suo diritto discende soltanto dal fatto oggettivo del mancato
esercizio del diritto di circolazione o soggiorno in altro Stato
dell’Unione, che il diritto comunitario considera come
requisito per l’applicazione della disciplina più
favorevole.


Ciò
senza considerare che, per le ragioni indicate nel paragrafo n. 3, la
mancata equiparazione al coniuge del partner di unione registrata o
attestata, ai fini della disciplina dell’immigrazione, non
appare in contrasto con alcun principio costituzionale.


In
conclusione il ricorso deve essere respinto.


Nulla
sulle spese in quanto gli intimati non hanno svolto attività
difensiva.


P.Q.M.


Rigetta
il ricorso.